«Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità» (2 Ts 3, 11-12). L’esortazione dell’apostolo Paolo ai Tessalonicesi contiene un’osservazione che, al di là del contesto in cui si trova, offre uno spunto interessante per ragionare su un fenomeno antropologico dai tratti paradossali: l’inattività agitata o, come la definisce Paolo Virno nel suo ultimo libro, la «paralisi frenetica» cui va incontro una potenza restia a tradursi in atto. Che si tratti dei cristiani di Tessalonica, nullafacenti e al contempo sempre agitati, o dei lavoratori precari appesi al rinnovo di un contratto a progetto, lo stallo entro cui la vita umana è costretta deriva frequentemente non da una pura e semplice mancanza di potenza ma, sostiene Virno, «da una impotenza dovuta all’eccesso inarticolato di potenza, provocata cioè dall’affollarsi oppressivo e assillante di capacità, competenze, abilità» (Virno 2021, p. 9).
Non dunque la penuria, ma l’infinita disponibilità della potenza, che stenta a dar luogo al corrispettivo atto, è ciò che in determinate condizioni costringe nell’angolo l’essere umano. Tale fenomeno è antropologico, cioè inscritto tra le possibilità della nostra specie, ma si incarna in figure riconoscibili della contemporaneità, come appunto la moltitudine dei lavoratori cognitivi. Con una notevole differenza rispetto ai Tessalonicesi, cui Paolo rivolgeva, subito prima del passo che abbiamo letto, la nota ingiunzione «chi non vuol lavorare, neppure mangi»: il precariato contemporaneo si nutre – suo malgrado – proprio del non lavoro, tenendosi sempre pronto a una prestazione che stenta a tradursi in una reale attuazione della potenza ma finisce, nel migliore dei casi, per ridursi a una performance puntuale, «una esecuzione senza predecessori né eredi, il cui pregio presunto è di essere irriproducibile» (Virno 2021, p. 101). La differenza principale tra i Tessalonicesi, agitati e inattivi, e i lavoratori precari, impotenti e sempre pronti a un atto che non si realizza mai, è che nel primo caso l’impotenza è stigmatizzata come un vizio, da correggere attraverso il lavoro, mentre nel secondo caso l’adynamia, l’inibizione costante del passaggio all’atto, costituisce essa stessa la trama della routine lavorativa e, con i suoi corollari di flessibilità, formazione costante, soft skills e “buone pratiche”, viene apprezzata come la più alta delle virtù.
Quanto detto valga come prologo, o come indicazione circa i problemi presi in esame da Virno, che nel corso della sua argomentazione riporta la fenomenologia delle forme di vita contemporanee alla sua radice schiettamente filosofica, prendendo come punti di riferimento la trattazione aristotelica della coppia potenza-atto – con i suoi diversi addentellati: (im)potenza di fare, (im)potenza di subire –, la riflessione sulla classe delle cosiddette azioni negative (omettere, rinunciare, astenersi e altre) e la nozione di hexis, abitudine, intesa sotto i due aspetti contrastanti di stato o di attività. Proverò a dare conto brevemente dell’argomentazione svolta da Virno mettendola in relazione con i suoi precedenti lavori. Dell’impotenza costituisce infatti un ideale sequel del precedente Avere. Sulla natura dell’animale loquace (2020) ma per molti versi rappresenta anche una continuazione con altri mezzi (o sotto altri punti di vista) dell’indagine logico-antropologica impostata a partire da Grammatica della moltitudine (2001) e articolata nei suoi diversi aspetti in Quando il verbo si fa carne (2003), E così via, all’infinito (2010) e Saggio sulla negazione (2013).
