Ricevendo un notevole impulso dalla carica nostalgica dal quarantennale del ’77, prima, e dal cinquantennale del ’68, poi (una nostalgia forse giustificata dall’assenza di punti di contatto tangibili, nell’agone culturale e politico odierno, nonché talvolta autogiustificata), l’attenzione critica verso le esperienze di elaborazione intellettuale collettiva di quegli anni si è fatta recentemente molto intensa. Si vedano, a titolo di esempio, l’antologia di saggi Sistema periodico. Il secolo interminabile delle riviste e la pubblicazione dedicata a Il cerchio di gesso. Antologia (1977-1979) – entrambe pubblicate a Bologna nel 2018 dalla casa editrice Pendragon – o ancora il più recente Il desiderio dissidente. Antologia della rivista “L’Erba voglio” (1971-1977) (DeriveApprodi, 2018) a cura di Lea Melandri. Piergiorgio Bellocchio e i suoi amici, per riprendere direttamente il titolo del saggio, sono invece i protagonisti della raccolta di articoli e saggi di Giuseppe Muraca, pubblicata da Ombre Corte sempre l’anno scorso e dedicata più da vicino all’esperienza dei Quaderni Piacentini.

Come segnala già il titolo del volume di Muraca, l’approccio dell’autore è prima di tutto orientato alla ricostruzione biografica delle vicende intellettuali delle figure di spicco della rivista: Piergiorgio Bellocchio (definito “il franco tiratore”, dal titolo della rubrica tenuta dallo stesso sulla rivista), Grazia Cherchi (“una donna sola”, riprendendo un motivo ricorrente della sua produzione narrativa, a partire dalla raccolta di racconti del 1986, Basta poco per sentirsi soli) e Goffredo Fofi (“un ‘poco di buono’”, seguendo l’autodefinizione dello stesso Fofi). Costantemente presente è anche Franco Fortini, del quale si commenta sempre positivamente la capacità di dialogare con un’esperienza inequivocabilmente radicata nel ’68, ma che si segnala fin da subito per un’eterodossia nella quale Fortini stesso non può non riconoscersi.

Meno rilevanti, nella ricostruzione di Muraca, sembrano essere tutti gli altri collaboratori dei Quaderni Piacentini – tra i quali vi sono intellettuali di indubbia caratura come Edoarda Masi, Elvio Fachinelli, Giovanni Jervis o Giovanni Giudici – ai quali viene dedicato uno spazio più limitato. Ciò non va a detrimento dell’approccio critico, che resta viceversa puntuale su alcuni dei dibattiti più importanti sollevati dalla rivista, come ad esempio l’ancora poco studiato confronto con il quadro geopolitico dell’epoca (Muraca 2017, pp. 33-35), spesso circoscritto alla labile e confusiva categoria del “terzomondismo”, o il saggio-manifesto di Guido Viale del 1968, Contro l’Università (ivi, pp. 38-43).

In quest’ultimo caso, in particolare, Muraca accoglie la tesi di Bellocchio, per il quale l’articolo di Viale aveva “praticamente inventato il Movimento studentesco”, sommandosi così alla Lettera a una professoressa di Don Milani nella critica delle agenzie educative, al tempo stesso reazionarie e repressive, dell’epoca. Di seguito, Muraca ricorda il vivace dibattito sul movimento studentesco avviato nei mesi seguenti sui Quaderni Piacentini (con la presenza di contributi notevoli, come ad esempio l’intervista a Rudi Dutschke nel numero del maggio ‘68), discussione destinata tuttavia ad esaurirsi “con la nascita dei primi partiti della sinistra extraparlamentare” (ivi, p. 41) e poi con una presa di distanza netta, come quella dell’articolo Contro la falsa coscienza del movimento studentesco (n. 38, luglio 1969) a firma di Francesco Ciafaloni e Carlo Donolo.

