Mille e mille sfaccettature ha assunto la malattia melanconica e depressiva nel tempo, molti sono i volti che ha incarnato, molte le voci che nei secoli si sono susseguite nella plasticità delle arti, della lingua e della musica, non per dare un nome ma per comprendere, combattere o confrontarsi con questo stato emotivo. Dalla bile nera e il genio saturnino della Classicità, fino alle declinazioni novecentesche del Male oscuro di Giuseppe Berto e della Cosa Brutta di David Foster Wallace, la tematica della malattia depressiva è sembrata ineludibile per le arti figurative, musicali e della parola. È in questo cammino che incontriamo L’uomo che trema di Andrea Pomella (Roma, 1973), un memoir che illumina con rara dolcezza, sincerità e – a volte – ironia, il vissuto di una persona nel confronto con la propria malattia: «Credo che la mia maledizione sia la maledizione di Sisifo che spinge il masso. Solo che a volte io non mi sento Sisifo. Mi sento il masso» (Pomella 2018). Questo memoir assume la forma di un grande punto interrogativo sul nostro presente, sulle relazioni personali nel secolo che scorre, sulla società e le dinamiche che la permeano, è una lunga, complicata domanda a cui si danno molteplici risposte nel corso delle duecento pagine di cui si compone. L’interesse del libro di Pomella non è di natura soltanto letteraria, ma anche sociale e filosofico, è una riflessione “dai confini della galassia” in cui la depressione relega chiunque ne soffra o ne abbia sofferto: «La depressione ti fa guardare alla vita come se la osservassi dai confini della galassia». La malattia depressiva non è infelicità, tristezza, è piuttosto assenza di vitalità, è «la malattia dell’immobilità». Eppure questa immobilità sembra anche donare una prospettiva particolare sul nostro tempo, uno sguardo lucido e sincero verso l’essenza delle nostre relazioni, la potenza delle arti, l’importanza delle relazioni affettive. L’uomo di queste pagine è un uomo che trema, ma è un uomo anche capace di uno sguardo lucido, di cui non possiamo fare a meno, è un testimone sensibile che sa cogliere ciò di cui abbiamo più bisogno, ovvero le domande che hanno diverse risposte. O che non ne hanno affatto.
Ho letto "Storia della mia depressione" nel settembre 2017 sulla rivista “Doppiozero”. Come quel bellissimo pezzo è diventato un anno dopo il primo capitolo del tuo libro?
Consideravo già allora quel pezzo come il primo capitolo di una cosa lunga, volevo tenere traccia della terapia che proprio in quei giorni stavo intraprendendo. Quando il pezzo è stato pubblicato su “Doppiozero” ha avuto una notevole risonanza. Alcuni editori si sono fatti avanti, alla fine ho deciso di fare il libro con Einaudi.
In "L’uomo che trema" parli anche di Giuseppe Berto, del suo "Il male oscuro" e delle passeggiate che ti hanno spinto fino alla casa dove lo scrittore ha abitato. Berto ha avuto un destino letterario alterno, ironico, per certi aspetti. Il titolo di uno dei capitoli del tuo libro è "Il male bianco", opposto a quel male oscuro: come il memoir e la figura di questo scrittore si sono intersecate con te e con il tuo libro?
Se vuoi affrontare in letteratura il tema dell’umor nero, Il male oscuro è una tappa attraverso cui devi passare obbligatoriamente. A Berto sono andato e da Berto sono tornato. Non solo metaforicamente, ma anche de facto. Per molto tempo la domenica, quando uscivo per correre, il palazzo alla Balduina in cui Berto ha vissuto era la mia meta, l’obiettivo dei miei lunghi allenamenti. All’inizio volevo che Il male bianco fosse il titolo del libro, proprio per segnare il ritorno, il tentativo di emanciparmi dal testo di Berto, che resta per me una delle opere capitali del Novecento italiano.
Se analizzi a fondo e descrivi il ruolo e gli effetti – benefici e malefici – degli psicofarmaci e il rapporto con gli psichiatri, la psicoanalisi è del tutto assente. Questa mi è sembrata una differenza sostanziale con la letteratura novecentesca “classica” dedicata alla depressione e all’analisi di sé. David Foster Wallace è citato spesso…
Non ho alcuna preclusione verso la psicoterapia. Se nel mio libro è assente è solo perché non l’ho mai praticata. Non ne ho quindi una conoscenza diretta. Resta il fatto che da un punto di vista puramente letterario trovo più interessanti le terapie farmacologiche. Nella letteratura del Novecento è stata fortissima l’influenza della psicoanalisi; in quella di questo secolo lo sarà la chimica. La chimica oggi è ovunque, ne assumiamo grandi quantità, è perciò soprattutto dentro di noi. Uno sguardo critico sul nostro tempo non può fare a meno di indagare le conseguenze di questa coabitazione.