A vent’anni esatti dalla pubblicazione di Grammatica della moltitudine, in cui erano stati delineati i tratti salienti della moltitudine post-fordista e del general intellect messo al lavoro, Virno osserva come l’impotenza che affligge le forme di vita contemporanee derivi non da una mancanza ma da un eccesso di potenza, e come questa stessa proliferazione della potenza, apparentemente infinita, rappresenti un ostacolo alla rispettiva attuazione. «L’impotenza è l’esperienza diretta, abbagliante, parossistica della potenza in quanto tale, o meglio, della potenza che resta tale» (Virno 2021, p. 26), intesa tanto quanto potenza di fare (dynamis tou poiein) quanto come potenza di subire (dynamis tou paschein). L’impotenza contemporanea si rivela pertanto anche come incapacità di compiere gli atti caratteristici del patire: accogliere, sottrarsi, aderire, resistere. Ed è proprio «l’impotenza di subire, la dolente adynamia tou paschein, (a essere) trasfigurata a virtù civile grazie al culto della “flessibilità” e della “formazione ininterrotta”. A velare la carenza di atti del sopportare provvede sempre di nuovo la sovrabbondanza di atti sopportati» (ivi, p. 43).
Accanto agli atti derivanti dalla potenza di fare e dalla potenza di patire, vi è un altro genere di atti, che Virno definisce negativi, i quali condividono la prerogativa attribuita già nel Saggio sulla negazione alla parola “non”: la capacità di sospendere senza sostituire. La facoltà di sospendere, all’origine delle azioni negative, «si applica sempre e soltanto al passaggio dalla potenza all’atto» (ivi, p. 53) ovvero ostacola il tradursi in atto di una facoltà o abilità che resta tale. Ed è proprio questa facoltà di sospendere che assume i tratti della «dynamis che genera adynamia» (ivi, p. 54), potenza capace di disinnescare ogni atto e rendere permanentemente inattuale la potenza stessa.
Questa sorta di meta-potenza sembra tenere in ostaggio le forme di vita contemporanee in un eterno differimento e in un esitare senza limiti. Ma come superare lo stallo tipico di questa sorta di «inattualità atmosferica»? Il rimedio proposto da Virno riporta alla memoria le tecniche di interruzione del regresso all’infinito già presentate in E così via, all’infinito: intervenendo su se stessa, la facoltà di sospendere porta a omettere l’omissione, riesce a rinunciare alla rinuncia, rendendo possibile una attualità nuova e alternativa rispetto a quella che l’ingorgo della potenza teneva in scacco.
Il problema dell’impotenza dovuta a eccesso di potenza non deriva tanto dal fatto di avere facoltà e abilità, quanto dal come, dal modo in cui effettivamente ne siamo in possesso. Riprendendo e ampliando la riflessione sulla hexis (da echein, avere, così come habitus da habeo) già sviluppata nel suo libro precedente, Avere, Virno distingue due forme di abitudine: intesa come stato, l’abitudine non fa che amministrare oculatamente la potenza; come uso, essa fa da intermediaria tra il soggetto e l’oggetto dell’avere, ovvero tra l’individuo e la potenza che esso riesce ad attuare. L’amministrazione delle facoltà nel capitalismo contemporaneo scoraggia costantemente l’abitudine come uso delle facoltà stesse, determinando una tesaurizzazione parsimoniosa (per non dire avara) delle proprie abilità che non passano mai in atto. Sottratta all’uso, la facoltà amministrata e messa da parte assume i tratti di una potenza illimitata e amorfa; priva di atti potenziali, di una griglia di mansioni o di una tabella di compiti, essa non trova altra attuazione che la performance senza passato e senza futuro del lavoro precario.
La proposta di Virno, presentata nell’ultimo capitolo, ruota attorno alla nozione di istituzione che «fungendo da metaxu o anello intermedio, garanti(sce) l’attuazione di una potenza indifferenziata e smodata» (ivi, p. 110). L’istituzione, questo “tra” reificato, attua il buon governo dell’infinito circoscrivendo e rendendo maneggiabile la potenza che sembrava illimitata attraverso tecniche, esperimenti e idee di cui la moltitudine precaria è portatrice.
