Pochi giorni prima della notizia della sua scomparsa, il nome di David Lynch era apparso sui giornali in relazione all’ondata di incendi che a partire da dicembre ha colpito l’area di Los Angeles. L’artista era stato costretto a lasciare la sua casa (su Mulholland Drive), da cui non usciva più da tempo. Pochissimo tempo dopo, l’annuncio sui social da parte della famiglia: David Lynch è morto. Egli muore mentre la sua città adottiva brucia, mentre le colline di Los Angeles, la collina di Hollywood sono minacciate dalle fiamme. È uno strano, tristissimo connubio. L’incendio che divampa sembra essere anche l’immagine di un cinema che brucia, che si consuma e scompare. 

Più ci si sofferma sugli eventi di questi ultimi anni, più compaiono delle strane corrispondenze tra Lynch e Jean-Luc Godard. Entrambi si sono chiusi in casa negli ultimi tempi della loro vita – Godard in auto-isolamento a Rolle, Lynch costretto a casa dal grave enfisema polmonare diagnosticatogli nel 2020 – entrambi però, capaci anche così di disseminare le ultime tracce del loro lavoro. Anzi, proprio a partire dalla loro posizione di “isolamento”, il loro lavoro si intensifica, si modifica, trova nuove strade. Godard lavora a progetti minimali, “manuali” quasi (lavori mascherati da trailer come Film annonce du film qui n’existera jamais: ‘Drôles de guerres’ del 2023, film-appunti, film-note come Scénarios del 2024); Lynch moltiplica costantemente le sue attività creative, come pittore, artista a 360 gradi, musicista; senza abbandonare l’immagine-movimento, in tutte le sue forme. Realizza serie quotidiane per il suo canale youtube (David Lynch’s Theatre) in cui racconta quotidianamente a cosa sta lavorando (What is David Working on Today?), in cui estrae ogni giorno un numero (Today’s number is…), annuncia le previsioni del tempo (Weather Report), o pubblica i suoi video musicali (per i suoi album o per artisti con cui collabora, come Chrysta Bell); o in cui infine pubblica brevi spot, ridoppiaggi di scene di film degli anni Trenta o Quaranta, in cui il dialogo allude lontanamente all’uscita di album musicali o altri eventi. 

Negli ultimi anni della loro esistenza, Godard e Lynch non hanno smesso di creare forme, di giocare con le forme, dentro e fuori dal cinema (ma in realtà non uscendone mai). Lo hanno fatto dall’interno delle loro case, spesso da soli, o con l’aiuto di pochi, fidati collaboratori. Pensare e disseminare cinema (in ogni sua forma) come attività artigianale, senza regole, senza scopo, senza utilità, e dunque come attività finalmente libera. Ecco l’anomalia che accomuna Godard e Lynch: la libertà non solo e non tanto della forma, ma la libertà dallo scopo, dall’utile. Libertà cioè di creare senza essere condizionati dalle logiche della narrazione, della costruzione, della necessità. È un’ulteriore riproposizione della famosa formula dell’estetismo della fine del XIX secolo, l’Arte per l’arte?

No, non si tratta di questo, anzi. In entrambi l’attività quasi artigianale degli ultimi anni ha un senso profondo. Per Godard le forme minime dell’immagine-movimento diventano ulteriori approfondimenti/percorsi/diramazioni di un’opera mostruosa – le Histoire(s) du cinéma – che non smette mai di interrogare il cinema, la sua potenza e la sua impotenza di sguardo redentore. Godard si pone come anomalia rispetto ai venti del cinema, ed opera in completa solitudine, facendo i conti con una doppia memoria, quella personale e quella del cinema. In Lynch le molteplici operazioni convergono invece nella proposta di una nuova anomalia, che al tempo stesso è dentro e fuori il sistema industriale post-hollywoodiano. Strana, particolare posizione: il regista del Montana è stato negli anni Novanta uno dei nomi più di successo del panorama cinematografico mondiale. Sono tanti i film che hanno contribuito al suo percorso verso la notorietà – da Elephant Man a Velluto blu, 1986, iniziando dal suo film aurorale, iniziale e finale in certo senso, Eraserhead, del 1977; film che portano appunto al momento più aureo del cammino dell’artista, culminante con l’uscita del film trionfatore a Cannes (Cuore selvaggio, palma d’oro nel 1990) e soprattutto con la messa in onda della serie più destabilizzante degli anni Novanta (Twin Peaks, 1989).

