Danièle Huillet e Jean-Marie Straub hanno delineato mirabili linee di forza nella cultura italiana, passando attraverso Pavese, Fortini, il primo Antonioni, i filosofi siciliani dell’antichità greca, Dante. Tra questi incontri, c’è quello con Vittorini: nel 1998 Straub e Huillet hanno diretto Sicilia! tratto da Conversazione in Sicilia, poi tra il 2000 e il 2002 hanno realizzato Operai, contadini e Il ritorno del figliol prodigo – Umiliati tratti da un altro romanzo di Vittorini, Donne di Messina.
L’Italia di Straub-Huillet è un’Italia ancorata nel mito. Ma per loro il mito è sempre una potenza nell’attualità, è storia vivente. Per usare il titolo del loro primo film dedicato a Pavese, la nube del passato immemoriale si dissipa nel bagliore della resistenza nella storia (Dalla nube alla resistenza). Per Straub-Huillet il mito è una forma propriamente storica di narrazione del mondo. In questa prospettiva, non si configura come uno spazio-tempo separato, ma è sempre presente nell’esperienza concreta che l’uomo fa del mondo.
Se pensiamo al personaggio principale di Conversazione in Sicilia di Vittorini, il suo rimpatrio nell’isola del mito non è un ritorno verso una dimensione extra-storica. Silvestro prende coscienza proprio in Sicilia del male storico che affligge il mondo. I paesaggi – la terra, il mare, il volto della madre – non lo fanno inoltrare nell’immemoriale. Gli fanno, invece, scoprire la lotta di classe, grazie a personaggi come il Gran Lombardo o ai racconti della madre. La conversazione con l’arrotino alla fine del film di Straub-Huillet sintetizza questo modo di affrontare il problema del rapporto tra mito e storia. L’arrotino incarna la rottura della ripetitività dell’eterno, introduce le tecniche che dovranno essere utilizzate per l’emancipazione umana: «Coltelli e forbici, pugni, picche e archibugi; mortai, falci e martelli, pistole, cannoni, dinamite».
Il trattamento della relazione tra spazio e tempo illustra bene il modo in cui Straub e Huillet si districano fra mito e storia. Lo spazio domina certamente. Alla maniera di Antonioni, esso si configura come l’orizzonte degli eventi, già là, da sempre. Ma dentro di esso lascia dispiegare tutta una serie di movimenti, che costituiscono la sua natura frattale. Lo spazio assume così una forma fortemente plastica, un po’ come la khôra platonica, la materia-matrice che può assumere qualsiasi forma in quanto spazio.
Per questo motivo, nel lavoro di Straub e Huillet, la natura è spesso associata al vuoto, al deserto. I loro film illustrano tutta la potenza rivoluzionaria della sottrazione: le loro inquadrature mirano ad una forma di purezza, eliminando il maggior numero di cose possibili: sembrano puntare a farci vedere la natura stessa, lo spazio. Ma gli oggetti che comunque si frappongono fra il nostro sguardo e la natura assumono, proprio per questo, una rilevanza maggiore: essi, anche i più banali (un filo, degli alberi, una pietra, una lucertola, ecc.), da una parte, daranno l’impressione di non essere mai stati visti prima, dall’altra, variano, moltiplicano, riempiono lo spazio della natura fino a farlo saltare in aria. In altri termini, è nell’operazione sottrattiva nello e dello spazio naturale che i registi ci fanno scoprire non una presunta natura originaria, ma solo le sue infinite cose.
Dentro lo spazio naturale, nella terra deserta, è in gioco un’altra relazione: quella tra la voce sonora e l’immagine visiva. C’è una disgiunzione tra questi due elementi, dice Deleuze. Nel momento in cui vediamo i deserti, i paesaggi bruciati dal sole, sentiamo una voce che si alza. È proprio qui l’evento radicale, la rottura con l’eternità. Da questo punto di vista, se la materia rimane l’oggetto principale di Straub e Huillet, è una materia trafitta dalla parola. La parola non racconta la natura, ma la fa risuonare con l’aiuto di strumenti che possono essere chiamati immagini (e anche grazie alla musica stessa). È l’ispirazione bachiana, hölderliniana e cézanniana di Straub e Huillet – la corporeità costruttivista della materia sonora, prosodica e coloristica (Passerone).
Vittorini, Straub e Huillet sono grandi ammiratori di Cézanne perché la sua arte è una sperimentazione sulla materia fisica. Questo testimonia il loro comune rifiuto del realismo, in nome del naturalismo, o anche dell’espressionismo, sulla scia del distanziamento brechtiano: non mostrare la realtà delle cose, non far vedere la natura, ma mostrare e far sentire le cose come se non fossero evidenti.
Va da sé che questa natura non ha nulla della forma perfetta del cosmo. Straub e Huillet, come Hölderlin, appartengono a un filone anti-Goethe, a cui si associano molti artisti italiani: la tradizione meticcia e plurilingue che va da Dante e Bruno a Pasolini. La natura non è una questione di misura. È il luogo in cui una moltitudine di linee si sostiene e si disperde. Così la natura è anche il luogo di tutte le possibilità, quella che Giorgio Passerone chiama «la foresta in marcia»: il piano dell’immanenza diventa finalmente molecolare.
