Esistono luoghi ed esistono luoghi “altri” detti eterotopie. I primi, tipo casa nostra, ci sono, i secondi ci potrebbero essere ma spesso non ci sono perché siamo troppo pigri. La differenza tra un luogo e un’eterotopia è che nel luogo ci sta qualcuno o qualcosa – nell’esempio della casa: una famiglia, un arredo – nell’eterotopia ci sta più o meno tutto, c’è un mondo. Il museo è un’eterotopia perché raccoglie tutta l’arte che possiamo desiderare. Anche il tappeto è un’eterotopia perché nei disegni è compendiata la fauna e la flora dei giardini persiani. Il gioco degli scacchi è un’eterotopia, temporale oltre che spaziale, perché l’alternanza delle quattro caselle di centro riproduce i cicli cosmici e il cambio delle stagioni sul cui sfondo gli eserciti bianco e nero si danno battaglia. Esistono eterotopie più dinamiche e ingombranti di quelle appena ricordate, un esempio è il Burning Man, luogo di tutte le feste possibili e di ogni eccesso dove una volta all’anno arrivano legioni di sciamannati dai quattro angoli della Terra.

Il primo Burning Man della storia è stato Fiume, un festival cominciato il 12 settembre 1919 e durato sedici mesi, organizzato da D’Annunzio e altri fegatacci che – ma forse era un pretesto – non volevano che la città a maggioranza italofona diventasse parte del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Tra i primi a congratularsi ci fu il Club Dada di Berlino che inviò un telegramma al Corriere della Sera: «Conquista grandiosa impresa dadaista per il cui riconoscimento interverremo con tutti i mezzi». Ci andò anche Marinetti, futurista fuori e dannunziano dentro (almeno a giudicare dall’abitazione milanese in via Senato, un diluvio di marocchinerie, velluti, drappi e luci soffuse). Il suo Diario fiumano è stato ripubblicato in questi giorni con una documentatissima e utilissima prefazione di Guido Andrea Pautasso.

I manuali scolastici mettono in primo piano il volto corrusco e soldatesco di quell’avventura, ma a Fiume – oltre ai bolsi colonnelli del regio esercito – si erano dati appuntamento gli eccentrici di tutta Europa. Per che fare? Sperimentare e festeggiare, con le parole e con l’azione. Uno dei protagonisti, lo scrittore-musicista belga Léon Kochnitzky, così ricorda il periodo fiumano: «Si danzava dappertutto; in piazza, ai crocevia, sul molo; di giorno, di notte, sempre si ballava, si cantava: né era la mollezza voluttuosa delle barcarole veneziane; piuttosto un baccanale sfrenato. Sul ritmo delle fanfare marziali si vedevano turbinare, in scapigliati allacciamenti, soldati, marinai, donne, cittadini, ritrovanti la triplice diversità delle coppie primitive che Aristofane vantò» (Pautasso 2020, p. 12). A Fiume c’era tanta cocaina quanta polvere da sparo e, dopo i soldati, le categorie più rappresentate erano gli artisti, gli anarchici e gli omosessuali stanchi di nascondersi.

Diciamo la verità, le parole di Kochnitzky funzionano come un’enorme consolazione per un tempo, il nostro, che i soloni di Youtube considerano gaudente e liberato e invece è piagnone, risentito e metooisticamente persecutorio. Inoltre è una bellissima rievocazione da gettare in faccia ai bigotti sovranisti che ogni tanto cianciano di D’Annunzio e cose simili ma sono troppo brutti e tristi per farlo, nazionalisti di cartapesta che della “nazione” non conoscono manco la lingua perché la imparano dai giornali o dalle fogne complottare di Internet dove ci scrivono dei somari come loro. Quale trattamento riserverebbero i baciapileschi lettori della Liberoverità a uno, Marinetti, che andava nelle piazze strologando ad alta voce su come svaticanizzare l’Italia e dicendo ai passanti il disprezzo che nutriva per la famiglia “naturale” fatta così e cosà? (ivi, p. 20). A Fiume si poteva divorziare e Guglielmo Marconi – mandato del governo italiano per calmare gli animi – non se lo fece dire due volte.

Marinetti restò poche settimane perché era troppo matto anche per Fiume. Se gli avessero dato retta il Natale di sangue sarebbe arrivato con un anno di anticipo. Dalla città portuale voleva lanciare una sommossa capace di scuotere l’Italia intera e convertire la sua «cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni» alla causa di una festa permanente. Fu congedato con un pretesto, ma è bello leggere i passi del Diario che trasfigurano Fiume nella città futurista perfetta: il viaggio a tutta birra su un’automobile che fa un incidente clamoroso e si sfascia (ivi, p. 59) – proprio come succede nel Manifesto del 1909 –, i locali pubblici ridotti a luccichii e linee-forza che frammentano lo spazio («In piedi su un tavolo, nel caffè rumoroso scintillante di specchi incendiati e fitti di gesti […]. Parlo con violenza sopra i bicchieri di champagne alzati e moltiplicati dagli specchi» ivi, p. 65).

