Come può la ricostruzione retrospettiva di una storia d’amore vissuta all’insegna di un’assoluta dedizione dissimulare, inconsapevolmente, la crudeltà ovattata prodotta dall’espropriazione delle rispettive identità della coppia di amanti? È possibile, certo che è possibile. Basta che uno dei due protagonisti – nel caso specifico la donna, Joséphine – sia morto per lasciare campo libero alla narrazione autobiografica dell’uomo, Jean Rolin, autore di questo monologo (pubblicato in Francia, da Gallimard, nel 1994 e solo di recente apparso da Quodlibet nell’incisiva traduzione di Martina Cardelli).  

Più che una narrazione vera e propria sarebbe meglio definirlo un resoconto, stringato, anche ellittico. Attraverso brevi scorci e dettagli, quasi sempre marginali, Rolin – all’epoca noto giornalista, oggi affermato scrittore – rievoca l’immagine di Joséphine, la donna a lui legata sentimentalmente per qualche anno, prima che un’overdose di eroina la uccidesse a trentadue anni. Si tratta, appunto, di un’immagine, solo di un’immagine che, trasposta nella scrittura, perde qualsiasi connotazione propria di una presenza reale. Ma è stato sempre così. Anche quando era in vita, Joséphine sembrava corrispondere a quella costellazione mitico-simbolica che trova in Kore, nella “fanciulla divina” – soprattutto al centro della riflessione di Kerényi –, il suo corrispettivo archetipico più aderente. Eppure, con la dipendenza martellante dall’eroina e la fine del matrimonio con Guattari, i demoni della dissipazione si erano oramai insediati stabilmente nei labirinti psichici di Joséphine, aggomitolati quanto il suo corpo ancora adolescenziale. Così, infatti, la ritrae Rolin in apertura del suo mémoire, ricorrendo alla mediazione di un sogno fatto da lei, poi raccontatogli.  

«Joséphine camminava con leggerezza, quasi in assenza di gravità, o forse saltellando come un canguro (sì, mi pare che abbia parlato di canguri), seguita da un corteo di bambine. Tiene in mano un bastoncino di vetro lungo e sottile – una bacchetta magica – che ha la facoltà di renderla invisibile, lei o qualcuno di sua scelta. Oggi diversi elementi di quel sogno mi sfuggono, ma sul momento mi avevano colpito la coerenza del racconto, la precisione delle immagini e delle associazioni» (Rolin 2023, p. 7).

L’incipit di ogni narrazione contiene sempre una spia luminosa in grado di orientare il lettore. Non a caso risalta subito, e in primo piano, la subalternità affettiva che lega a Joséphine l’autore di questa accurata microscopia dei propri sentimenti. Dei propri, non dei loro sentimenti. È il primo, irrevocabile, segnale che la narrazione procederà a senso unico. A essere rievocata non è una storia d’amore, ma solo la devozione esclusiva di chi scrive nei confronti di una donna che porta il nome di Joséphine. Potrebbe avere anche un altro nome, un corpo diverso, tutt’altro passato alle spalle: non cambierebbe nulla. L’investimento di Jean rimarrebbe immutato, come puntualmente avviene in ogni idealizzazione dell’oggetto amato (quella “cristallizzazione” descritta da Stendhal con la massima precisione). A partire da un simile presupposto si snoda la scrittura di Rolin: nitida, pacata, discreta, priva di qualsiasi sussulto o fibrillazione. Sta scrivendo, infatti, solo per se stesso, e di se stesso. Non perché Joséphine è morta. Joséphine, per lui, non è mai esistita realmente, non l’ha mai conosciuta davvero. Altrimenti non avrebbe mai scritto un libro del genere. Barthes sarebbe stato il primo a ribadirlo: 

«Sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che sto per scrivere non mi faranno mai amare da chi io amo, sapere che la scrittura non compensa niente, non sublima niente, che è precisamente là dove tu non sei: è l’inizio della scrittura» (Barthes 1979, p. 185). 

