Perché un alienato è anche un uomo che la società non ha voluto ascoltare e al quale ha voluto impedire di proferire insopportabili verità.
Antonin Artaud

Il rapporto tra la mutevolezza del mondo naturale e la visione umana racconta, per sua essenza, di un’infinita e radicata relazione di scambio impari. Il mondo offre i suoi colori e un’illimitata bellezza in costante metamorfosi, fasci di luce raccolti in flussi di riflessi e calore; l’occhio, al contrario, rimane in sé vuoto, predisposto al riempimento del quadro solo nell’incontro del/col mondo percepito. Vincent van Gogh stimava l’impronta della materia autoriale – consumata nella reiterazione di gesti veloci e febbrili – come fosse la densità immanente della natura mutevole, sinonimo di bellezza suprema. Julian Schnabel possiede un’analoga consapevolezza materica dell’arte, restituita in questa sede attraverso un tumulto di moto e colore in accordo alla sua visione doppia d’artista, contesa tra lo sguardo del pittore e quello del cineasta munito, appunto, di duplici strumenti del vedere.

Come sentire, dunque, la forza della pennellata sulla tela quando si ha con sé (solo) una macchina da presa? Schnabel si pone il quesito attraverso il personaggio intermediario di Vincent van Gogh, incaricato qui di parlare di arte e natura, di sentimento e ricerca del bello, prestando la sua voce dissennata e lucida al cineasta-pittore che, nel frattempo, realizza un nuovo quadro astratto concesso alla visione. Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità si presenta, al fondo, come riflessione su tutto quanto possa dirsi arte libera, e dal modello e dalla pura immaginazione autoriale, figlia di un modo del sentire senza compromessi che sappia incontrare la carne e il sangue del mondo.

Antonin Artaud, anch’esso corpo suppliziato in una mente brillante e burrascosa, definì le pitture di van Gogh come delle “bombe atomiche”, atti puri di crudeltà e violenza scagliati contro il conformismo delle istituzioni vigenti, in grado di ribaltare il modello naturale e destrutturarne al contempo la gravitazione interiore. E seppure la società non poté distruggerne od offuscarne la luce dell’arte, poté però invasare il corpo dell’artista, cancellandone il posto nel mondo e giudicandone la coscienza illuminata che in pochi eletti raggiungono in terra. Nelle opere rimaste, tuttavia, paesaggi e volti conservarono eternamente la rabbia e gli spasmi negati al corpo-van Gogh: la natura sulla tela resta per sempre dramma in azione, immagine in movimento della vita che supera il reale e lo trasfigura in un oscuro segreto interiore.

Julian Schnabel sembra raccogliere questa eredità indelebile con l’obiettivo di mostrarla nel suo farsi in un’immagine doppia – quella del cinema –, impiegando strumenti di natura diversa e affine a quelli per lui consueti del dipingere. La sua macchina da presa, dunque, gli fungerà da pennello, attraverso il quale tentare la restituzione di un’immediatezza del gesto e una sincerità non sempre raggiungibili attraverso la superficie filtrata dello schermo; duplicando, al fondo, ogni immagine, in un contenzioso esplicito tra arte del vero da superare e arte rivoluzionaria alla quale Schnabel sente di appartenere, senza mai rinunciare all’impronta del mondo già acquisita.

«Io sono la mia pittura», affermerà il genio olandese in una delle sue lunghe dissertazioni, ma è l’eco della voce del regista quella che proviene dalle spalle di Willem Dafoe. Allora, l’immagine si colora di gialli pallidi e l’inquadratura oscilla come una nave malferma, di modo che anche lo spettatore riesca ad avvertire insieme a lui/loro il delirio di un’arte straziante, nella soggettiva libera indiretta di un incubo, ove l’opera si fa e si disfa precipitosamente.

Il film di Schnabel diventa – nel mentre di un’operazione di astrattismo di colori e forme – la riproduzione stessa di alcune delle maggiori opere vangoghiane dell’ultimo controverso periodo di vita del pittore. Affianco a questo estetizzante atteggiamento di ripresa, il regista non tralascia di gettare lo sguardo sulla condanna borghese inflitta a van Gogh, vittima come molti altri artisti di una sorta di magia civica imperversante tra i costumi dell’epoca. Di qui la scelta di non compromettere il dialogo e la voce del protagonista, la quale affianca al sentimento dell’azione e alle tinte interiori riflesse esternamente, una prolissità di parole spese a discorrere di arte e antinaturalismo, di passione e dolore di vivere, nell’intenzione di difendere la presunta lucidità del pittore contro la società compromessa, che espelle il diverso relegandolo nel giudizio.

Non ci sono allucinazioni né fantasmi nelle mirabili opere vangoghiane, affermava Artaud; c’è, al contrario, una realtà nuova che si fa più vera del vero. Consapevole di tale riconfigurazione del corpo del reale in arte, Schnabel ricaccia i personaggi in carne e ossa verso la dimensione del fantasma: l’amato fratello Theo (Rupert Friend) sarà costruito alla stregua di un parto dell’inconscio dell’artista, alla pari dell’amico antinaturalista Paul Gauguin (Oscar Isaac); e tutti coloro che lo affiancheranno nel lento cammino verso la morte – a dubitare dell’arte tumultuosa del genio – costituiranno i segni di una frenetica rêverie, senza eccezione per il medico Paul Gachet (Mathieu Amalric) e la locandiera Madame Ginoux (Emmanuelle Seigner).

Se il suicidio di van Gogh sia accaduto davvero o sia stato anch’esso il frutto di una cospirazione contro di lui – il suicidato della società, tesi dichiaratamente avvicinata dal film, che trae spunto dallo scritto van Gogh: The Life –, ciò che più importa è il suo inestimabile lascito d’artista e filosofo. Il finale lapidario espone un corpo morto tra le innumerevoli tele che iniziano a vivere di vita propria, nel mercato implacabile dell’arte così ben conosciuto dall’artista newyorkese Schnabel. È questo il punto nel quale prende avvio l’eternità dell’opera prodotta e nel quale il regista riflette più schiettamente sul senso dell’essere artista, laddove solo l’arte tout court può segnare la ragione del vivere e del morire, raccontando l’inesprimibile in un linguaggio nuovo e liberatorio.

Schnabel non consegna soltanto un omaggio cinematografico al grande pittore olandese – come fu per il suo esordio, Basquiat (1996), dedicato all’artista e amico prematuramente scomparso –, bensì tesse una nuova opera, trasudando tutta la sofferenza del gesto. Riecheggiando l’urgenza di un linguaggio che sondi la materia del mondo convulsivo, per il quale il dolore diventi vita da opporre alla vigliaccheria della società più sordida, oggi più di allora: “Proviamo così tanta vergogna per la vita che ha vissuto che la storia dell’arte, d’ora in poi, sarà un risarcimento per averlo trascurato: nessuno vuole appartenere a una generazione che ignora un altro van Gogh!” (Basquiat).

Riferimenti bibliografici
A. Artaud, Van Gogh il suicidato della società, Adelphi, Milano 1988.
S. Naifeh, G. White Smith, Van Gogh: The Life, Random House, New York 2011.

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