Già, lo spirito fiumano-futurista. Tutta quella fatica e quell’allegria scomposta, ma in nome di cosa? La “patria”, la “nazione”? Tra le idee partorite dall’Ottocento non ce n’è una più plebea e rovinosa, però a Fiume era davvero una foglia di fico. Fiume è un istantaneo melting-pot (c’erano anche americani, un egiziano e un poeta giapponese, forse l’unico più piccino del Vate che infatti amava molto la sua compagnia), impensabile senza l’immediata circolazione delle notizie che funzionavano da esca e la velocità dei mezzi di trasporto. Un esempio luminoso di bella globalizzazione.

Più si strillava Italia!, più si facevano altre cose, quelle che abbiamo detto, ma anche – robetta da nulla! – la Carta del Carnaro, una costituzione repubblicana grondante letteratura e rivoluzione russa nella quale si proclamava la «democrazia diretta che ha per base il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali. Essa conferma perciò la sovranità collettiva di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di classe e di religione; ma riconosce maggiori diritti ai produttori e decentra per quanto è possibile i poteri dello Stato». I Soviet e Cattaneo contro Hegel e Roma. Fiume è Wu Ming senza le citazioni. Fiume è la grande eterotopia della sperimentazione dove “patria” diventa la variabile lessicale di una cosa più solida e concreta, il coraggio, il thymos dei volontari che non avevano nulla in comune se non la sventatezza dei bambini che giocando a indiani e cowboy cadono e si sbucciano le ginocchia o si rompono un dente. Coraggio artistico, anzitutto, ma anche politico, militare, civile.

Coraggio… Questa parola suona male, malissimo, alle nostre orecchie, vero? Meno peggio di “audacia” ma non troppo. Parlare del “coraggio” fiumano ci fa pensare che – lo dicono a scuola e anche nei documentari della Rai – “l’impresa preconizzò il fascismo”. Ma è falso, è l’hysteron proteron dei barbagianni che misurano il prima con il metro del poi. È l’esatto contrario a essere vero: il fascismo ha mortificato l’impresa fiumana, ne ha ucciso la vivente poesia. Se ci viene così difficile ascoltare l’avventura di Fiume e parlarne, la colpa è proprio del fascismo e dei suoi crimini contro il linguaggio. Mi spiego. Forse qualcuno si ricorda dello Hitler di Syberberg, in particolare un monologo della voce narrante che andrebbe riportato per intero perché vale più di tutti i predicozzi fradici di moralismo che non sortiscono nessun effetto: i professori li dicono e li ridicono, i ragazzi li ascoltano, ci ponzano sopra qualche lustro e poi votano la Lega dei Fratelli. Lo riassumo in due righe: il crimine fascista di cui ancora subiamo le conseguenze è l’imbastardimento di tante, troppe parole, “coraggio”, “onore”, “fedeltà”, “mito”, “destino”, “irrazionale”…, che noi guardiamo attraverso un vetro come si fa con le bestie schifose del rettilario. Anche “nichilismo” puzza di fascismo e invece c’è dentro tutta la libertà che ci aveva messo Nietzsche. Anche “Fiume”.

Ma Syberberg – come Achille Lauro – se ne frega e nel suo Ludwig innalza una preghiera alla Santa Trinità Tedesca Sehnsucht (slancio), Heimweh (nostalgia), Wahnsinn (delirio) senza la quale la Germania e con essa mezza Europa, semplicemente, non sono. Noi che, invece, non ce ne freghiamo, pronunciamo solo parole asettiche, sulle quali siamo tutti d’accordo perché non significano niente, “soldi” e “tolleranza”, anche se la vita è un nodo di miserie splendidamente intollerabili. Lo sappiamo ma non lo diciamo. Se a uno capita di usare parole un poco eccentriche, drizziamo subito le orecchie come fanno i cani e le spie perché, dopo ottant’anni, rimaniamo le vittime e i complici del cattivo incantesimo che il fascismo ha gettato sul linguaggio e manchiamo di coraggio. Quest’ultimo, d’altra parte, è una qualità che oggigiorno gli dèi distribuiscono con grande parsimonia. Ne hanno dato troppo a gente come Marinetti e D’Annunzio, quindi è sicuro che staremo freschi ancora per un bel po’.

Riferimenti bibliografici
M. Foucault, Utopie. Eterotopie, Cronopio, Napoli 2006.
G.B. Guerri, Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, Mondadori, Milano 2019.
C. Salaris, Alla festa della rivoluzione: artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume, Il Mulino, Bologna 2002.
H.J. Syberberg, Hitler, ein Film aus Deutschland, Rowholt, Hamburg 1978.

Guido Andrea Pautasso, a cura di, Filippo Tommaso Marinetti. Diario fiumano. Il sogno incandescente di Marinetti e dei futuristi a Fiume, ITALIA storica, Genova 2020.

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