Non esiste, forse, film in grado di disinnescare l’immaginario classico della liturgia processuale di quel genere noto, in particolare in ambito anglosassone, come courtroom drama, come la reinterpretazione del testo kafkiano operata da Orson Welles ne Il processo (1962). Joseph K è un anonimo impiegato che un giorno come tanti al suo risveglio è accusato di aver infranto la legge. Non sa quale sia il reato imputatogli, quale la colpa commessa, tutto ciò che gli è noto è, appunto, il suo status di “accusato”.
Questa condizione estraniante viene magistralmente resa attraverso la proposizione del tribunale come antro oscuro, labirintico, molto lontano dalla sfarzosa simbologia processuale tipica dei film giudiziari. Non c’è spazio per l’autorità e la legittimità trasmesse tramite le forme cerimoniali e rituali, piuttosto si tratta di un territorio dove si incrociano una miriade di altri luoghi tramite porte-comunicanti in un trionfo di piani sequenza e profondità di campo: l’appartamento dell’avvocato Hastler, la cattedrale, lo studio del pittore Titorelli, i lunghi e angusti corridoi. Per quanto comunicanti, però, nel film di Welles gli spazi emergono come universi frammentati, in cui la pratica giudiziaria e il rito processuale rivestono una funzione ancor più estraniante. Dunque, a geometrie ammassate si sostituiscono spazi simmetrici, adiacenti a cavità oscure e senza forma o, ancora, palazzi in vetro e cemento si intersecano per confondersi con chiese gotiche. Tutto questo mentre ogni ripresa schiaccia i personaggi ai soffitti incombenti.
Nel testo dedicato alla scrittura nomadica di Kafka, Deleuze e Guattari indicano alcune affinità tra lo scrittore praghese e Orson Welles, avvicinando i concatenamenti dei romanzi kafkiani proprio alle architetture del cinema di Welles, fatto di profondità di campo e trasversali contigue. Ad esempio, il tribunale si materializza come uno spazio impenetrabile e obliquo da cui è possibile accedere a vari altri luoghi claustrofobici: spazi allargati come la sala della banca dove K lavora, o luoghi ristretti, la stanza in affitto, l’appartamento dell’avvocato, o lo stanzino dove vengono puniti i poliziotti corrotti. Molto lontano dall’idealizzazione dell’aula giudiziaria, spogliato della sua liturgia, delle sue immagini e dei suoi simboli, il palazzo di giustizia è reso uno degli spazi dello estraniamento dell’uomo moderno, in cui la legge rimane muta e sconosciuta.
Nella sua analisi archeologica del termine liturgia, Agamben parte proprio dalla sua originaria determinazione politica di prestazione pubblica nella società greca. Nella ricostruzione del potere della liturgia da lui operata, il dogma è alla radice del mistero e della trasmissione di una gerarchia. La liturgia è una pratica ed è tale nella misura in cui tende a incrementare l’azione collettiva (il ritornello, il coro, il fedele). Che ne è di questo rapporto, intimo e antico, tra diritto e immagine al secolo della rivoluzione tecnologica, della diffusione ipertrofica delle immagini e dell’economia globale? Le immagini come testimoni di convenzioni sociali e fattori di costruzione culturale della società e dentro il diritto è una delle questioni più rilevanti affrontate dal volume collettivo Derecho Y Cultura. La norma y la imagen (2019), a cura di Ignacio Aymerich Ojea e Jesús García Cívico.
Il mondo giuridico è l’universo dell’argomentazione e l’argomentazione, a sua volta, si dispiega mediante il linguaggio. Convincere, però, non è esclusivamente una questione linguistica. Che ruolo allora gioca l’immagine su questo terreno? Prendendo in considerazione, ad esempio, il celebre Specchio Sassone, la più rilevante raccolta normativa del medioevo tedesco, è emblematico come il testo scritto sia accompagnato da miniature che illustrano il senso del testo stesso. In ogni caso, al di là della dimensione visuale, l’importanza dell’immagine sembra connessa alla sua forma di rappresentazione pubblica. Scopo del corpus giuridico è infatti sistematizzare il diritto per rendere più facile la sua applicazione da parte degli operatori, ma anche e soprattutto renderlo accessibile al pubblico. Assolvere, cioè, a una funzione liturgica secondo il principio essenziale del diritto nemini licet ignorare ius.
Per testare gli effetti delle immagini oltre i confini delle immagini, i contributi raccolti in Diritto e cultura tentano di pensare il diritto da una prospettiva culturale eminentemente storico-sociale. Un metodo dunque che non ha l’obiettivo di indagare metafisicamente le idee giuridiche, ma di favorire la connessione tra filosofia del diritto e sociologia del diritto in quanto intrinsecamente connesse dalla condivisione di un’unica matrice culturale, ossia la modernità. Com’è noto la relazione tra cultura e diritto è stata esplorata da molti autori classici – da Hegel a Weber – ma, a prescindere dalle possibili analisi antropologiche, psicologiche o estetiche, appare evidente che il diritto sia un fenomeno sempre multidimensionale proprio perché costituito ontologicamente da una vasta e complessa dimensione culturale in cui la cultura forma parte della relazione tra uomo-società-cultura-diritto.
