Toni Servillo in Rasoi (Martone, 1993).

“Credetemi: noi artisti di teatro, noi che crediamo alla nostra arte e che viviamo solo per lei, in ogni parte del mondo, dovremmo riunirci e lavorare insieme…”.

Questa frase di Konstantin Stanislavskij è uno dei viatici che accompagna una mostra per molti versi eccezionale, visibile fino al 2 ottobre a Palazzo Reale a Napoli: “1987/2017 Trent’Anni Uniti”, a cura di Maria Savarese, con il coordinamento di Laura Ricciardi (che ha lavorato con il Team dell’Archivio di Teatri Uniti, conservato minuziosamente da Angelo Curti), sul lavoro più che trentennale di una “factory” artistica che ha segnato non solo lo spettacolo italiano, ma quello internazionale: Teatri Uniti. È come addentrarsi, entrando nel grande capannone percorso dalle luci mutanti di Pasquale Mari e dal tessuto sonoro di Daghi Rondanini, in un’astronave che viaggia nello spazio-tempo di un flusso creativo lanciando segnali e vivendo sulle ribalte e sugli schermi di tutto il mondo, partendo da quella formazione fondativa che intersecava e dava prospettiva propulsoria a tre gruppi che, in quello scorcio degli anni ‘80, avevano già  imposto sulla scena internazionale un rinnovamento, e insieme determinato un aggancio drammaturgico e “connettivo” con la tradizione teatrale e culturale, non solo del Novecento.

Ciò avveniva prendendo le mosse dalla vitalità inesauribile di una città come Napoli. I gruppi erano “Falso Movimento” (Mario Martone, Angelo Curti, Andrea Renzi, Licia Maglietta, Pasquale Mari, Lino Fiorito, Tomas Arana, fin dagli inizi compagine polimorfica, che già allora percorreva territori tra teatro e video, innovandone alla radice la potenza immaginaria), “Teatro Studio di Caserta” (la cui anima era già allora Toni Servillo) e “Teatro dei Mutamenti” (fecondato dalla energia intransigente e poetica di Antonio Neiwiller). Era tempo di rilanciare e mettere in orbita, secondo le rispettive direttrici, un lavoro irresistibilmente attratto dall’esplorazione di nuovi territori e da avventure creative plurali. Questa pluralità, a vederla in prospettiva, risulta come una incessante “opera” che trova la sua unità in una sorta di aura diffusa, dove i progetti e le realizzazioni vivono nella divergenza eppure convergono in una segreta coerenza, all’insegna dei vasi comunicanti, di una alchimia che ne scioglie le irradiazioni e ne costituisce un composto,un amalgama, sospeso in un alambicco dove si mostrano, si aprono i “colori dell’opera”.

Anche una mostra può essere un’opera.  Anzi mettere in mostra, e direi in scena il processo di un lavoro, le modalità e i percorsi creativi che hanno generato messinscene, performance, film, può significare estrarre l’irraggiamento di vitalità, il fieri che di quell’itinerario creativo si è attuato nel tempo e che ha dilatato spazi, luoghi, incontri, assonanze, analogie. E quando si tratta di un’opera plurale, di una vera e propria officina di creazione che raccoglie, unisce, singolarità artistiche, campi di intervento, apporti non solo registici e attoriali, ma anche procedimenti di lavoro sul suono, sulla luce, sullo spazio scenico, sull’immagine, ciò che rivive e si incarna è un’aura collettiva e intercomunicante, il costruirsi progressivo di un modello non solo artistico di per sè, ma produttivo, che racchiude nel prodursi anche una sua etica e coerenza.

È ciò che accade nel caso di Teatri Uniti, della sua visione che si dipana e prende luce e corpo e suono lungo un cammino cui è invitato lo spettatore, come su sentieri che borgesianamente si biforcano, e dove sono disseminate tracce, alcune più evidenti, altre più segrete, come entro la crittografia di una mappa. Le pareti del padiglione, i doppi pannelli, gli angoli, i tavoli di vetro, le foto (di Cesare Accetta, Marco Caselli, Antonio Biasucci, Patrizio Esposito, Gianni Fiorito, Tommaso Le Pera, Mimmo Iodice) o i manifesti che si squadernano o si nascondono, le strisce di luce, le linee sonore, introducono e conducono verso il fondo dove (proprio come nel fuoco di un fornace) si gonfia un sipario rosso.

È quello che in uno spettacolo fondativo per Teatri Uniti, quel Rasoi, a firma di Martone e Servillo, arretrava in un travelling scenico a scoperchiare, nel viaggio-catabasi  del “sang d’un poète”, Enzo Moscato, nei sotterranei anacronici di una città-mondo come Napoli, e dietro cui si accende una “camera obscura” che fa vivere straordinari “assoli” o “scene collettive” degli artisti che emergono in continuità tra “fondo” e “superficie”, memoriale e attuale, sotto l’arcano acronimo di KCM. Sono le “ombre vive” di Neiwiller, Leo De Berardinis, Thierry Salmon, Steve Lacy, Theo Angelopoulos, Fabrizia Ramondino, Lucio Amelio, Lucio Dalla, Fausto Mesolella, Fabrizia Ramondino, Alda Merini, Herz Frank, Ermanno Rea, Gianni Caiafa, Mario Scarpetta, Kermith Smith, Cesare Garboli.

