Cosa fa il critico? Qual è il suo mestiere? Anche se alle volte può sembrare una forma di vita parassitaria – zanzara che succhia il sangue degli altri – non sempre è così. Per fare due esempi a caso: non avremmo mai imparato a leggere l’Ulisse di Joyce senza la critica di Ezra Pound e Thomas S. Eliot, né il teatro di Carmelo Bene sarebbe stato lo stesso senza i saggi che gli dedicò Maurizio Grande. Fare il critico è, a dir poco, una fatica bestiale. Bisogna essere dentro all’opera fino al collo e confondercisi, ma anche fare quel salto indietro che permette di dirne qualcosa di sensato.

Per spiegare il lavoro del critico, Roberto De Gaetano, nel suo Critica del visuale, dice che si tratta di abitare quello «spazio problematico» (2022, p. 21) in cui il corpo individuale di un’opera sprigiona il suo contenuto universale. L’atto critico è un nodo, lo stringersi di due fili di cui uno, l’opera, è dato ma l’altro, il contenuto, non c’è ancora e va trovato. O forse c’è ma da soli non riusciamo a vederlo. L’escogitazione critica è «un tirare fuori che è un dissolvere la forma stessa» (ivi, p. 23) perché, se è autentico studium, restituisce all’opera il carattere terribile e autodissolutorio che le appartiene. Il critico è una specie di piccolo Edipo che mentre svolge e risolve l’enigma della Sfinge diventa egli stesso enigma, ma che, al contrario del mostro che almeno ha il buongusto di starsene rintanato nell’antro, ha la faccia tosta di farsi vedere in città e mettersi a parlare con gli altri.

Effettivamente, il modo migliore per leggere un libro è scriverne un altro. Non si può pretendere la stessa cosa dallo spettatore di un film, però è vero che quando un film ci piace siamo costretti a rivederne le sequenze dentro la testa, rimontandolo e ricombinandone le immagini mentre passeggiamo oppure ci stiamo per addormentare. Il critico fa uguale ma in modo più raffinato. Il libro di De Gaetano è una celebrazione della grande critica cinematografica, soprattutto francese, soprattutto André Bazin e Serge Daney che meglio di tutti sono riusciti a cavare fuori dal film il contenuto universale. Detto in due parole: l’universale è «la rivelazione del mondo» (ivi, p. 34), la sua verità.

Quale verità di mondo viene rivelata dal cinema? Sembra una domanda un po’ troppo generica ma non lo è. Godard ha risposto dicendo che il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo (perché nello spazio di un secondo c’è posto per quei ventiquattro fotogrammi che, scorrendo velocissimi davanti all’occhio, danno l’illusione di un movimento continuo). A cosa si riferisce questo gesto meccanico di scomposizione? Al fatto che lo sguardo cinematografico è di per sé critico, non perché si allontana dal mondo, è una sua rappresentazione, uno spettacolo, ma perché vede ciò che il nostro occhio non vede: gli atomi del movimento, che Zenone d’Elea chiamava i kinēmata.

Il cinema è un esercizio d’analisi capace di esibire le unità minime del divenire che stanno sotto la soglia percettiva dello sguardo normale. Il 1895 è l’anno in cui i fratelli Lumière proiettano il film di un treno che arriva alla stazione ma è anche l’anno in cui Max Planck inizia i suoi studi sulle radiazioni elettromagnetiche, che lo porteranno a ipotizzare l’esistenza dei quanti, i pacchetti di energia discreta che le particelle irradiano e assorbono. L’invenzione del cinema e la scoperta dei quanti hanno in comune l’idea che la realtà è radicalmente discontinua, è discontinua alla radice, anche se la comodità della percezione quotidiana ce la fa apparire come un flusso unico e coerente. È forse questa l’«idea che emerge dal sensibile» (ivi, p. 50) e che è affare della critica saper cavar fuori dalle opere e dalle cose che ci circondano, verità dell’arte e, insieme, verità del mondo (ivi, p. 41)?

ll cinema produce l’idea atomistica per mezzo della pellicola, che lo fa chimicamente e luministicamente, e con le inquadrature, «mezzo attraverso il quale costruire i limiti e definire le forme del prelievo sul reale» (ivi, p. 73), ma anche attorialmente, come ad esempio la passeggiata di Charlot, tutta scatti, spasmi e salti. Il primo effetto del cinema è proprio questo, analizzare e scomporre il corpo della percezione quotidiana in una sequenza di momenti staccati e tutti uguali. Il cinema radicale è per vocazione antinarrativo, non racconta storie, rifiuta il mythologein, non subordina le parti al tutto, è una krisis del racconto. I ventiquattro fotogrammi al secondo sono una sequela di immagini minime e discrete che diventa una specie di paradigma per tutti i segni del cinema. L’immagine cinematografica non assomiglia alla realtà, né le vuole assegnare un significato, ma è una sua continua imbalsamazione (Ibidem), potremmo dire: la ininterrotta interruzione e polverizzazione della realtà.

Per Gilles Deleuze, uno dei riferimenti teorici maggiori di De Gaetano che, detto per inciso, è stato il primo in Italia a scrivere sulla sua filosofia del cinema, il cinema e la rivoluzione scientifica del Novecento fanno la stessa cosa: non correlano il movimento a degli istanti privilegiati capaci di organizzarne la sintassi ma lo scompongono in istanti qualunque, messi in fila paratatticamente e senza un ordine necessario. È ciò che Bazin aveva visto in Ladri di biciclette: la contingenza delle storia, il modo aleatorio e non vincolante in cui i singoli momenti stanno in rapporto reciproco, gli episodi che potrebbero benissimo scambiarsi di posto senza che il senso del film cambi (ivi, p. 28). In questa dissoluzione della propria continuità da parte della pellicola cinematografica, collier senza saldatura e senza filo, si danno a vedere per la prima volta lo spazio e il tempo qualsiasi, disorientati, anonimi, che dormono come un enigma sotto tutte le scene di mondo.

Il cinema è il contrario delle immagini programmate, le sequenze pronte a ogni uso e consumo che coincidono con quello che ci siamo abituati a chiamare il visuale. Il visuale, termine abbastanza osceno come la maggior parte degli aggettivi che dio solo sa perché ci piace così tanto sostantivare, e che è diventato subito uno slogan dell’accademia, è la categoria della fluidità percettiva e istituzionale che compiace alla troppo umana esperienza che non lascia sussistere intervallo né distanza tra le immagini (ivi, p. 60). Il visuale è la versione aggiornata del prologo di Euripide, dove ogni enigma e problema vengono formulati esclusivamente in funzione della risposta.

Contro il bergsonismo spontaneo delle nostre abitudini sensoriali, lo sguardo critico-analitico del cinema ci fa entrare in un regime della visione sub- o forse oltre-umana, fin dentro «la grana della materia» (ivi, p. 118), la decomposizione della materia solida o liquida nelle sue perle atomiche. L’esercizio del critico è una specie di relais del cinema, ne raccoglie la krisis destrutturante. Se mai il critico è capace di un qualche lavoro di mediazione tra il film e il pubblico, allora il suo dovere è continuare il gesto ideativo del cinema, aiutare l’opera a partorire il concetto atomistico e risvegliare il nostro sguardo e l’ascolto dal torpore del racconto.

Roberto De Gaetano, Critica del visuale, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2022.

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