Si tratta di «concepire con rigore […] le “arti” come sistemi di segni o linguaggi onde si manifesta il pensiero, ossia il pensiero è concretamente pensiero» (2024, p. 184): è questa la posta in gioco della Critica del gusto di Galvano Della Volpe (1895-1968) appena ripubblicato dalle edizioni Aesthetica (questa nuova edizione è preceduta da una accurata e ricca “Presentazione” di Romeo Bufalo che permette di collocare il libro nel suo contesto storico, e così di poterne apprezzare l’attualità). L’arte, in particolare la poesia (è di questa che si occupa specificamente la Critica del gusto, anche se la proposta di Della Volpe vorrebbe applicarsi a tutte le arti), rientra nel campo esteso della semiotica, ossia appunto nel campo dei “sistemi di segni”. L’arte non è “intuizione”, come voleva l’estetica crociana, cioè quella ancora prevalente in Italia al tempo della prima edizione del libro (1960), l’arte è piuttosto “espressione”.

Qual è la differenza fra queste due impostazioni? Ad un lettore non addentro alla storia dell’estetica (e digiuno di semiotica e di teoria del linguaggio) l’idea che l’arte sia essenzialmente “espressione” sembra talmente ovvia da non meritare nessuna spiegazione. Che cosa fa la mitica figura dell’artista se non esprimersi? Cos’è l’arte se non, e principalmente, una peculiare forma di “comunicazione”? Prendiamo la definizione di “arte” in Wikipedia, che possiamo considerare – proprio per il suo carattere collettivo e anonimo – come una sorta di manifestazione del senso comune artistico: «L’arte nel suo significato più ampio comprende ogni attività […] che porta a forme di creatività e di espressione estetica»; di conseguenza «l’arte è una forma espressiva simile ad un linguaggio, ossia con la capacità di trasmettere emozioni e messaggi», anche se «non esiste un unico linguaggio artistico» – secondo questa “definizione” questa pluralità di “linguaggi” artistici sembrerebbe rappresentare un limite – «e neppure un unico codice inequivocabile di interpretazione».

L’arte, appunto, è sostanzialmente espressione, pertanto quelli artistici sono segni, cioè dispositivi semiotici – si pensi alla riproduzione del quadro che apre queste note (“Morte di un commissario politico” del pittore russo Kuzma Sergeyevich Petrov-Vodkin) – che “comunicano” al fruitore, in questo caso visivamente, una particolare emozione, in questo caso dolore e fermezza (soprattutto nell’intenso sguardo del soldato che sostiene il commissario politico morente). A questa concezione, che oggigiorno è talmente diffusa da essere percepita come del tutto scontata, quasi “naturale”, si oppone l’idea – è l’obiettivo polemico della Critica del gusto – che l’arte non sia un fenomeno comunicativo, perché l’arte non esprime niente, al contrario, l’arte è “intuizione”: il valore dell’arte risiede nel gesto creativo individuale, in un suo interno valore “mistico” (qualifica che per Della Volpe è affatto negativa).

Il libro si apre infatti con questa dichiarazione esplicita:

L’ostacolo più grave che l’estetica e la critica letteraria […] trovano ancora oggi sulla loro strada è il termine “immagine” o “immaginazione” (poetica) tuttora carico dell’eredità romantica e del misticismo estetico che le è proprio, per cui, anche essendo la “immagine” poetica intesa come simbolo o veicolo di verità, si sottintende che ciò non è dovuto affatto alla compresenza organica o comunque efficiente dell’intelletto o discorso o di idee (che restano il grande nemico della poesia (ivi, p. 49).

Se l’arte è “intuizione”, allora l’arte non possiede valore conoscitivo, proprio perché si basa su “immagini” interiori che non si riferiscono al mondo, quanto appunto all’interiorità dell’artista:

Non può avere alcun senso, che non sia mistico e quindi del peggior dogmatismo, il parlare ancora […] di una conoscenza artistica per ‘immagini’ o ‘intuizioni’ soltanto e non insieme, organicamente, per concetti. In effetti, che cosa ci fa conoscere – e cioè percepire un che di valido per lo universo – se non la capacità di sormontare l’equivoco o caotico della immediatezza o materia bruta per sé stessa informe e inesprimibile? se non insomma la instaurazione dell’ordine o unità ch’è dello universale o concetto […] e attributo proprio del rationale? (ivi, p. 52).

Se l’arte è soprattutto “intuizione” e “immagine” allora non è conoscenza, non è razionale, e quindi non ci “dice” niente del mondo, perché al contrario «la poesia, anche nella metafora, che si suol dire cosa sua propria» è invece «razionalità […] e verità e conoscenza verace» (ivi, p. 101). L’arte rientra quindi nel campo del linguaggio, o più propriamente della semiotica, cioè dei dispositivi segnici che “comunicano” qualcosa. Se c’è qualcosa che viene comunicato allora – è l’oggetto del secondo capitolo del libro, quello teoricamente più importante, La chiave semantica della poesia – deve esistere una particolare “semantica” artistica, ossia devono esserci dei “significati” che i segni artistici “esprimono”.

