Usciamo dalle tombe e vogliamo attraversare anche questo mondo, senza un piano preciso. 
F. K.

2024
L’esperienza artistica di Kafka si situa drammaticamente dentro la fine della letteratura di ispirazione romantica. Kafka tenta di recuperare in qualche modo quell’eredità grandiosa, ma se sulla canna di Balzac vi era inciso che essa poteva spezzare tutti gli ostacoli che le si paravano davanti, su quella di Kafka ci sarebbe scritto che tutti gli ostacoli lo spezzano. Lo scrittore è ai margini della comunità, schiacciato sulla linea della sua frontiera; la sua arte, per dire ancora così, non dice più niente a nessuno. Lo scrittore non impone nulla, non crea un mondo, vagabonda da qualche parte, nascosto ai più. A che serve, dunque, pubblicare ancora romanzi, poesie, racconti? Scrivere, forse, ha ancora un senso, ma, forse, solo per se stessi, per cercare di alleviare un po’ il dolore, la disperazione dell’esistenza, come accade con il giardinaggio o con una bella nuotata in piscina, ma pensare che quell’antico atto possa creare un mondo è illusorio, se non grottesco. L’artista, se ancora si ostina a essere tale, è un messaggero di niente. 

Cento anni dopo la morte di Kafka, lo stato dell’arte è immutato. Riprendere in mano i mille frammenti delle sue scritture, i suoi vani tentativi di compiere un’opera, le pagine bianche o strappate, i lacerti di un discorso senza fine sulla letteratura significa sempre ritornare su questa situazione, meditarla ancora. 

Ma cento anni non sono affatto pochi… Un secolo… Quella cultura occidentale che Kafka aveva visto sprofondare nei campi di battaglia della Galizia o delle Alpi oggi non esiste più, sepolta sotto la coltre di Gernika, Auschwitz, Dresda, Hiroshima, delle guerre al fosforo bianco, di Cernobyl e Fukushima. Ecco perché forse è il momento di leggere Kafka oltre la crisi che lui ha diagnosticato e ha soprattutto tentato di sperimentare artisticamente – fallendo, certo, ma il fallimento è il suo stesso tentativo di opera. Oltre la crisi, significherebbe, nella prospettiva che cercherò di delineare rapidamente in questo articolo, contro la crisi, o meglio: da un’altra parte rispetto ad essa

1911
Il naufragio della civiltà romantica e borghese coinvolge Kafka al punto da paralizzarlo. Eppure, dentro quel disfacimento, Kafka tenta anche di dischiudere altre possibilità (per scrivere, per vivere). La rovina della tradizione letteraria ottocentesca svela soprattutto la crisi, e la pericolosità, dell’idea di nazione. La grande letteratura fallisce perché si consuma l’ideale politico emancipatore che aveva accompagnato la sua genesi e il suo sviluppo. Prima dell’esplosione della Grande Guerra, sono i crimini del colonialismo che mettono sotto gli occhi di tutti la fine della cultura dell’Occidente. È dentro questa situazione che Kafka, a stretto contatto, non a caso, con ambienti anarchici e con la tradizione del teatro yiddish, si mette a “minorare” la letteratura, come hanno fatto vedere Deleuze e Guattari (1996).

A partire da alcune note del suo diario scritte alla fine del 1911, Kafka sembra delineare una sorta di programma per un nuovo modo di scrivere contro la tradizione patrimoniale della letteratura (Kafka, 1959, I, pp. 191-195). La creazione si slega piano piano dalla storia letteraria, giocoforza “maggiore”, e si mette in relazione non più con un popolo, con una lingua, con un territorio, ma con delle minoranze che non hanno voce né terra né consistenza politica e culturale, divenendone una specie di macchina d’enunciazione. Insomma, il problema per Kafka diviene quello di pensare una nuova connessione fra la letteratura e la politica, totalmente al di fuori del quadro statuale e nazionale.

1913
La condizione diasporica e paria degli ebrei rende Kafka particolarmente sensibile a questa necessità. Ma Kafka non la assolutizza mai. Karl Rossmann, il protagonista del romanzo intitolato da Brod America, che Kafka non ha terminato, è un giovane ebreo di Praga che fugge negli Stati Uniti perché la famiglia vuole evitargli una paternità indesiderata e spera che possa crearsi oltreoceano un futuro migliore. Tuttavia, una volta sbarcato, nonostante la fortuna di essersi imbattuto in un misterioso zio (il famoso “zio d’America”) ricco e potente, il ragazzo non riesce a compiere la scalata sociale e economica tipica del self made man, egli scivola piuttosto piano piano sempre più giù verso i bassifondi della società. Nel suo viaggio negli Stati Uniti, o meglio nella sua deriva in un paese martoriato da disoccupazione e povertà, nel suo lungo peregrinare di avventura in avventura, di incontro in incontro, Karl Rossmann, dolce e mite, scopre, suo malgrado, restando ancora dolce e mite, la ferocia dei rapporti sociali del capitalismo avanzato (occorre ricordare il film che, nel 1983, Straub e Huillet traggono da questo romanzo e che intitolano significativamente Klassenverhältnisse).

