Pump Up The Jam, è il clamoroso successo dance con cui il gruppo belga Technotronic scalò le classifiche internazionali nel 1989. Il brano, accompagnato da un videoclip che costituisce un vero elogio del chroma key, non ha alcuna attinenza con i contenuti di Cunk on Earth, ma fa lo stesso da filo conduttore alle varie puntate apparendo sempre nei momenti più inadatti e inaspettati; è forse il più manifesto dei tanti atti di dadaismo di questa serie continuamente votata a una dissacrazione di ogni stilema documentaristico così come di ogni serietà storiografica. Cunk on Earth è un mockumentary ideato dalla comica inglese Diane Morgan, originariamente trasmesso dalla BBC per poi approdare, a partire dal 31 gennaio, su Netflix. Si tratta di una miniserie di cinque puntate della durata di meno di mezz’ora l’una, che ripercorrono l’intera storia dell’umanità, dalle caverne ai social network, tramite la presentatrice Philomena Cunk, personaggio già usato dalla Morgan in altri suoi programmi e che rappresenta una efficace parodia del divulgatore scientifico contemporaneo, sempre attento ai valori del politicamente corretto.

Alla Cunk si affiancano una lunga serie di veri luminari – archeologi, storici, storici dell’arte, ecc. – che interpretano sé stessi, costretti a rispondere alle strampalate domande della presentatrice. Larga parte del divertimento nasce da un gusto tutto inglese per i giochi di parole virati verso il nonsense. È il caso dell’esilarante situazione, per limitarci a un esempio, che si crea quando la Cunk chiede allo storico Ashley Jackson notizie a proposito della coltivazione delle cipolle nella Soviet Onion; lo storico le spiega pazientemente che le cipolle hanno scarsa attinenza coi fatti, perché in realtà si sta parlando di Soviet Union e non “onion”, guadagnandosi così una sferzante accusa di sessismo da parte dell’intervistatrice (“you’re mansplaining a bit”). Ed è proprio sul versante di una feroce satira del conformismo perbenista che si gioca larga parte del senso di questa serie, sulla difficoltà che, nell’evo della cancel culture, gli storici devono fronteggiare per difendere il concetto di contesto dagli attacchi di chi vorrebbe piallare i valori storici su degli assoluti unici, spesso di carattere morale.

Così nella puntata sul Rinascimento la Cunk sostiene che l’uomo vitruviano di Leonardo sia volgare e andrebbe coperto nelle parti che ne mostrano il sesso, oppure chiede allo storico dell’arte Martin Kemp se si debba attribuire maggiore importanza al Rinascimento o a Beyoncé; vanamente lo studioso cerca di spiegare che ogni cosa vive nel suo tempo e che, in ogni caso, forse il Rinascimento è effettivamente più importante di Beyoncé. Anche in questo caso scatta implacabile la ghigliottina del sessismo, per cui Kemp viene accusato di anteporre un gruppo di uomini bianchi etero a una giovane donna afroamericana.

Non può non venire subito in mente la fosca profezia di Oswald Spengler, secondo cui chi è membro «di una certa civiltà, le cui tendenze religiose, spirituali, politiche e sociali lo conducono a ordinare la materia storica secondo una certa prospettiva limitata temporalmente» alla fine si ritrova a «imporre al passato una forma arbitraria e superficiale a esso intimamente estranea». Spengler accusava, di fatto, il «pregiudizio personale dello storico che […] riduce [la storia] a un frammento del passato e a essa dà per scopo ciò che si trova casualmente a esistere oggi», un percorso che finisce per fare «degli ideali e degli interessi attualmente validi il criterio di misura per quel che fu già raggiunto» (Spengler 1995, pp. 152-154).

L’impeto distruttivo, che anima il pensiero del politicamente corretto nelle sue forme più intransigenti, appare così già alle porte e Philomena Cunk sembra essere il perfetto prodotto di quella ampia congerie moralista contemporanea che, in nome dell’inclusività, propone un revisionismo storico feroce di chiara matrice iconoclasta. Un fatalista lucido come Cioran lo aveva già scritto parecchi decenni fa, quando osservava come tutti noi «abbandonati al fascino e ai furori dell’apostasia, passiamo in rassegna i nostri idoli per ripudiarli e farli a pezzi uno alla volta» (Cioran 1982, p. 89), consegnandoci così a una perenne flagellazione per gli inestirpabili torti cagionati: «più insistiamo sulle nostre ferite, e più ci appaiono inseparabili dalla nostra condizione di non-liberati» (Cioran 1982, p. 100).

Cunk on Earth, pur nello spasso assoluto di alcune situazioni, è una serie che provoca un disagio sottile, portando una riflessione tutt’altro che ridanciana su cosa voglia dire oggi fare storia, diffondendo e difendendo il valore della conoscenza del passato. Se volessimo trovare un difetto alla miniserie questo potrebbe essere facilmente rilevato nell’eccessiva ridondanza di gag, calembour verbali e situazioni paradossali; una saturazione che rende manifesto il processo di mockumentarizzazione, finendo così per depotenziare lo straniamento che nasce proprio dallo scontro tra l’ottusità woke della Cunk e la cattedratica serietà degli studiosi interpellati. Resta comunque l’impressione di un prodotto ben confezionato che, col suo mettere alla gogna tutti quelli che vorrebbero mettere alla gogna il passato, finisce per essere una non troppo velata messa in discussione del moderno Codice Hays 2.0, su cui appare fondata larga parte della serialità contemporanea, specie quella di matrice anglosassone.

Riferimenti bibliografici
M. Cioran, Storia e utopia, Adelphi, Milano 1982.
O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della Storia mondiale, Guanda, Parma 1995.

Cunk on Earth. Ideatore: Charlie Brooker; interprete: Diane Morgan; produzione: BBC Two; distribuzione: Netflix; origine: Inghilterra; anno: 2023.

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