Così come simmetricamente sull’altro fondo, il nostro “altro sguardo” si posa su un grande quadro-scrittura percorso da cellule rosse come stelle incandescenti, dove Lino Fiorito ha trasformato in opera un suo scritto su Teatri Uniti, che si apre con queste parole: “Teatri Uniti è un luogo senza porte”. Come un koan, un haiku, un calligramma queste parole producono l’eco dell’“applauso di una sola mano”, quell’inudibile-udibile, visibile-invisibile che trascorre, come l’onda incessante di una creatio continua, lungo tutto l’arco spazio-temporale di questi trent’anni che misteriosamente si racchiudono in un “atto simultaneo”. Una pluralità di anime che si danno alla reviviscenza e testimoniano di una dinamica in atto.

Certo le direttrici che fin dalla fondazione si dipartono sono tuttora fertili e vive e trovano conferma e coerenza: lavoro drammaturgico e spaziale e filmico alle radici del tragico e nel solco di una modernità che si interroga sul mito come sull’Italia e sulla forma-comunità per Martone, l’innesto vivificante sul nesso attore-messinscena, tradizione e scarnificazione attuale di una linea Moliere/Marivaux/Goldoni/Pirandello/Viviani/Eduardo/Jouvet percorsa da Servillo, lo scavo transitante nel gesto artistico di un moderno incarnato nel plesso fisico, materico e pittorico del compianto Neiwiller.

Queste linee sono allo stesso tempo sia testimonianze di “magisteri”, sia inesauribile operatività collettiva, sia affondi drammaturgico-attoriali-registici, come per Andrea Renzi, Licia Maglietta, Toni Laudadio, Enrico Ianniello, Iaia Forte, Roberto De Francesco, Francesco Saponaro. E sono quei sentieri biforcantesi anche il concimare, curare, far crescere da un lato tutta una serie di giovani attori e registi formatisi nel “luogo senza porte”, e dall’altro il “dar luogo” e progettualità a un lavoro cinematografico che, partendo dai film di Martone, si sdipana nei film di Sorrentino, Incerti, Delbono, Dionisio, Paladino, Ferrente, Piperno, Soldini, Corsicato, Capuano De Lillo, fino al fertile terreno del nuovo  “cinema del reale” di Giovanni Cioni, Ugo Capolupo, Massimiliano Pacifico, Diego Liguori, Caterina Biasucci, Maurizio Fiume.

E, come testimoniato dall’itinerario inscritto sulla mappa “vivente”, sbalorditivo appare il “cammino” per il mondo di Teatri Uniti, con le tournè lunghissime (dalla Russia a New York, dal Cairo a Chicago, da Londra a Parigi, da Istambul a Madrid), le coproduzioni con il Piccolo di Milano, le collaborazioni laboratoriali (come con l’Università della Calabria o con il Teatro di Toscana), le interazioni con realtà teatrali in Spagna, Francia o Portogallo, e le molteplicità progettuali che sono state pronube di impulsi (dallo spazio teatrale rivoluzionario progettato in una chiesa per la città da Giancarlo Muselli alle idee inesauribili per spettacoli e film, come quella sceneggiatura che è in mostra su un Papa morente o il progetto da Ferito a morte di La Capria, che hanno costituito per Paolo Sorrentino spunti per opere a loro modo “epocali” come The Young Pope o La grande bellezza).

In questo senso Teatri Uniti ha costituito e costituisce (avendo come “perno rotante”, la città porosa, Napoli) una “palestra” oltre che ideativa anche produttiva facendo della “factory” e della capacità di ascolto di Angelo Curti e Costanza Boccardi un riferimento (come avvenuto ad esempio per il nucleo produttivo che diventerà la Indigo film). Tale irraggiamento ha una continuità fatta di segnali, incontri, proliferazioni di opere, connessioni, estensioni di progetti da cui lo spettacolo italiano e internazionale continua a trarre linfa vitale. Ecco perché a settembre lo spazio della mostra si trasforma ancora, si fa luogo “senza confini” con la presentazione del film di Pacifico e Liguori sul processo di costruzione dell’Elvira di Servillo o con una creazione tra teatro e musica intorno a Beckett a cura di Andrea Renzi e dell’Ensemble Dissonanzen.

Il “territorio” espanso di Teatri Uniti invita allora al viaggio continuo, a un attraversamento della mappa che prende vita sotto i passi comuni di artisti e spettatori, uniti.

Share