L’inizio, in questa occasione, si dispiega consegnando Joséphine all’”invisibile”, dotandola della “pura forza spirituale” che, secondo Kerényi, anima ogni fanciulla divina. E, come tutte loro, Joséphine riproduce i tratti che ne costituiscono il requisito primario: l’«unicità del singolo essere, e la sua appartenenza alla non-esistenza». Joséphine, fin dal suo ingresso in scena, si presenta, infatti, nel segno di un’eccentricità che si distanzia dall’universo fenomenico al quale appartiene Jean. Proprio come avviene nel sogno rievocato in apertura, da lei ricapitolato con una pregnanza e un’adesione ai dettagli che sorprende l’amante. Tanto più perché lungo il percorso onirico il corpo di Joséphine perde la sua forza di gravità fino a dileguarsi in una nube aerea. Jean, seguita la traiettoria del sogno che gli è stata tratteggiata, può unicamente conservare l’immagine di Joséphine, sospesa a quella “non-esistenza” su cui si è soffermato Kerényi.

Siamo solo all’inizio del racconto, dicevamo, ma i contorni di Joséphine sono già fissati. Ancorati al transito ininterrotto che conduce dalla tangibilità della sua esistenza fisica al regime rarefatto dell’immagine: non-esistente rispetto all’evidenza materiale di un corpo, ma non per questo dotata di minore realtà, o del tutto irreale. Sarà proprio tale immagine ad alimentare, infatti, il vortice ipnotico entro cui rimane risucchiato Jean, a instaurare la sua dipendenza da Joséphine: docilmente accolta come un destino, che esclude, di conseguenza, qualsiasi sussulto di ribellione.

Non c’è nulla di strano. Perché mai colui che ama, che ama con l’intensità di Jean, avvertendo la restrizione dei propri margini di autonomia, dovrebbe ripiegare, per protezione, su un investimento narcisistico che lo allontana dall’oggetto d’amore? Lo «spaventoso comandamento del dio dell’amore» – per riprendere la definizione proposta da Lacan nel Libro VIII dei suoi Seminari – non implica forse che l’amante debba pretendere dall’oggetto d’amore l’indispensabile riconoscimento del proprio desiderio? Anche se una simile richiesta, una volta soddisfatta, lo trasformerà, per una paradossale inversione, in oggetto, facendolo inevitabilmente scomparire, dunque, “in quanto soggetto”, fino al “decadimento”, al “deprezzamento” di se stesso – osserva ancora Lacan. 

È precisamente la disponibilità che Jean deve garantire a Joséphine affinché l’aura della sua immagine rimanga intatta. E tale rimarrà sempre. Al pari di tutte le fanciulle divine Joséphine non conosce calcoli né strategie seduttive. Per lasciare Jean avvinto le basta restare nel cono di una perenne dissolvenza. È lui stesso a dichiararlo:

«La prima volta che vidi ballare Joséphine, al casinò di La Rochelle, scoprii che […] ballava come una bambina. Più esattamente come balla una bambina alla fine di un matrimonio, dopo che gli adulti hanno abbandonato la sala, sola, nella semioscurità, per sé stessa e non per essere guardata. Credo di non averla mai vista tanto bella e struggente, così leggera, e quasi imbarazzata da tanta leggerezza, […] che sembrava sul punto di cadere, e allo stesso tempo pareva che un filo l’assicurasse ancora alla terra» (Rolin 2023, p. 22).

Jean, però, va oltre. Riesce anche a prendere atto che, scomparso in quanto soggetto poiché è diventato oggetto dell’amore di Joséphine, l’asimmetria del loro rapporto non ammetterà mai alcuna reciprocità. Pertanto non gli è difficile confessare che «quell’insistenza adorabile, ma caparbia, di cui si serviva per ottenere ciò a cui teneva davvero, poteva rendere piacevole una cosa che in teoria mi era del tutto insopportabile» (ivi, p. 24). 

Se, nella notte tra il 25 e il 26 marzo 1993, Joséphine non fosse stata stroncata da un’overdose di eroina, Jean avrebbe proseguito senza fine a parlare di lei, pur rimanendone integralmente soggiogato. Non certo per masochismo, ma perché «parlar d’amore è in sé un godimento», ci ricorda Lacan nel Libro XX dei Seminari. Da qui, da questo godimento, «parte la domanda d’amore», per rinnovarsi di continuo. Anche se c’è sempre un “muro” – l’amur delineato da Lacan, che Jean Rolin conosce bene – pronto ad attenderla. 

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979.
C.G. Jung – K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Boringhieri, Torino 1972.
J. Lacan, Il seminario. Libro VIII. Il transfert. 1960-1961, Einaudi, Torino 2008.
Id., Il seminario. Libro XX. Ancora.1972-1973, Einaudi, Torino 1983.
Stendhal, Dell’amore, Einaudi, Torino 1975.

Jean Rolin, Joséphine, Quodlibet Storie, Macerata 2023.

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