A questo proposito, la ricostruzione operata da Muraca pare equilibrata (anche nell’accostamento tra due scritti, quelli di Viale e di Don Milani, che non è stato mai immediato e pacifico, e che si è arrivati a concepire come possibile soltanto a distanza di tempo) e densa di interessanti spunti di riflessione, come quando l’autore sottolinea il peso raggiunto dalla politica nei Quaderni Piacentini dell’epoca, che, quindi, “con il numero 33 […] smettevano di pubblicare poesie” (ivi, p. 40). Non è tuttavia possibile individuare un solido aggancio di quest’analisi con la sua possibile riproduzione nella contemporaneità, come ha cercato invece di proporre, tra gli altri, Matteo Moca in un articolo apparso su Alfabeta2 nel cinquantennale del ‘68. Scrive Moca, citando Viale:

Uno dei punti forti del documento di Viale, ed è anche uno dei motivi per cui ancora oggi costituisce un importante luogo di confronto, sta però nel distaccarsi dalla spesso sterile critica al sistema baronale universitario, andando ad interrogarsi sul luogo di nascita di questa asimmetria che viene rintracciata proprio nelle modalità di trattamento degli studenti che "si radica nel consenso autoperpetuantesi che la scuola e l'Università riescono ad imporre agli studenti attraverso la frammentazione delle loro istanze collettive e mediante la manipolazione dei singoli studenti ormai isolati di fronte all'apparato repressivo". La prima e fondamentale necessità risiede allora in una chiamata all'unità del corpo studentesco che deve essere capace di rispondere compatto ai tentativi di addomesticamento. 

Se infatti l’università italiana ha integrato nel corso del tempo alcune delle rivendicazioni e delle istanze anti-repressive del movimento studentesco (delegando, talvolta, il lavoro della repressione ad altri luoghi e attori), appare oggi chiaro come la “frammentazione delle istanze collettive”, a molti anni ormai di distanza dall’ultimo movimento universitario trasversalmente organizzato, risulti pienamente funzionale alla divisione del lavoro e alla costruzione dei saperi tipiche di un sistema universitario appiattito su criteri di governance squisitamente neoliberali.

Nel volume di Muraca, d’altronde, non c’è spazio per le classiche riconsiderazioni e ricapitolazioni della questione a mezzo secolo di distanza: il volume è organizzato come una raccolta di articoli e saggi perlopiù già apparsi altrove, e anche a questa forma breve si deve il privilegio di una certa visione, al tempo stesso frammentaria e d’insieme, rispetto a un inquadramento teorico più classico (che potrebbe essere forse più ampio e ragionato, ma che si troverebbe allo stesso tempo ad essere connotato da una militanza critica e politica, per così dire, più sfumata).

Se quest’ultimo approccio è certamente favorito dalle varie antologie dei Quaderni Piacentini uscite negli ultimi anni, nonché dalla pubblicazione integrale in rete di tutti i numeri, sembra tuttavia opportuno ragionare anche sulla logica architetturale del libro di Muraca. Riprendendo articoli già pubblicati altrove, l’autore stesso fa proprie le stesse forme della rivista (pur dovendole poi forzosamente incanalare nella forma-libro, di fronte a un panorama editoriale e intellettuale nel quale le riviste stentano a recuperare gli spazi occupati negli scorsi decenni). In questo modo, Muraca riesce anche ad esporre più chiaramente la propria posizione militante, che è “dalla parte dei Quaderni Piacentini” allo stesso modo in cui Piergiorgio Bellocchio si dichiarò poi, esaurita quell’esperienza, Dalla parte del torto (1989). Non tanto, quindi, una celebrazione acritica di una gloriosa esperienza del passato, quanto la necessità di dover attuare una forma non del tutto dissimile di militanza culturale nel presente.

