L’esposizione Heavenly Bodies. Fashion and the Catholic Imagination (fino all’8 ottobre 2018) si espande attraverso gli spazi del Metropolitan Museum di New York oltre gli stessi.
Una serie di manichini che indossano preziosi costumi color oro e argento guidano il visitatore dalla sezione del museo dedicata all’arte bizantina e medievale alla Sculpture Hall del primo piano, dove per l’occasione sono esposti abiti di Chanel, Dolce & Gabbana, Yves Saint Laurent, Versace ecc. Si tratta di abiti femminili e maschili, straordinariamente sfarzosi oppure estremamente sobri, come possono esserlo quelli di un Papa o di un importante cardinale, quelli di un prete o di una suora. Non si tratta di una battuta o di un estemporaneo accostamento. L’obiettivo della mostra è proprio questo: mostrare la ripresa e trasformazione delle forme artistiche e vestimentarie cristiane e cattoliche all’interno dell’alta moda.
L’esposizione di opere d’arte antica e abiti contemporanei prosegue dunque negli spazi del MET Cloister, mentre presso l’Anna Wintour Costume Center – dove è proibito realizzare fotografie – si possono osservare accessori papali della sacrestia della Cappella Sistina: dagli abiti medievali e rinascimentali perfettamente conservati alla tiara di Pio IX, fino alle scarpe indossate da Giovanni Paolo II negli ultimi anni di pontificato.
Si tratta di un progetto espositivo e di un allestimento che non lasciano indifferente il visitatore. Il blog ufficiale della mostra riporta tanto commenti entusiastici quanto scioccati: «Avete totalmente e forse intenzionalmente “dimenticato” che gli oggetti religiosi hanno prima di tutto un significato, un contenuto e un’importanza religiosa», scrive un utente l’11 maggio. E ancora prosegue, «Li avete considerati come esempio di arte per l’arte, privandola del significato e dello scopo originale». Al di là dei toni fin troppo accesi di questa critica, Heavenly Bodies suscita quantomeno due domande strettamente connesse agli oggetti in mostra e una piccola riflessione sul cinema, che occupa le ultime righe di questo articolo.
La prima questione riguarda l’opportunità e il senso di esporre abiti d’alta moda all’interno di un’istituzione come il Metropolitan. A tal proposito, possono tornare alla mente le polemiche scoppiate in Italia – e non soltanto in Italia – in relazione alla realizzazione di progetti espositivi o di eventi spettacolari legati al mondo della moda all’interno di spazi museali. Certo, un progetto come quello di Heavenly Bodies non coincide con una passerella. Il MET è inoltre un’istituzione che vanta una lunga esperienza in questo campo, tanto da aver dedicato un intero progetto al lavoro di Gianni Versace nel 1997, a pochi mesi dalla sua morte. Anziché schierarsi genericamente contro o a favore di progetti espositivi di questo tipo, sembra piuttosto opportuno affrontare la questione valutando caso per caso, pronti a riconoscere la qualità scientifica e artistica di allestimenti dedicati ad abiti d’alta moda come ad altri oggetti mondani.
La seconda domanda riguarda l’opportunità di esporre tali preziosi costumi contemporanei insieme ai paramenti che hanno dato figura al potere della Chiesa e che hanno dato forma alla ritualità religiosa nel corso dei secoli. Trasformando il titolo di un libro di Mario Perniola, si potrebbe dire che quella del MET è una mostra sul vestire cattolico, e questo almeno da due punti di vista. Il primo è che Heavenly Bodies focalizza in modo esplicito l’importanza assunta dall’esteriorità all’interno della cultura occidentale, il «“sentire dal di fuori”, dalla cui comprensione deriva il riconoscimento di un “sentire cattolico”, dotato di caratteri autonomi irriducibili al sentimento soggettivo» (Perniola 2001, p. 14). Il secondo motivo costituisce un risvolto critico del procedente e mette in rilievo le problematiche implicate in un’ideologizzazione dell’esteriorità come tendenza delle società contemporanee: «Nonostante la situazione di profonda miseria intellettuale che essa implica – scrive ancora Perniola – la condizione sensologica mi pare più favorevole di quella ideologica alla riscoperta del sentire cattolico, perché essa è focalizzata non più sull’aspetto cognitivo della fede, ma su quello sensitivo dell’esperienza» (ivi, p. 35).