La musica riveste un ruolo centrale sia in "Anni luce", con cui sei stato candidato al Premio Strega nel 2018, sia in "L’uomo che trema". Più della letteratura, della natura e dell’arte, che pure hanno tutte un posto di rilievo nella tua scrittura. Attraverso la musica il tempo viene scandito, le età anagrafiche definite, la malattia arginata o, al contrario, amplificata. La musica, ascoltata, suonata, amata, appare nel bene e nel male anche un termometro della vita e della malattia…
La musica, soprattutto quella che chiamiamo leggera, è sempre stata relegata ai margini dalla letteratura. Solo negli anni novanta autori come Nick Hornby ne hanno fatto il cuore delle loro narrazioni. Eppure per una quantità strabiliante di persone la musica rappresenta qualcosa di fascinoso e di incomprensibile, uno stargate verso il passato, le amicizie, gli amori, i sentimenti, le epifanie, insomma verso i luoghi più reconditi dell’Io. Per me non è solo questo, è anche e soprattutto una forma d’arte capace di decifrare meglio di qualsiasi altra le vibrazioni che mi scorrono dentro.
"L’uomo che trema" è un libro denso di citazioni, tutte minuziosamente indicate in oltre due pagine al termine del volume. È una costellazione di scrittori, filosofi, musicisti che mi pare abbiano illuminato la tua analisi della malattia (e la tua vita); a volte aiutano a dare risposte, in altri casi sono le leve che spingono a porsi domande, alla ricerca… è così? Se e come ti hanno orientato nella scrittura?
Credo che un libro debba principalmente interrogare il lettore, imporgli dei dubbi, spingerlo continuamente verso nuove direzioni. Non riesco a immaginare il libro come un mondo concluso e autosufficiente. Un libro è un dispositivo aperto, è una piazza, è una terra senza confini. Un libro deve essere accogliente e ospitale. Mi piace l’immagine della costellazione. In fondo i libri, come gli astri, assumono forza se sono inseriti all’interno di un sistema, un organismo composito governato a sua volta da un equilibrio immensamente più grande.
«Simone Weil ha scritto “Due forze regnano sull’universo: luce e pesantezza”. La depressione mette in contatto chi ne soffre con queste due forze sovrane che rappresentano il principio di verità. Il pensiero è immerso in una luce bianca, mentre il corpo è gravato dalla pesantezza». E ancora: «La mia malattia è in questa qualità speciale che hanno i miei occhi, e al contempo è nella qualità speciale che hanno le persone e le cose, la capacità di essere, in ogni istante, tragiche». Il collegamento tra la frase di Simone Weil e la tua descrizione della depressione è illuminante e doloroso: nel tuo libro dai molteplici definizioni, tutte potenti…?
La principale difficoltà che ho dovuto affrontare nello scrivere il libro è stato cercare le parole e le definizioni più efficaci ed esatte per raccontare l’indicibile: gli umori, le sensazioni ultraumane (o iperumane) che si provano durante un picco depressivo, i dolori della mente, gli abissi di insignificanza in cui può precipitare una psiche sotto attacco, gli spasmi, l’angoscia e lo spaesamento. Avevo bisogno di rintracciare di volta in volta le formule più adatte. La ricerca del termine giusto, dell’immagine più vivida, mi ha quasi ossessionato.
"L’uomo che trema" lo fa per gli spasmi muscolari che spesso lo sorprendono, ma anche per la paura del vivere: perché questo titolo?
Il titolo ricalca una frase del “Grande Sertão” di João Guimarães Rosa: “L’uomo? È una cosa che trema”. È un’immagine che restituisce al contempo un’idea di fragilità e di paura. Ma il tremore è anche il sintomo della vita che ancora scorre e vibra. È il contrario dell’immobilità assoluta, quindi. E della morte.
Nel tuo libro è centrale la figura del padre, di quel padre che abbandona e del padre che, invece, accudisce il figlio e che in questo accudimento e nella vita familiare trova un equilibrio fatto di comprensione, spontaneità, sostegno e serenità. Gli affetti salvano, tengono a bada il mostro, rendono l’orso un animale indifeso e gentile. Sono scene colme di una dolcezza che sembra sottratta al passare del tempo, una dolcezza che resta. È questo l’antidoto?
È senza dubbio uno degli antidoti. Ma non basta. L’orrore più grande di fronte al quale ti pone la depressione è lo svuotamento di significato che essa impone alle cose e alle persone. Da depressi vediamo perfino i nostri cari come involucri privi di contenuto, forme di ghiaccio, corpi inanimati. La visione di un mondo liofilizzato, in cui ogni persona è come un organismo disidratato conservato a bassa temperatura, non ti fa provare tristezza, malinconia, nulla che abbia a che fare con la gamma di sentimenti che di solito vengono attribuiti alla depressione. La visione di questo mondo ti fa provare l’esatto opposto: ossia niente. Gli affetti salvano nel momento in cui riescono in qualche maniera a scalfire questa concrezione, quando ti fanno provare di nuovo dolore, o tristezza, o malinconia. È solo allora che iniziano lentamente a riportarti in vita.
Riferimenti bibliografici
Y. Hersant, Mélancolies. De l’Antiquité au XXème siècle, Editions Robert Laffont (collezione Bouquins), Parigi 2005.
A. Pomella, Anni luce, Add Editore, Torino 2018.
A. Pomella, L’uomo che trema, Einaudi, Torino 2018.