Il nome Lynch diventa emblema di uno stile, di uno sguardo, di un modo di vedere il mondo e l’immagine, di pensare e riflettere sul percorso creativo. Con il suo rifiuto di teorizzare in modo convenzionale sui suoi film e sulle sue opere, con il suo metodo fuori dai canoni, con il suo muoversi all’interno dell’industria dell’intrattenimento hollywoodiana come se fosse un alieno, un outsider o meglio, un jester, un fool, un idiota educato, Lynch diventa un personaggio mitico, come i personaggi dei suoi film.  Mel Brooks o Slavoj Žižek, quando lo incontrano per la prima volta, rimangono entrambi sorpresi: “Sto parlando con David Lynch o con Charles Lindberg?”, si chiede Brooks, che di lì a poco produrrà Elephant Man; “Ho l’impressione di parlare con un idiota”, pensa sorpreso Žižek quando lo vede di persona per la prima volta, dopo aver ammirato profondamente i suoi film.

Lynch continua a stupire, o meglio, a lasciare perplessi coloro che lo identificano con un certo tipo di immagine. Quando nel 1993 a Cannes viene presentato Twin Peaks – Fuoco cammina con me, il pubblico e la critica rimangono interdetti, perché quello che doveva essere un prequel “esplicativo” dei tanti misteri irrisolti di Twin Peaks diventa a sua volta un ulteriore rizoma narrativo, in cui Lynch immerge le sue visioni, le sue immagini affascinanti, i giochi visivi e linguistici che lo caratterizzano.

Diventa sempre più evidente che Lynch non si colloca chiaramente in una posizione identificabile. Non è il regista indipendente, sperimentale e provocatorio alla John Waters, non è neanche l’“autore” che si presenta come alternativa nel sistema (facendone perfettamente parte) come i fratelli Coen. I suoi film destabilizzano, affascinano e al tempo stesso sfuggono, creano costantemente la necessità di interpretazioni critiche profonde.  Ma il senso profondo che giace nell’essere un’anomalia del sistema, emerge soprattutto nel decennio successivo, che si inaugura con Mulholland Drive (1999), film-pilota di una serie televisiva che mai si realizzerà per il rifiuto da parte del broadcaster di sviluppare il progetto, considerato troppo lungo, pieno di deviazioni non essenziali e per lunghi tratti incomprensibile. Nel 2001, il film (con un nuovo montaggio e nuovo materiale) esce in sala ed è un successo ulteriore di critica nella carriera del regista (premio alla regia a Cannes 2001). Il film, che prende il nome da una strada che corre lungo le colline di Los Angeles, lavora sin dai titoli di testa sull’idea di deviazione, di sentiero interrotto, percorso raddoppiato, non più lineare: I’m deranged, canta David Bowie nei titoli di testa, mentre scorrono le immagini di una strada di notte illuminata dai fari di un’auto.

Nel 1999 esce anche, prodotto da Walt Disney, Una storia vera (ingannevole traduzione di The Straight Story), uno dei grandi successi di Lynch. Due progetti diversissimi, ma entrambi profondamente sperimentali. Nel viaggio di Alvin Straight c’è, sin dal nome, l’idea di costruire un film-linea, un percorso diritto e lento che permetta allo sguardo di soffermarsi sul mondo surreale e meraviglioso che il protagonista attraversa per incontrare un’ultima volta il fratello. La linea è comprensibile, leggibile, ma è al tempo stesso astratta, surreale, carica di elementi non riconciliati. Il sentiero che si interrompe o, meglio, che non smette di biforcarsi non fa altro che produrre narrazioni, moltiplicarle, raddoppiarle.

I personaggi (come anche l’altro grande sentiero che si biforca, Strade perdute, del 1997), vivono vite parallele, la logica del principio di non contraddizione è costantemente interrotta, la coerenza narrativa non è data, ma appunto apre nuove strade, nuovi sentieri. È il cinema stesso che si nutre di questo, sembra dire Lynch. Non è un caso che i film più evidentemente saturi di linee che si biforcano (appunto Mulholland Drive e Inland Empire – L’impero della mente, del 2006) ruotino intorno alla storia della realizzazione di un film. Non si tratta di metacinema in senso convenzionale, ma del riconoscimento del potere perturbante del cinema. Il film è al tempo stesso uno sguardo codificato sul mondo e l’apertura verso un abisso del senso, in cui rischiare di perdersi (ma perdersi è meraviglioso, afferma Lynch).  