Tra le molte piste possibili, scelgo di seguire sinteticamente una traccia teologico-politica. Se l’ordine di questioni affrontate da Virno, come visto all’inizio, era passibile di un confronto con il testo paolino, l’esito del libro ha addirittura un sapore eckhartiano. Vediamo perché. Nella pars construens che conclude il saggio, Virno scrive:
Per debellare lo stato d’impotenza cronico, fomentato negli ultimi decenni dalle azioni negative, l’istituzione mobilita contro tali azioni proprio la dynamis da cui provengono, facendo in modo che si ometta l’omissione, ci si astenga dall’astenersi, si differisca il differimento. […] Quell’organizzazione esiste, se e quando esiste, non come libera decisione di agire, ma unicamente come rinuncia a rinunciare all’agire (Virno 2021, pp. 127-128).
Il compito dell’istituzione delineata da Virno e la sua stessa natura provengono dall’esercizio riflessivo della facoltà di sospendere, ovvero dal compimento di atti negativi di livello superiore su atti negativi inferiori che tengono la moltitudine nel limbo di un’impotenza frenetica e insieme statica. Il dispositivo logico che presiede a questa tecnica di interruzione dell’infinita (im)potenza è una forma logica già altrove analizzata da Virno (2013): la doppia negazione. Il “non” ci danna – ci condanna all’impotenza – ma allo stesso tempo il “non” ci salva, ovvero ci immette nuovamente nel campo dell’attuale, a patto che la seconda occorrenza si applichi riflessivamente sulla prima, disinnescandone gli effetti nefasti. La doppia negazione come forma logica della salvezza viene indicata in tutt’altro contesto da Meister Eckhart (1260-1328), che così intende il rapporto tra Dio e la creazione segnata dal peccato. Dio è Uno, scrive Eckhart nel senso che è «una negazione della negazione e un rinnegamento del rinnegamento» (Eckhart ed. 2014, p. 833).
La molteplicità delle creature proviene da una negazione che separa e turba l’unità originaria, la quale non coincide però con l’unità di Dio, posta a un altro livello logico: «Tutte le creature hanno una negazione in loro; una nega d’essere l’altra. Un angelo nega d’essere un altro. Ma Dio ha una negazione della negazione, egli è uno e nega tutto l’altro perché nulla è fuori di Dio. Tutte le creature sono in Dio e sono la sua stessa Deità […]» (ibidem). La negazione che si applica ricorsivamente a se stessa, tanto nel caso delle istituzioni di cui si dota il precariato contemporaneo quanto nel confluire delle creature all’unità divina, rappresenta una salvezza in nessun modo regressiva, ossia nostalgica di un ritorno a uno stadio precedente, ma addita un orizzonte inedito, una attualità a venire.
È così che il cognitariato contemporaneo, che ancora langue nell’impotenza dovuta all’eccesso di facoltà che stenta a rovesciarsi in atti, è discendente dei Tessalonicesi cui si rivolgeva Paolo e confratello di chi, con Eckhart, aspirava all’unità come negazione della negazione. Diverso contesto, stessa forma logica, ma questo non deve creare eccessivi scrupoli: se di indagine logico-antropologica si tratta, rintracciare una medesima forma in fenomeni diversi può essere anzi una conferma del fatto che si sta osservando qualcosa di essenziale della forma di vita umana.
Riferimenti bibliografici
Meister Eckhart, Le 64 prediche sul tempo liturgico, a cura di L. Sturlese, Bompiani, Milano 2014.
P. Virno, Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001.
Id., Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
Id., E così via, all’infinito. Logica e antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 2010.
Id., Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
Id., Avere. Sulla natura dell’animale loquace, Bollati Boringhieri, Torino 2020.
Paolo Virno, Dell’impotenza. La vita nell’epoca della sua paralisi frenetica, Bollati Boringhieri, Torino 2021.