In termini più generali, l’obiettivo sembra essere quello di evitare quel “senso di avvilimento e di sfiducia” (Muraca 2017, p. 78) cha ha caratterizzato la produzione, e soprattutto il silenzio, dell’ultima fase della vita di Bellocchio. Atteggiamento, questo, che anche un intellettuale che è stato sodale di Bellocchio, come Alfonso Berardinelli, ha definito “aristocratico”, ma che nasce, innanzitutto, dal confronto con un’industria culturale sempre più lontana dagli orizzonti ideali dei Quaderni Piacentini, e non da una specifica appartenenza di classe o inclinazione individuale. Senza approfondire la storia delle trasformazioni dell’industria culturale nazionale e internazionale (a rendere sempre più difficili posture intellettuali che non ricalchino, in qualche modo, quelle di Bellocchio), Muraca propone di stare “dalla parte del torto” secondo la sua accezione più positiva, ossia nel segno di quella eterodossia culturale e politica che ha caratterizzato tanto l’attività della rivista al centro dell’analisi, quanto quella delle altre esperienze ricordate in appendice (ivi, pp. 103-120): Discussione (1955-1957), Ragionamenti (1955-1958) e la prima serie di Ombre rosse (1966-1969).

A questo proposito, sembra opportuno notare, en passant, come anche la collocazione storica di queste tre riviste si sviluppi attorno a due momenti cruciali per l’esistenza della sinistra, e della nuova sinistra, italiana nel secondo Novecento, ossia i fatti di Ungheria del 1956, per le prime due, e il ’68, per la terza. In altre parole, per quanto tutto il volume sia animato da una volontà analitica e per nulla nostalgica, sembra difficile uscire da un confronto, almeno a livello fantasmatico, con lo stalinismo, da una parte, e con il movimentismo libertario, dall’altra.

I Quaderni Piacentini, del resto, non si riconoscevano in alcuna delle due opzioni, come lo stesso Muraca scrive, in particolare, di Bellocchio: “Se da una parte egli continua a non risparmiare frecciate e critiche alla sinistra ufficiale dall’altro lato non manca di prendere le distanze dall’estremismo ideologico, dal settarismo e dal dogmatismo delle frange meno irriducibili della contestazione e dei gruppi extraparlamentari” (ivi, p. 72). Prendendo atto, a posteriori, delle complesse filiazioni dei partiti e dei movimenti italiani di sinistra, non sembra affatto facile resistere alla fascinazione di questo posizionamento equilibrato, ma al tempo stesso intrigante ed estremamente fecondo.

Eppure, come ha scritto Paolo Desogus nelle pagine di questa rivista a proposito della recente monografia di Giacomo Pontremoli, I “Piacentini”. Storia di una rivista (1962-1980) (Edizioni dell’Asino, 2017) – lettura che ben si può accostare a quella del volume di Muraca – la tensione critica, talvolta allarmistica, dei Quaderni Piacentini, “potrebbe anche apparire esasperata”. Questo non vale unicamente per gli esempi addotti da Desogus – ovvero, per certi scritti dedicati al cinema da Goffredo Fofi o per la sentenza di Timpanaro sul PCI come “partito stalinista al servizio del capitalismo” (in un certo senso, troppo precoce, se si guarda ad esiti più recenti) – ma anche per il giudizio sulle esperienze dei movimenti politici collocabili nella galassia extraparlamentare, talvolta segnato anch’esso da un certo distacco “aristocratico” rispetto a vicende politiche percepite come non proprie.

A conti fatti, dunque, ripercorrendo la storia dei Quaderni piacentini non ci si può muovere se non tra fascinazione intellettuale e critica dell’esperienza storica, come propone lo stesso Muraca, traendo infine la migliore lezione da un “sodalizio intellettuale e politico basato su un intenso rapporto di amicizia e su una stima reciproca, supportate e alimentate da un grande entusiasmo e da una passione ideale, civile e politica non comuni, che sono in fondo i sentimenti che animano tutti coloro che sono convinti che il loro impegno possa servire a una causa giusta, a far crescere un progetto collettivo, magari a cercare la verità” (ivi, p. 54).

Riferimenti bibliografici
P. Bellocchio, Dalla parte del torto, Einaudi, Torino 1989.
F. Bortolotto, E. Fuochi, D. A. Paone, F. Parodi, a cura di, Sistema periodico. Il secolo interminabile delle riviste, Pendragon, Bologna 2018.
G. Muraca, Piergiorgio Bellocchio e i suoi amici. Intellettuali e riviste della sinistra eterodossa, Ombre Corte, Verona 2017
G. Pontremoli, I “Piacentini”. Storia di una rivista (1962-1980), Edizioni dell’Asino, Roma 2017. 

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