Parlando di Cronaca di un amore, ancora oggi, a ben settant’anni dalla sua uscita, le parole più sensate da cui partire restano probabilmente quelle del suo creatore, Michelangelo Antonioni, che ebbe a definire il suo film una sorta di «cronaca intima di un amore in due tempi, un sondaggio nell’animo dei due personaggi» (Di Carlo 2018, p. 117). Proviamo per un attimo a seguire il suo ragionamento e a vedere fin dove ci porta.

I “tempi” a cui fa riferimento il regista sono evidentemente un passato che, per un qualche oscuro motivo, continua a tornare e un presente segnato dal cambiamento più radicale. Non si tratta però dell’unico ideale doppio implicato nella storia dei due amanti, Guido (Massimo Girotti) e Paola (Lucia Bosè). Due sono, infatti, i delitti avviluppati nel gorgo asfittico della loro passione: due morti apparentemente spontanee, per certi versi invisibili, che pur restando ai margini della messa in scena ne scandiscono gli snodi cruciali (la fine del primo tempo e quella del secondo). Così come risultano due anche le donne in gioco, o meglio, un’unica protagonista che si trasforma completamente negli anni diventando un’altra. È proprio la sua metamorfosi, denunciata in maniera clamorosa da alcune vecchie foto, a destare sospetti nell’attuale (ricco) marito di Paola, Enrico Fontana, inducendolo a commissionare un’indagine a un’agenzia privata: l’uomo vuole sapere chi ha sposato, perché a ventisette anni sua moglie è così diversa da quando ne aveva diciannove ed era solo una giovane studentessa della provincia di Ferrara, che cosa ha fatto prima di riuscire a mimetizzarsi perfettamente nell’ambiente dell’alta società di Milano, quali relazioni ha avuto nel fatidico periodo in cui le ragazze “si svegliano”, come fa notare in tono sardonico il detective al suo collaboratore. L’indagine rimette in moto tutto, portando di nuovo Guido da Paola: e se tutte quelle domande avessero a che fare con la misteriosa morte di Giovanna, all’epoca migliore amica di Paola e fidanzata di Guido, precipitata nella tromba dell’ascensore perché non si era accorta che la cabina non si trovava al piano (dettaglio che i due, presenti sulla scena, si sono ben guardati dal segnalare)?

Due tempi, due amanti, due morti, due donne. Si potrebbe addirittura azzardare, sconfinando di livello: due film. La filiazione immaginifica con Ossessione (1943) è abbastanza evidente – Cronaca di un amore sembra quasi derivare per gemmazione dal film di Visconti: gli amanti maledetti che cospirano per uccidere il marito di lei, l’ambientazione parzialmente ferrarese, lo stesso interprete maschile (Girotti), i fantasmi narrativi di certi postini che continuano a suonare due volte. Ma forse sarebbe più corretto riclassificare entrambi, seppure con le dovute sacrosantissime riserve, sulla base di una comune matrice melodrammatica (con ascendenze noir) e, pertanto, portare il discorso sul piano del cinema di genere e dei suoi insindacabili vincoli diegetici e stilistici. Essendo, d’altronde, il melodramma il regno del doppio, tutte le sopracitate occorrenze sembrano risolversi pacificamente: oltre a rappresentare il primo lungometraggio di Antonioni, Cronaca di un amore sorge insieme agli anni Cinquanta, decennio contrassegnato cinematograficamente da un’indiscussa fase di rinascita dei generi (melodramma compreso), rinvigoriti dallo scossone estetico del neorealismo e dalle nuove potenzialità spalancate da un orizzonte multimediale prettamente popolare (rotocalchi, fotoromanzi, concorsi di bellezza, moda, divismo).

Eppure l’incipit del film denuncia ben altro, prospettando fin da subito allo spettatore, attraverso le parole del detective che osserva le vecchie foto di Paola, un punto di vista quantomeno ambiguo, estraniato, meta-riflessivo: «Non è la solita storia…». No, non lo è affatto. Come potrebbe esserlo? La “cronaca in due tempi” di Antonioni ha ben poco a che fare con i codici tradizionali. Perché si esprime in una lingua diversa, moderna, disarticolata – fatta di piani-sequenza, raccordi a percezione ritardata, composizioni in profondità, campi-vuoti, sospensioni sul paesaggio, abolizione del primo piano – che riconfigura fotogenicamente il tempo e l’amore, lasciando emergere i primi sintomi della malattia dei sentimenti e dello stile-Antonioni (uno stile che agli entusiasti critici francesi dell’epoca ricorda Hitchcock e Orson Welles).

