Sono ormai almeno quindici anni che Michele Cometa perlustra i territori della cultura visuale, guidando un gruppo di ricerca che ha saputo costruire ponti di dialogo tra le diverse scritture del visuale e che ha portato all’attenzione dei lettori italiani alcuni dei maggiori teorici internazionali della visual culture. Dal 2012 ad oggi, il percorso interdisciplinare di Cometa ha assunto con più decisione e in modo estremamente produttivo la forma “indisciplinata” auspicata ormai venticinque anni fa da W.J.T. Mitchell per gli oggetti di studio e i metodi di analisi di questo sempre più complesso campo di ricerca (Mitchell 1995, pp. 540-544). Da La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale (2012), all’agile e profondo Archeologie del dispositivo (2016) – che pur recando nel sottotitolo i «regimi scopici della letteratura», apriva con più decisione al cinema, veniva dedicato a Francesco Casetti e fissava la cruciale interrelazione tra immagini, supporti e sguardo –, dalla curatela – assieme a Valentina Cammarata – dell’edizione italiana dei saggi di cultura visuale di Mitchell (Pictorial Turn, 2017) alla poderosa proposta antropologica e bioculturale contenuta in Perché le storie ci aiutano a vivere (2017), Cometa arriva a quest’ultimo Cultura visuale (2020) forte di un graduale e sensibile allentamento della interdisciplinarietà a vantaggio di una consapevole indisciplina.

Questa indisciplina non è il contrario della disciplina, quanto il riconoscimento di un’«anomalia», di una «turbolenza», di qualcosa che ci costringe a muoverci non più tra gli steccati delle discipline, ma esattamente sopra quegli steccati, nel punto dove non si appoggia più il piede nell’uno o nell’altro campo, nel punto dove è piuttosto con le mani che bisogna montare le immagini e ricongiungere le forze che premono sotto e oltre le loro forme. Un atteggiamento del genere si può assumere solo quando si sono a lungo attraversati i campi che ora si vorrebbero osservare da una posizione lievemente più rialzata, non per cercare semplicemente le intersezioni tra essi, ma per posizionarsi definitivamente sul confine e lavorare ad un suo allargamento. Lo spazio nuovo non appartiene ancora a nessuno, esattamente come Roland Barthes diceva che doveva accadere al vero spazio interdisciplinare (Barthes 1984, pp. 106-107), eppure rivela la sua produttività a partire dal fatto che sul quel confine sempre più largo e spazioso si ritrovino i filosofi e i letterati, gli antropologi e i sociologi, gli storici e i teorici dell’immagine (dalla preistoria al digitale), i biologi, gli psicoanalisti, i linguisti e i neuroscienziati.

Oggi possiamo ben dire, seppur nel confronto spesso anche acceso, che i territori dell’immagine sono stati negli ultimi decenni tra i più capaci di attirare questa pratica del confine. Man mano che ampliavano i loro domini e il loro «potere», le immagini spingevano sempre più la ricerca a tornare verso l’origine di un «fare-immagine», che ad un’attenta osservazione della sua archeologia (non è affatto un caso che visual culture e media archaelogy abbiano condiviso lo stesso ritmo di crescita, più o meno nello stesso giro di anni) viene ricollocato da Cometa entro una biologia o un’ecologia in grado di spiegare i rapporti che instauriamo con le immagini che ci circondano e che produciamo, per comprenderne infine l’uso sociale, politico, etico, religioso ed economico che ne marca l’incedere e ne segna i caratteri di permanenza e metamorfosi.

Per fissare i termini di queste pratiche del confine, si tende, com’è giusto, a cercarne i precursori. E così, come qualche anno fa Andrea Pinotti e Antonio Somaini identificavano tre figure cui tornare per verificare la vastità e la potenzialità degli studi di cultura visuale – Béla Balázs, László Moholy-Nagy e Jean Epstein –, lo stesso fa oggi Cometa, inquadrando, con molta decisione, i destini della visual culture entro il magistero di tre giganti che tra Ottocento e Novecento hanno cambiato il nostro modo di pensare, rispettivamente, l’immagine, lo sguardo e i dispositivi: Aby Warburg, Sigmund Freud e Walter Benjamin. Ad ognuno di essi Cometa dedica ampio spazio nel secondo capitolo del volume (evocativamente intitolato “Ricordi di infanzia”) e ci rammenta come l’immagine sia prima di tutto incontro, sempre nella forma del viaggio, e non meno possesso, qualcosa che entra nelle vite e le conforma, che nel farsi collezione le ispira e le orienta fino a scandirne gli spazi e i tempi, fino a divenire oggetto di uno scambio intellettuale e umano che forza, di nuovo, i confini della specialità e si trasforma in destino. Ritroviamo così il pensiero di Warburg, di Freud e di Benjamin per come lo conosciamo e per come ha inciso sopra ognuna delle nostre discipline, ma li ritroviamo anche, tutti e tre, uomini come noi, fondamentalmente alle prese con le immagini, con il loro posizionamento dentro gli spazi del privato e del pubblico, con le forme della loro “agentività” e della loro multipla vocazione, con il loro montaggio entro il quadro di riflessioni nuove, condotte, appunto, sopra gli steccati dei saperi.