Si tratta in particolare di determinare «la natura della poesia, soffermarci su quel carattere semantico specifico, l’esser discorso o genere polisenso (polisèmo), che la contraddistingue dalla scienza, discorso o genere unívoco» (ivi, p. 126). Mentre il discorso scientifico cerca di restringere e precisare il senso di una espressione (“∃x(fx)”, per chi conosca la logica, ha lo stesso significato in tutto il mondo e per tutti i lettori), il discorso poetico, invece (e in generale ogni forma di espressione artistica), cerca di ottenere un «valore espressivo polisenso: ossia» un «valore costituito da un dipiù di senso rispetto […] a quello dei valori onnitestuali [cioè che valgono universalmente]; e questa pluralità aggiunta di significati, indissociabile da un determinato contesto, perché da questo e per questo prodotta, costituisce il pensiero o discorso poetico e la sua autonomia (autonomia semantica della poesia, cioè scientificamente accertabile, non metafisica)» (ivi, p. 128).

Ora, è evidente che quello che Della Volpe sosteneva polemicamente nel 1960 contro l’estetica dell’intuizione è diventato senso comune, è proprio così che oggi viene pensata l’arte, come una forma di comunicazione che “esprime” una sua peculiare “semantica”. Oggigiorno non solo la poesia è intesa come un particolare linguaggio – e questo in qualche modo è facilmente accettabile – in generale si tratta di «concepire con rigore anche le “altre arti” come sistemi di segni o linguaggi onde si manifesta il pensiero, ossia il pensiero è concretamente pensiero» (ivi, p. 184).

Esisterà allora un «linguaggio pittorico» (ivi, p. 187), un «segno scultorio» (ivi, p. 192), così come «l’architettura esprime idee, valori, con un sistema di segni visivi tridimensionali-geometrici: con un linguaggio, cioè, costituito delle misure adatte all’istituzione di ordini visibili» (ivi, p. 193); esisterà, infine, e a questo punto la prospettiva semiotica di Della Volpe crediamo che entri in crisi (ma per saperne di più su questo punto è illuminante la prefazione di Romeo Bufalo), un «linguaggio musicale» (ivi, p. 195).  Perché applicare anche alla musica, la forma di arte più difficilmente piegabile ad un qualunque fine comunicativo – il modello semiotico?

Della Volpe in realtà non spiega davvero perché anche la musica dovrebbe essere una forma di linguaggio, piuttosto si limita ad ammettere che

alla risoluzione di rinunciare, dunque, ad una impostazione semiologica rigida o diciamo meglio rigorosa del problema musicale si oppone la seguente grave difficoltà filosofica: che tale rinuncia equivale alla negazione di ogni carattere espressivo della musica e quindi della sua umanità e razionalità: e ad appagarsi, nel migliore dei casi, di un atteggiamento edonistico sia pur raffinato (ivi, p. 194).

Che c’è di male in un «atteggiamento edonistico, sia pure raffinato»? Perché l’arte dovrebbe servire a «conoscere meglio […] la realtà»  (ivi, p. 207) – in modo artistico, ovviamente, polisemico, non scientifico – e non essere una semplice occasione di piacere? Il caso della musica è particolarmente interessante perché permette, al contrario, di rovesciare del tutto l’impostazione semiotica: non si tratta di vedere la musica come linguaggio, si tratta piuttosto di vedere tutte l’arte come una specie di musica, cioè come un’attività che non comunica, ma semmai come una peculiare forma di vita, come un certo modo di stare al mondo. Non si tratta di linguisticizzare l’arte, semmai di musicalizzarla.

La prima edizione della Critica del gusto, come detto, è del 1960, quindi Della Volpe difficilmente avrebbe potuto conoscere l’arte performativa che stava nascendo proprio in quegli anni (in effetti nel libro non si parla mai neanche di Dada e tantomeno di Duchamp), una forma di “arte” difficilmente inquadrabile nel modello semiotico proposto nel libro. Un’arte del genere non esprime, piuttosto è una forma di azione; non rappresenta, non “dice” il mondo, partecipa del mondo, inventa mondi. Quindi, se ci atteniamo al modello di Della Volpe non può nemmeno essere propriamente considerata arte, dal momento che non solo non esprime e non vuole conoscere, ma vuole semmai essere.

Prendiamo infine il caso di un pittore il cui nome non ricorre nel libro, Francis Bacon. Alla domanda del suo amico e critico d’arte David Sylvester, che gli chiede quale sia la differenza fra l’arte illustrativa (l’arte semiotica, potremmo dire) e l’arte non illustrativa (cioè appunto la pittura di Bacon), il pittore irlandese risponde così: «Well, I think that the difference is that an illustrational art tells you through the intelligence immediately what the form is about, whereas a non-illustrational form works first upon sensation and then slowly leaks back into the fact» (1993, pp. 65-66). Il fatto non precede la sensazione, cioè la conoscenza, accade piuttosto il contrario, è la sensazione che inventa un fatto – il fatto artistico – che prima non esisteva: «The longer you work»– risponde ad un’altra domanda sui corpi deformati che costituiscono la specifica cifra della pittura di Bacon – «the more the mistery deepens on what appearance is. […] Appearance is like a continuously floating thing» (ivi, p. 136).

Francis Bacon, “Studio per un papa II”, 1961, olio su tela

Riferimenti bibliografici
D. Sylvester, Interviews with Francis Bacon, Thames & Hudson, Londra 1993.

Galvano Della Volpe, Critica del gusto, Aesthetica, Milano 2024.

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