L’interdizione della tortura processuale, la discussione razionale e l’analisi critica che con il secolo dei lumi inaugurano la stagione dei diritti civili e ancora l’abolizione della schiavitù, il suffragio femminile, la sensibilità verso l’ambiente sono, ad esempio, tutti elementi culturali che si riferiscono all’evoluzione progressiva del diritto e al fondamento della sensibilità giuridica che oggi viviamo. La dimensione culturale, però, non si riferisce esclusivamente all’arte e alla letteratura, ma anche alla trasformazione in generale della vita pubblica: dall’istituzione parlamentare, alla stampa fino ai caffè letterari, ossia quella dimensione dell’opinione pubblica nelle democrazie studiata da Habermas in Storia e critica dell’opinione pubblica.
Quali immagini del giudizio e del diritto vengono riprodotte e diffuse in un mondo in cui la proliferazione e il consumo ne è favorito dalle nuove tecniche di produzione e riproduzione? Quale rapporto si instaura tra universo giuridico e cinema? Quali sono i possibili effetti del condizionamento mediatico che i prodotti audio visuali hanno sullo spettatore? Ci sono conseguenze sulla cultura giuridica diffusa e sul sentire giuridico comune? In un’epoca, come quella contemporanea, in cui l’intera umanità condivide il medesimo sistema economico di mercato, il medesimo sistema geopolitico, scientifico, ma anche lo stesso sistema di “ficciones explicita” (il cinema), risulterebbe indispensabile un’effettività del diritto che sia a sua volta esteso globalmente, non solo, ad esempio, rendendo i diritti umani strumenti giuridici, ma includendo quei valori culturali di eguaglianza e democrazia che hanno permesso che tali diritti potessero essere pensati.
In una prospettiva culturale di questo genere nessuna delle diverse componenti (economica, geopolitica, scientifica, simbolica e legale) può essere considerata come patrimonio esclusivo di una nazione avanzata o di un continente privilegiato. Al contrario, l’idea culturale presuppone un gioco di influenze reciproche tra, ad esempio, la costituzione tedesca e quella spagnola, tra la dottrina normativa Italia e quella dell’America Latina. Alla prospettiva culturale del diritto qui sostenuta interessa una concezione di cultura che abbia ben presente la storicità del pensiero dell’universale e che a sua volta conservi una proiezione universalista essenziale per la filosofia del diritto. Legata alla riflessione critica e vincolata all’idea di progresso una visione della cultura in senso accumulativo fa riferimento ad un elemento assiologico capace di difendere la possibilità di una Norma Mundi, cioè, di un diritto internazionale che a sua volta sia il risultato di un processo di maturazione di un’accumulazione critica di diversi fattori.
In una contemporaneità in cui dispositivi sempre più sofisticati sono un filtro tra il mondo in cui siamo ed i mondi artificiali e immaginari prodotti e veicolati da questi dispositivi, le immagini, e il cinema in particolare, possono essere considerati come parte fondamentale della costruzione di codici sociali e modelli normativi. In questo senso, più che con riferimento alla rappresentazione del diritto nel cinema, i film possono essere letti come una serie di aperture teoriche per problematizzare e sviluppare criticamente una serie di concetti giuridici fondamentali. Non si tratterà, pertanto, di ripercorrere i modi in cui la realtà giuridica viene rappresentata al cinema, bensì di sperimentare come attraverso il cinema sia il diritto, con i suoi caratteri, a potersi precisare, ad essere messo in questione.
Il cinema può sperimentare in termini di realtà la consistenza delle norme: può Il ragazzo selvaggio (1970) di Truffaut confutare l’idea della naturalezza socio-linguistica dell’uomo, del buon selvaggio di Rousseau? Può illustrare alcune questioni proprie del diritto, della filosofia morale e politica? Può El crimen de Cuenca (Pilar Miró, 1980) valere come una vera e propria introduzione alla formazione giuridica mostrando le possibili attitudini del diritto, le sue diverse forme di intenderlo? Come fare allora a penetrare quei luoghi labirintici, distanti e muti della legge? Forse risulta necessario distogliere i nostri occhi dal testo e dare credito alle immagini, divenire eruditi nel visuale, procedendo, così, figurativamente e non solo testualmente. Con lo storico dell’arte Didi-Huberman, dovremmo aprire all’immagine, approssimarci al suo senso, contrastando la riduzione a lettera morta del testo e della legge.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Opus Dei. Archeologia dell’ufficio. Homo Sacer II, 5, in Homo Sacer, Edizione integrale 1995-2015, Quoldibet, Macerata 2018.
I. Aymerich Ojea, J. García Cívico, a cura di, Derecho y cultura. La norma y la imagen, ediciones canibaal, Valencia 2019.
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quoldibet, Macerata 2010.
G. Didi-Huberman, L’immagine aperta, Bruno Mondadori, Milano 2008.
J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza, Bari 2005.