Il sentiero interrotto e il film-linea; il mistery crime (Twin Peaks), di per sé genere codificabile esplode nella miriade di luoghi, spazi, corpi, racconti di Fuoco cammina con me e soprattutto dell’incredibile, unica terza stagione della serie, uscita venticinque anni dopo, nel 2017. La duplicazione dei personaggi, gli universi paralleli, i mondi che contengono mondi non trovano spiegazione, ma al contrario Lynch moltiplica le immagini, in una sorta di ipertrofia visiva e narrativa che è proprio la struttura seriale a permettere. Non è un caso che Lynch abbia creato diverse serie quasi tutte (tranne appunto Twin Peaks), abortite dopo pochi episodi (On the Air e Hotel Room, entrambe del 1993) o rifiutate dai canali televisivi (appunto Mulholland Drive): l’idea di serialità nel regista del Montana si coniuga con un’attitudine sperimentale radicale. La serie è per Lynch la possibilità di fondere insieme il rizoma e la linea retta, la strada perduta e la narrazione “straight”, lineare. Nella lunga durata della serialità, la duplicazione/moltiplicazione di narrazioni, corpi, luoghi e figure diventa una possibilità ancora più potente

Un’attitudine questa che è certo poco presente nell’immagine dei registi o degli showrunner che dominano ora come ora nell’impero della visibilità americano, un impero ormai appunto post-hollywoodiano, dominato cioè dalle logiche produttive delle grandi piattaforme. L’idea sperimentale di serialità, così come quella cinematografica, si pone anche qui come una radicale anomalia. Lynch sfugge, in tutti i sensi. Sfugge a facili etichette e definizioni: è un regista, un artista a tutto tondo, un musicista, un pittore, un disegnatore di mobili, un fotografo e molte altre cose. Soprattutto agisce dentro e fuori il sistema: abita a Hollywood, ma i suoi lavori sono o autoprodotti – come quelli che compaiono nel David Lynch Theatre – o coproduzioni europee, come i suoi lavori dall’inizio del nuovo millennio. Solitudine e riconoscimento. Isolamento e iperproduttività: l’anomalia continua. 

Torna allora l’interrogativo iniziale, ciò che distingue lo splendido e terribile isolamento dell’ultimo Godard, dall’isolamento di Lynch. Ciò su cui il regista americano si è concentrato negli ultimi anni è la questione chiave dell’immagine contemporanea: il gesto creativo. Lynch crea seguendo percorsi non codificati, sin dal “viaggio sotterraneo nell’inconscio” (parole sue), che è Eraserhead. Ed è questo di cui Lynch ossessivamente parla, discute, si interessa: la questione del gesto che porta alla creazione di immagini. Tutte le sue interviste, tutti i suoi scritti si sviluppano in questa direzione: non sulla domanda “cosa significano quelle immagini”, ma su come sono nate, sul perché sono state prelevate dal continuum caotico del mondo, su come sono state catturate. Non è il senso dell’immagine come segno ad interessare: tutto l’opera di Lynch è attraversata dal gioco ironico di immagini e forme che sembrano alludere ad un codice, ad un significato, ma che si rivelano eccedenti rispetto ad ogni traduzione in un significato verbale. È in questo modo che il loro significato diventa più profondo e destabilizzante. Mantenere aperta la possibilità di creare, in ogni forma, con ogni mezzo.

Ripensandoci oggi, tale questione assume un’importanza abissale, etica e politica, prima ancora che estetica. In un mondo dell’immagine dove la (ri)creazione sembra essere diventata la cosa più importante, porre l’accento, l’attenzione, lo sguardo sull’atto di creazione (come diceva Deleuze) è un gesto politico. Ecco l’anomalia che (forse) si è consumata nel fuoco di una città che brucia. O forse no: Fire Walks With Me.

David Lynch, Missoula 20 gennaio 1946 – Los Angeles 15 gennaio 2025.

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