Kafka non intende semplicemente far vedere come le vite erranti degli ebrei – nonostante in molti già aspirino a territorializzarle – siano incompatibili con le cadenze e gli spazi del mondo capitalista. La violenza della lotta di classe avvilisce ogni esistenza, anche quelle che cercano di restare ai margini. Il romanzo mostra che subire quella violenza significa conoscerla nella propria carne e nel proprio spirito, ma non significa poterla né volerla combattere perché diventa una terribile, mostruosa, normalità: 

Davanti alla porta c’era l’amministratore che guardava storto con l’orologio in mano. «Sei sempre così poco puntuale?» domandò. «Abbiamo incontrato diversi ostacoli», dichiarò Karl. «Sappiamo, ce ne sono sempre», rimbeccò l’amministratore. «Ma in questa casa non sono ammessi. Ricordati!». Karl non diede peso a quelle parole, tutti sfruttavano il potere per insultare gli umili. Lui vi era avvezzo e la pigliava come il tic tac regolare dell’orologio (Kafka, 2006a, p. 313). 

In effetti, Karl Rossmann, anticipando alcuni personaggi kafkiani più celebri come Josef K., non adopera nessuna strategia di resistenza e non riesce nemmeno a schivare la durezza dei conflitti di classe e la violenza che si stratifica in ogni ceto sociale, anche quelli più marginali, come confermano le figure dei due vagabondi migranti Delamarche e Robinson. Anzi, Rossmann è soprattutto sopraffatto da quella violenza. «Io non capisco niente di politica» (ivi, p. 265), dice ad uno studente sul balcone della casa di Brunelda, nell’unico momento in cui i dispositivi dello sfruttamento sociale vengono svelati e denunciati. 

Karl non riesce a capire lo studente e finisce con l’approdare nel cuore pulsante del capitalismo americano, il fondamento della sua dominazione planetaria: lo spettacolo. Insieme con un giovane migrante come lui, anch’egli lavoratore precario, l’italiano Giacomo, Karl è attratto dall’annuncio di lavoro che il teatro di Oklahoma fa affiggere a Clayton. Karl si presenta al colloquio, ma ha perso i suoi documenti e quando gli chiedono di declinare le sue generalità, accade qualcosa di stupefacente, egli dice di chiamarsi “Negro” (ivi, p. 281). Ecco che nel romanzo irrompe la figura dello schiavo nero, ecco che Kafka sovrappone all’ebreo errante, spettro inquietante della vecchia Europa, il “Negro”, la faccia triste e stralunata del Nuovo continente. 

Tutto questo avviene nel «teatro più grande del mondo» che vende un sogno (l’American Dream) in un assordante squillare di trombe e in un rullio di tamburi, ma dentro quella festa senza fine si cerca trivialmente manodopera. Gli schiavi di ieri non bastano più, ci vuole gente che viene a lavorare felice. La logica schiavistica del capitale dura a lungo. Siamo tutti negri, sembra voler dire Kafka. Un popolo “minore” non ha, infatti, una sola identità, non ha una sola lingua comune e, ovviamente, non ha nemmeno un suolo suo proprio. L’incontro lontanissimo di Prospero con i Calibani e gli Ariel diventa un’esperienza comune in Kafka: sciami di uomini hanno lasciato le loro terre e vengono a bussare alla porta del ducato di Milano.

Kafka parla di queste esistenze migranti (Il Castello non racconta la storia di qualcuno che cerca una nuova casa?). E quello che gli interessa maggiormente è il fatto che questi spostamenti producano ibridazioni e specialmente nuove solidarietà. America si conclude con il viaggio in treno per raggiungere Oklahoma di Karl e Giacomo, l’ebreo e l’italiano migranti, due “Negri” come gli altri: si costituisce «una società di lavoratori nullatenenti», per riprendere il titolo di un programma socialista che Kafka stila nel 1918 forse nella scia della Rivoluzione russa (Kafka 2018, p. 106). Straub e Huillet mostrano questa fraternità fra colonizzati e sfruttati, rigorosamente silenziosa, nel lungo piano sequenza di questo viaggio su rotaia sulle sponde di un fiume. Qualcosa si muove.