Nella lunga sezione dedicata alla complessa questione delle “Iconoteche” – luoghi che non conoscono più limiti cronologici, concettuali e tecnologici, luoghi della sovversione e della indisciplina per eccellenza –, Cometa evidenzia bene la forma di queste pratiche. Dalla Wunderkammer alle bacheche social (che non a caso oggi ci propongono moduli pre-impostati di accostamento/montaggio delle immagini, che finiscono per incidere sulla visualità del più grande spazio di condivisione mai pensato), l’iconoteca presenta una forma che nel trasmettere senso assume prima di tutto un profilo che la rende di per sé opera. L’atlante warburghiano, certo, che nel suo montarsi porta l’attenzione dello spettatore sulla sua geometria, sui corridoi tra le immagini, sull’intermedialità di uno spazio nuovo, materiale e metaforico ad un tempo; ma lo stesso può valere per il Musée Imaginaire di Malraux o per le Histoire(s) du cinéma di Godard, e non meno per le collezioni di antichità di Freud, per le forme dell’organizzazione delle diverse iconoteche che il padre della psicoanalisi allestiva negli spazi che abitava, o per l’iconoteca impossibile di Benjamin, forse tradita dai drammatici fatti della sua vita e che pure Cometa ripercorre con scrupolo filologico negli scritti minori e all’ombra del grande progetto su passages parigini.

Ad ogni immagine, ad ogni sguardo, ad ogni dispositivo corrisponde lo specifico confronto tra la memoria e la rimozione, tra la storia e l’attualità, tra ciò che rimane visibile e ciò che si perde nel non più visibile, tra l’elaborazione verbale e scritta e la resistenza che oppone la forma dell’immagine. L’uomo immaginario che resta preso in questi confronti è l’uomo che si incontra sui confini, negli spazi di reversibilità del reale e dell’irreale, dove antropologia e teoria dei media scoprono di avere gli stessi desideri di biologia e neuroscienze e dove l’intrico di immagini, corpi, sguardi e dispositivi diventa spazio di disvelamento dell’eccesso e del riconoscimento, teoria critica della risonanza sociale prodotta dalle immagini.

In più momenti, mentre leggevo Cultura visuale, ho pensato ad uno dei libri più noti della compianta Miriam Bratu Hansen, Cinema and Experience: Siegfried Kracauer, Walter Benjamin, and Theodor W. Adorno (2012). L’ho pensato perché condivide con il libro di Cometa l’idea forte di affidarsi a tre figure provenienti dalla cultura ebraico-tedesca a cavallo tra i secoli diciannovesimo e ventesimo per capire i media contemporanei, l’ho pensato per la formazione germanista che accomuna i due autori, ma soprattutto l’ho pensato perché Hansen scriveva che il ripensamento della specificità mediale del cinema, fissata attorno a temi chiave quali «il movimento, l’animazione e la vita», sarebbe dovuto passare per la sfida di un’espansione metodologica e concettuale capace di dirci che cosa faccia veramente il cinema, a partire dall’esperienza sensoriale, percettiva e mimetica che le immagini in movimento rendono possibile, fino a giungere alle modalità culturali, politiche ed economiche con cui incidono l’esistenza degli spettatori (Bratu Hansen 2012, p. XVII).

Allo stesso modo, nel capitolo conclusivo che coerentemente Cometa dedica alle “Sopravvivenze”, ritroviamo questo primato del bios, che incornicia il potere delle immagini (Freedberg), ciò che esse vogliono (Mitchell), le forme della loro agency (Gell), l’atto del loro guardarci (Bredekamp), la percezione dell’ambiente (Ingold), l’antropomorfismo degli oggetti (Severi). Hansen, con una lezione di metodo per molti versi insuperata, invitava a ripensare ai modi in cui delimitiamo o ampliamo i «confini» del dispositivo cinematografico, lo stesso invito che ci rivolge Cometa, ma in rapporto al meno disciplinato campo della cultura visuale, di cui qui seguiamo una storia articolata e carica di riferimenti, che come tutte le buone storie lascia soprattutto emergere, ad ogni suo passo, il potenziale del proprio futuro.

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, Jeunes chercheurs, in Le bruissement de la langue, Seuil, Paris 1984.
M. Bratu Hansen, Cinema and Experience: Siegfried Kracauer, Walter Benjamin and Theodor W. Adorno, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 2012.
M. Coneta, Perché le storie ci aiutano a vivere: la letteratura necessaria, Raffaello Cortina, Milano 2017.
Id., Archeologie del dispositivo: regimi scopici della letteratura, Pellegrini, Cosenza 2016.
Id., La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Raffaello Cortina, Milano 2012.
Id., a cura di, W.J.T. Mitchell, Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale, Raffaello Cortina, Milano 2008.
W.J.T. Mitchell, Interdisciplinary and Visual Culture, in “The Art Bulletin”, n. 4, Dec. 1995.
A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini, sguardi, cinema, dispositivi, Einaudi, Torino 2016.

Michele Cometa, Cultura visuale, Raffaello Cortina, Milano 2020.

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