Non sono partito con una “teoria” nel cervello. Volevo soltanto rompere con una certa sintassi che sentivo ormai superata e stanca. Il giuoco dei campi e dei controcampi per intenderci, mi era divenuto da tempo insopportabile. In questo primo film me ne sono in buona parte liberato con lunghissimi movimenti di gru: inseguivo i personaggi finché non sentivo il bisogno di staccare. […] Non ho applicato – ripeto –  nessuna formula, nessuno schema. Anche per quel che riguarda il “contenuto” è la stessa cosa. Non sono partito dal presupposto di fare una critica a una classe sociale. Il soggetto è nato come storia di due personaggi. E ho cercato di scavare il più possibile dentro di loro. Naturalmente questi personaggi si muovevano in un determinato ambiente. Ma non ho forzato la mano nel descriverlo. Ho cercato di essere il più obiettivo possibile. […] Forse nel mio film ci sono maggiori sbagli che in altri. Ma forse proprio perché ho tentato di ribellarmi a certi schemi correnti, perché non ho voluto di proposito toccare certe corde troppo facili o mettere in moto meccanismi ormai logori. Per esempio ho abolito la “vittima”, l’“eroe”, il “buono”, il “cattivo”. Ho cercato di conservare ai miei personaggi la complessità degli esseri umani (Antonioni 2009, pp. 229; 232).

Lo schema melodrammatico – ravvisabile in tutti quegli inutili claudicanti “due”, pronti in ogni momento a implodere o ad assumere sembianze triangolari – è solo un’impalcatura esterna finalizzata a sostenere un’altra tipologia d’indagine che riguarda, più in generale, lo sguardo nascente di un autore, l’immagine stessa e il reale: «[…] già da Cronaca di un amore, il cinema di Antonioni non è una situazione drammatica registrata da una macchina da presa, ma una camera che si muove liberamente entro il reale e gli dà forma» (Cuccu 1973, p. 40). Questo movimento autonomo ha la levità rigorosa di un balletto – secondo una celebre osservazione di Noel Burch, si pensi al clamoroso piano-sequenza sullo sfondo dell’Idroscalo –, coreografato tra i personaggi, i loro sentimenti e il paesaggio, in una penombra multidimensionale tanto vivida quanto al fondo impenetrabile: ad Antonioni non interessa più la bicicletta di Antonio Ricci (e di De Sica), il pedinamento, ma il mistero inesprimibile confinato negli umani sentimenti, così fragili e così profondamente malati:

Se siamo ammalati di Eros, diceva Antonioni, lo siamo in quanto Eros stesso è malato; ed è malato non semplicemente perché vecchio o superato nel proprio contenuto, ma perché è catturato nella forma pura di un tempo che si lacera tra un passato già finito e un futuro senza uscita. Per Antonioni esiste solo la malattia cronica, Chronos è la malattia stessa (Deleuze 1989, p. 35).

La passione tra Guido e Paola arde sulle gelide braci di un fuoco ormai estinto, qualcosa che è stato (un amore, un desiderio, un destino, una delitto, il peso insostenibile della colpa) e che non può più essere propriamente rappresentato, ma solo investigato, esaminato, refertato, diagnosticato. Il fatto è (stato) altrove. Restano solo le sue emanazioni esistenziali e patologiche, rapprese in un vuoto che conferisce loro una forma, una verità, una potenza.

L’azione (delittuosa e non) sarebbe di per sé insignificante, noiosa. La visione dell’autore preferisce assecondare la grazia dei transiti passeggeri, delle intercapedini clandestine, degli incontri provvisori, dei silenzi attoniti di chi, semplicemente, non sente più nulla e finisce per svanire tra un’inquadratura e l’altra. E l’espressione imperturbabile di Lucia Bosè, artificiosamente immortalata nel fulgore dei suoi diciannove anni – un volto, il suo, indeformabile da riso e pianto, a detta del suo pigmalione Antonioni –, si impone alla memoria spettatoriale come prodromo enigmatico (e melodrammatico) del femminile antonioniano a venire, dieci anni prima di Monica Vitti e dell’alienazione. È lei la prima malata cronica, la paziente zero.

Riferimenti bibliografici
N. Burch, Prassi del cinema, Pratiche, Parma 1980.
L. Cuccu, La visione come problema. Forme e svolgimento del cinema di Antonioni, Bulzoni, Roma 1973.

G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989.
C. di Carlo, a cura di, Il mio Antonioni, Fondazione Cineteca di Bologna, Bologna 2018.
C. di Carlo, G. Tinazzi, a cura di, Fare un film è per me vivere. Scritti sul cinema, Marsilio, Venezia 2009.
T. Kezich, A. Levantesi, a cura di, Cronaca di un amore – Un film di Michelangelo Antonioni. Quando un’opera prima è già un capolavoro, Lindau, Torino 2004.
E. Morreale, Il mélo modernista: Antonioni, in Id., Così piangevano. Il cinema melò nell’Italia degli anni cinquanta, Donzelli, Roma 2011. 

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