Parlare del rapporto spazio-tempo nei film di Straub e Huillet significa evidenziare i tre punti che li hanno portati a interessarsi a Vittorini: a) il rapporto disgiuntivo tra l’orizzonte e gli eventi, la natura e la storia: «Viene il sole ed è sole che è sempre stato, viene a piovere otto giorni ed è pioggia che cade da ottanta secoli»; b) i dinamismi che animano e contraddicono questo orizzonte: il movimento perpetuo che anima l’Italia del dopoguerra: «Il grande andirivieni di popolo (…) di settentrionali e meridionali che cercano sistemazione, di reduci che cercano, di ex deportati che cercano, di partigiani che cercano, di brava gente e di non brava gente che cerca qualcosa…»; c) l’utopia: «Di che cosa mancano gli uomini quando vanno male? Mancano di riunione».
Questi punti vengono affrontati nei due film tratti da Donne di Messina. La riunione è l’utopia concreta di una nuova comunità umana realizzata dai contadini sugli Appennini. Per Vittorini, la comunità nasce dal movimento stesso di uomini e donne che attraversano la Penisola. C’è una stretta relazione tra l’andirivieni delle persone e la conquista dell’utopia. Straub e Huillet avevano sviluppato il tema già nel loro Mosè e Aron: la partenza di Mosè per il deserto non costituisce una destinazione, ma significa che un popolo deve sempre muoversi, mai fermarsi.
La forma utopica più compiuta in Vittorini e in Straub e Huillet è, infatti, lo sconfinamento: «Hanno proprietari i deserti che i nomadi attraversano?». La fuga, il movimento, il rifiuto di stabilirsi, quella che si potrebbe definire una vita nomade, disturbano certamente le linee tranquille e incastonate dello spazio, ma pongono soprattutto il problema dell’evento. Così la deterritorializzazione diventa la possibilità concreta di un’utopia. In effetti, Straub e Huillet sono interessati alla parte del testo di Vittorini che evoca la costruzione della nuova comunità con tutti i conflitti che essa apre anche tra i suoi sostenitori. Vittorini ha immaginato una sorta di quaderno dove le persone condividono (con chi?) le preoccupazioni che incontrano ogni giorno nella nascita della nuova società. È chiaro che il progetto utopico non mira al futuro, ma alla concretezza stessa del suo dispiegamento.
Sempre seguendo la linea anti-Goethe, si potrebbe dire che questa nuova forma sociale è anche il risultato di un nuovo rapporto con la natura. Non è un caso che gli operai e i contadini di Vittorini possano creare una nuova comunità politica solo nella foresta. La natura è lo spazio aperto di questa comunità (una Lichtung democratica!). Come dice Hölderlin, è quando «il verde della terra risplende di nuovo» che le persone si tenderanno di nuovo la mano, rispetteranno la parola data e condivideranno i loro beni.
All’epoca del boom economico italiano, la fuga attiva nella foresta degli «umiliati» – una vera e propria diserzione – non è à la page. Vittorini mette in scena anche un gruppo di uomini che vengono a dare ai comunardi una lezione di storia (e di morale). Queste persone «con la sciarpa rossa» criticano aspramente l’azione della riunione perché rifiuta ogni progresso tecnologico e non capisce nulla del nuovo mondo: «Perché c’è ormai un mondo solo, in fatto di economia. E chi si apparta perde il treno». In breve, sono i sostenitori di una politica economica produttivista, tipica della borghesia, ma anche di una parte del mondo operaio. Vittorini non esprime alcun giudizio di valore su questa posizione.
D’altra parte, in un articolo comunque formidabile, Calvino, seguendo le riflessioni finali di Vittorini, riesce a definire questi cacciatori come arcangeli che danno la buona novella ai contadini. In breve, sono i messaggeri del vero progetto di liberazione. La prospettiva di Straub e Huillet non potrebbe essere più lontana da questo punto di vista. I cacciatori sono per loro solo dei bastardi perché rompono le dinamiche fraterne ed egualitarie dei comunardi. Li sconfiggono e li umiliano di nuovo. I comunardi non saranno solo espulsi dal bosco e dal loro progetto: sono espulsi dalla storia. È il destino dei vinti.
Ma il lavoro da robivecchi di Straub e Huillet consiste precisamente nella volontà, malgrado tutto, di salvare una parte di quel passato, di riscattarlo (“Fare la rivoluzione è anche mettere a posto cose molto vecchie ma dimenticate”, dice Péguy). Solo la memoria, come insegna Pavese in La luna e i falò, può creare il legame tra il comunismo e il passato dell’uomo. Sono le antiche ingiustizie, basate sui sacrifici che un tempo gli dei imponevano agli uomini, che devono essere vendicate. Il rapporto con l’immemoriale in Sicilia non compone in alcun modo l’immagine eterna del passato, ma coglie piuttosto l’esperienza unica di un’epoca in cui la vita significa, secondo Vittorini, «rispondere e reagire, essere presenti». L’evento sarà allora la cristallizzazione di quell’istante in cui convergono tutte le speranze e le sofferenze del passato: «Ogni minuto pieno porta in sé la negazione di secoli di storia zoppicante e spezzata» (Breton).
Alla fine di Ritorno del figliol prodigo – Umiliati, vediamo Siracusa, una delle donne più coinvolte nella lotta, seduta con la testa tra le braccia. Sembra completamente distrutta dalla sconfitta dell’ipotesi comunarda. Eppure, nella sua desolazione, trova la forza di chiudere il pugno. In una sorta di sineddoche dell’intero lavoro di Straub e Huillet, quel gesto non riconciliato è un invito a restare dentro un percorso di emancipazione. Straub e, prima di lui, Huillet, ci hanno ormai lasciati. Come salutarli degnamente? Chissà… chiudere un pugno… almeno non chiudere in ogni tempo gli occhi.
Jean-Marie Straub, Metz 1933 – Rolle 2022.