1924
Non è dato sapere come Kafka volesse concludere America, ma è evidente che vi emerge il tentativo di creare un rapporto, inaudito e impensabile, tra la letteratura e le esistenze migranti, fra la letteratura e la globalizzazione. La letteratura perde il suo suolo e si apre verso i mondi altri. Forse è questo il tentativo principale – tentativo rovinoso, come ogni sforzo di un Sisifo, eppure indispensabile – che occupa Kafka in tutto il suo lavoro artistico, come se egli volesse radicalizzare l’universalismo ebraico a partire tuttavia da una destrutturazione dell’idea stessa di identità. Pur rimanendo nei confini della letteratura borghese, Kafka non cessa di lottare contro il suo radicamento in una terra, una lingua, una tradizione, un popolo. 

È una lotta, una vera e propria resistenza contro quello che resta della letteratura ottocentesca, ed è una lotta che cerca, in qualche modo timido, impacciato, fragile, di mettersi in sintonia con questo popolo-non-popolo-mondo dei Rossmann, dei Giacomo e dei “negri”. Che cosa stanno dichiarando? Niente, o anzi qualche suono lo emettono: fischiano. 

Giuseppina, la topolina cantante, imita nei suoi gesti l’arte maggiore, la grande musica occidentale, ma lei crede di cantare, crede di essere diversa dal “popolo dei topi” che l’ascolta, in verità fischia come loro. Il popolo non la deride perché capisce che è unito anche grazie a quel fischio. Il canto di Giuseppina diventa un’«assemblea popolare» (Kafka 2006b, p. 586). Questo racconto è l’ultimo scritto che Kafka pubblica in vita. Mi sembra chiaro che qui si stia interrogando proprio sul rapporto fra l’arte (un’arte) e il popolo (un popolo). Tuttavia, Giuseppina è un «nulla di voce», un «nulla di effetto» (ibidem), bisogna allora capire come sia possibile che ella riesca a riunire un popolo. In realtà, è proprio perché il suo fischio è lo stesso suono che emette chi l’ascolta, il popolo dei topi, che questi possono rispettarla e difenderla, malgrado le sue arie da diva.

L’arte non è più nulla, un suono come un altro, diventa solo un’occasione per ricreare, fra i mille affanni di una vita, un senso provvisorio di comunità. Ma c’è di più. Il narratore si chiede, alla fine del testo, cosa succederà quando Giuseppina non canterà più. Kafka non sembra dare una risposta precisa. Ma, forse, quel “nulla”, che esprime le gioie, le sofferenze, le lotte, le riflessioni di un popolo martirizzato, sarà anche l’arte di un popolo molto più vasto che non esiste (ancora) come popolo. In effetti, quel “nulla” potrà accogliere gli idiomi incomprensibili, i barbarismi dei popoli nomadi sotto o dietro le muraglie, il gracchiare e gli altri suoni animali, tutti i rumori incrociati dai “topi” nelle loro erranze disperate. Insomma, Kafka sta immaginando l’arte futura di tutti gli oppressi del mondo. Quel “nulla” è una visione: esso prefigura l’arte che nascerà dagli incontri e dalle lotte dei Rossmann, dei pellerossa, dei “negri”. 

Domani
Kafka muore, troppo presto, mentre pensa questo non-popolo mondo e la sua nuova arte. Noi possiamo anche continuare a leggere Kafka 100 anni dopo, a Roma o a Londra, per vederci riflesse le nostre angosce e le nostre nevrosi. Ma qualcuno, di notte, sotto le coperte, sotto le bombe, a Gaza o a Lampedusa, sta invece trovando in Giuseppina, in Pietro il Rosso, in Odradek o in un cane che indaga, delle sorelle, dei fratelli, degli amici con cui immaginare il comunismo che verrà.

Bibliografia
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1996.
F. Kafka, Diari 1910-1923, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1959.
Id., America, in Id., Romanzi, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 2006a.
Id., Giuseppina la cantante, in Id., Racconti, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 2006b.
Id., Quaderni in ottavo, a cura di I. A. Chiusano, Feltrinelli, Milano 2018.
“K. Revue trans-européenne de philosophie et arts”, 1, 2018: Kafka, la scrittura della destituzione?
L. Salza, a cura di, Sconfinamenti. Kafka cento anni dopo, Mimesis, Milano 2024.