Le due citazioni dal libro di Perniola potrebbero spingere la riflessione molto lontano, in un campo aperto nel quale è fin troppo facile perdersi. Ma a suscitare l’attenzione e la curiosità nella mostra organizzata al MET non sono soltanto gli sfarzosi abiti – sacri o profani che siano – quanto un piccolo bizzarro oggetto appoggiato in un angolo. Appena entrati nella grande sala centrale dell’esposizione, ecco che troviamo sulla destra uno schermo di piccole dimensioni, come quelli in uso qualche decennio fa. Diversi visitatori si sono fatti spettatori, imponendosi una sosta. In loop, passano le immagini della straordinaria sequenza di Roma (1972) di Federico Fellini nella quale suore, vescovi, cardinali e papi sfilano sfoggiando abiti barocchi e neobarocchi. Per quanto minuto lo schermo, si tratta di una sequenza che irraggia con il suo splendore l’intero percorso della mostra e senza la quale, in tutta evidenza, buona parte dell’immaginario artistico e mediatico contemporaneo sulla Chiesa Cattolica non avrebbe mai potuto svilupparsi: da Habemus Papam (2011) di Nanni Moretti a The Young Pope di Paolo Sorrentino (2016).
Un omaggio dovuto, da parte dei curatori della mostra, nei confronti di Federico Fellini? A ben vedere, si tratta di qualcosa di più, qualcosa di utile a capire l’importanza del cinema in quanto arte di confronto e raccordo tra forme espressive e culturali diverse e dunque l’importanza di quel minuscolo, ridicolo schermo all’interno dell’esposizione del MET.
Esplicitamente e formalmente ispirate alla sequenza di Roma sono del resto diversi abiti di Dolce & Gabbana presenti in mostra. Più in generale, riferimenti alla filmografia di Fellini si trovano da più parti, come un anello di congiunzione tra il repertorio storico-artistico, le forme della ritualità sacra e il sistema della moda. Un film, Roma, e una sequenza, la sfilata ecclesiastica, che focalizzano e danno forma – espongono – l’importanza dell’esteriorità, il “sentire del fuori” che si trova a fondamento tanto del potere religioso quanto – e in modo crescente – di quello civile. Se Perniola ha elaborato una riflessione teorica a cavallo tra estetica, politica e religione, la questione non era sfuggita a Omar Calabrese quando, nel suo tentativo di concettualizzare la tendenza neobarocca degli anni ottanta, menzionava, a poche righe di distanza l’una dall’altra, la «magistrale scena della sfilata di moda ecclesiastica in Roma» e «la cosiddetta ricerca del “look”, ampiamente favorita dagli sviluppi attuali della moda, e la rinascita delle grandi feste “di corte”, un tempo appannaggio dell’aristocrazia di sangue, o oggi rimesse in circolazione dalle più varie nuove aristocrazie […] Non per nulla, attorno a queste pratiche, nascono persino nuovi mestieri, come quello di “architetto delle feste”, “designer dei piatti di cucina» (Calabrese 1987, pp. 69-70).
È difficile esprimere un’opinione sulla riuscita di progetti espositivi come quello di Heavenly Bodies, che possono disegnare originali percorsi attraverso secoli lontani e forme espressive diverse, ma che rischiano talvolta di esaurirsi in semplici operazioni commerciali, dove la forza del rito e dell’iconografia sono banalizzate e dove anche l’alta moda è declassata a prêt-à-porter.
Sicuramente più facile è comprendere l’importanza assunta dal cinema – da Bresson a Pasolini, da Fellini a Sorrentino, da Bellocchio a Larraín – nell’analizzare le forme di sopravvivenza dell’arte e delle forme rituali cristiane nel contesto del Novecento, prefigurando il processo di secolarizzazione della liturgia all’interno del potere politico contemporaneo. Se i primi decenni della storia del cinema e della teoria del cinema si sono caratterizzati per il desiderio di confronto con la tradizione storico-artistica e con l’arte performativa e rituale, è oggi più che mai evidente che ciò non è stato soltanto per questioni di nobilitazione della “settima arte” o per il gusto del citazionismo. È piuttosto per questa via che – all’interno del cinema – sembra essersi aperto uno spazio di riflessione sugli esiti della ritualità e del sacro nell’epoca della riproducibilità tecnica.
L’improbabile televisore posto in un angolo del grande spettacolare salone del MET assegna dunque a Fellini e al suo cinema la posizione di centralità anacronistica che gli spetta. La sequenza di Roma, e con lei centocinquant’anni di immagini in movimento, si trovano al centro di questo e di altri progetti multimediali, in nome della capacità del cinema di prefigurare e indagare criticamente gli intrecci e gli innesti tra diverse forme espressive, cultura alta e cultura popolare, sacro e profano.
Heavenly Bodies, o del vestire cattolico, si diceva all’inizio. Ed è importante aggiungere che – per quanto apparentemente declassato a oggetto desueto – protagonista di questa mostra è anche il cinema in quanto forma espressiva intermediale. Una macchina capace di riflettere in modo critico e sperimentale sulla medialità stessa della mondanità, dove le forme della rappresentazione entrano a stretto contatto con le forme di vita, condizionandole e rigenerandosi continuamente a partire da queste.
Riferimenti bibliografici
A. Bolton, a cura di, Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination, MET, New York 2018.
O. Calabrese, L’età neobarocca, Laterza, Roma-Bari 1987.
P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010.
M. Perniola, Del sentire cattolico. La forma culturale di una religione universale, il Mulino, Bologna 2001.