Sei sulla metro, o sul bus, o forse stai guidando la tua auto a vuoto. I tuoi occhi si domandano quanto dista il mondo da quel parabrezza, se davvero accadrebbe qualcosa, qualora il paesaggio si avvicinasse troppo al tuo schermo. Ma questa è una domanda sciocca, un gioco di rêverie che preferisci perdere. Non dissimile, t’inerpichi sul promontorio vicino casa, quel piccolo anfratto dove trovi sempre una panca vuota, solo per te. Chiudi gli occhi, ed è ora il tuo naso a domandarsi quanto dista il mondo, da te e da quel respiro. Il pioppo tremula, sembra preannunciare un disastro o una meraviglia. Riapri gli occhi e torni al tuo gioco urbano. Accomodi la vista, cercando di carpire quell’unica cosa che ti sfugge: la distanza ariosa tra te e il mondo. Vorresti planare, ma il tuo corpo ti insegna cos’è una linea d’aria, e quanta fatica ti costano queste passeggiate solitarie. Rientri in strada come rientri in te, mentre un’immensa pellicola, un film di cellophane traslucido impreziosisce e allontana questo spettacolo ordinario, che si rimpicciolisce assieme alla tua distrazione. Strappi la bruma dal paesaggio, e ritorni a leggere distintamente i nomi delle fermate, dei negozi, strappi anche le foglie dei pioppi, che disegnano mucchi ai bordi delle strade e non tremano più.

L’esperienza si modula, condensa in un oggetto ambiguo e aperto, ma compatto, quasi-leggibile, come un décollage di Mimmo Rotella. Il plesso lettore-spettatore è ancorato al soggetto che Andrea Tagliapietra cerca non solo di descrivere, ma anche di stimolare nel suo ultimo libro, non a caso intitolato Il lettore e lo spettatore. Filosofia di due metafore dell’esistenza (2024). Più che una “filosofia”, quella che emerge in queste pagine è una illustrazione, complici i fittissimi richiami alla storia dell’arte e alle relative immagini. Vengono illustrati gli snodi storici che hanno ricamato tanto l’interiorità silenziosa del lettore quanto il dispositivo spettacolare dello “spettatore trascendentale”.

E si tratta in effetti di distinguere, ma anche di ridurre queste due metafore a un sostrato presunto, quello del soggetto contemporaneo, che necessariamente partecipa alle dinamiche della volontà moderna, di sapere, di vedere, di decidere, ma anche alle ansietà intime del lettore silenzioso, che sussurra con gli occhi umidi d’emozione, che si dimentica di volere e finanche di potere.

Ovviamente, il lettore non ha bisogno di libri, né lo spettatore ha bisogno di figure, perché ciò che li contraddistingue, e dunque accomuna, è un gesto svelato dalla prassi. Forse possono chiarire la questione dei personaggi come il lettore di paesaggi o lo spettatore di informazioni: ciò che ritraggono non è solo l’attività contro la passività, quanto un diverso modo di abbandonarsi alla realtà, di partecipare alle tracce della sua storia. In questo senso la pittura anti-spettacolare di Jan Vermeer diventa, in Tagliapietra, emblema di una figuralità che intende farsi leggere, mentre il “libro” dell’Apocalisse disegna una fine della storia, che sussume il supposto lettore all’interno di un immaginario spettacolare. Allora l’obiettivo polemico è un certo tipo di soggettività, quella dell’autosufficienza libresca che carica di un senso anteriore tutto ciò che tocca, un Mida gnoseologico.

«Quella del lettore è una soggettività decentrata, che lascia al centro il segreto che la istituisce, che non pretende di poterlo rivelare né per questa impossibilità, alla stregua di Cartesio, finge che non ci sia» (Tagliapietra 2024, p. 108). Sembra che Tagliapietra evochi tra le righe un lettore fanciullesco, non più assorbito dal narcisismo autistico della prima infanzia, ma non ancora sedotto dalla torre del Panottico, referente statico di una moltitudine dinamica. «Si tratta invece di una solitudine positiva, affermativa, gioiosa, che si manifesta accanto agli altri esseri umani, ma applicando una tattica, una misura politica di separazione» (ivi, p. 113).

La lettura silenziosa e solitaria innesca un’attenzione fluttuante, struttura un inconscio differente da quello saturato di ideali: è la resistenza gioiosa, forse quiescente, di un silenzio pervicace. Eppure non si tratta nemmeno di una rivoluzione solitaria, di uno snobismo intellettuale, di un eroismo tardoborghese o reazionario. La sfida è quella di attendere al dramma, di incastonare le miriadi di pratiche suggerite dallo stesso copione sullo stesso anello. Divenire un in sé e per sé di puro colore e senza disegno, di maneggiare i propri bordi per ciò che sono: materia sensibile, significante indicibile, estasi del cielo e della terra.

L’artista, insomma, non cercava di rappresentare i fenomeni, che sono sempre subordinati alla prospettiva scopica di un soggetto spettatore e ai suoi interessi pratici, in una parola alla sua intenzionalità, ma l’emergenza paratattica e materialistica delle cose singolari, còlte di per sé stesse, nell’intensità dinamica dell'istante, ovvero sub specie aeternitatis. Di qui il ruolo decisivo dei colori che esprimono e inglobano la potenza trasformatrice della materia. Vermeer nella Veduta mescola al pigmento sabbia e grumi di biacca. Ecco le cause coloranti che si impongono come effetti, come proiezioni di luce rispetto all’impronta metafisica del disegno, che nei dipinti del maestro di Delft è significativamente assente (ivi, p. 31).

Allora questo significa poter leggere anche l’imprevedibile, la catastrofe, senza asservirla a un disegno apocalittico, al lutto preventivo dell’angoscia e della tristezza collettiva. Abitare il mondo di Dio, ma di quel Dio personaggio, referente inattuale di ogni semantica. L’anarchia esce dalla politica ed entra nella vita, tanto simile alla sovranità del riso che eccitava Bataille. Da questo libro Kant e Cartesio escono un po’ ammaccati, magari a ragione, ma con ancora qualcosa da dire, nella loro moderna ingenuità: se è vero che il soggetto della rappresentazione, quello del dubbio e della legge, sono degli spettatori, è pur vero che quello schermo formale è un vetro, soffiato con tutta la passione di chi vuole preservare, fino a toccare la scena con la stessa cura del bibliofilo per la prossima pagina. Questo libro va letto in silenzio, ma guardato in compagnia, discusso per figure, ripensato per analogie, e forse alleggerito dalla filosofia stessa, perché la metafora faccia col lettore quello che la verità fa con la realtà:

Allora, se la definizione logica di Dio come ciò di cui non si può pensare nulla di più grande (id quo maius cogitari nequit) non è in grado di saldare ontologicamente l’immaginazione del pensiero alla realtà intesa come esperienza sensibile, dobbiamo riconoscere che invece il personaggio di Dio riesce, con la sua prestazione di senso nelle narrazioni condivise della cultura, a produrre effetti concreti, a congiungere il piano dell’immaginazione con quello fisico e materiale, traducendosi in opere, in eventi, ed esperienza, ossia costruendo quella struttura complessa che di volta in volta, chiamiamo realtà ( ivi, p. 227).

Andrea Tagliapietra, Il lettore e lo spettatore. Filosofia di due metafore dell’esistenza, Donzelli Editore, Roma 2024.

Share