Ex machina (Garland, 2014)

L’uscita della traduzione italiana di Cosmotecnica di Yuk Hui, proposta dall’editore Nero a cinque anni di distanza dall’originale inglese, si segnala anzitutto per il clamoroso tempismo che permette all’opera di esercitare un’indubbia attrattiva in termini di “attualità”. Questo perché il libro di Hui, che reca come sottotitolo La questione della tecnologia in Cina, promette come pochi altri di intercettare una delle fondamentali inquietudini che serpeggiano tanto nell’inconscio quanto nell’autocoscienza del nostro Occidente: l’impressione che le sorti della storia universale, se non addirittura il suo compimento, siano nelle mani di quello stesso Oriente nel quale per Hegel essa aveva preso avvio, e che la posta in gioco di questa svolta risieda nel rapporto che le tecnologie intrattengono con la mentalità culturale e le strutture socioeconomiche entro cui sono inserite. Basti pensare a come il modello non soltanto cinese, ma più in generale asiatico di gestione della pandemia da coronavirus sia stato in questi mesi percepito in Occidente come quello storicamente “vincente” – in una accezione realista, al di là del bene e del male – proprio sul piano del nodo che stringe la mentalità di una determinata cultura alle tecnologie delle quali essa si dota.

Priva dell’ingombrante e a tratti narcisistico attaccamento occidentale all’individuo come portatore di diritti inalienabili e termine di imputazione della responsabilità di qualsiasi fatto, votata ad un collettivismo che permette di saltare a piè pari la paralizzante questione della privacy, la mentalità asiatica avrebbe consentito quella prassi estremamente efficace di gestione e sorveglianza della popolazione teoricamente resa possibile dalle tecnologie digitali ma eticamente inattuabile dalle nostre parti. Essa si rivelerebbe di conseguenza sempre più capace, grazie alla complicità del virus, di ribaltare la vecchia convinzione – di cui la controversa tesi di Francis Fukuyama sulla fine della storia rappresenta soltanto la sfacciata punta dell’iceberg – della piega favorevole ai principi della società democratico-liberale che il corso della storia globale avrebbe preso da un paio di secoli a questa parte.

A fronte di queste inquietudini strettamente attuali cui l’opera di Hui, e a fortiori la sua traduzione italiana, non può evitare di strizzare l’occhio, va subito rilevato come essa prenda le mosse da un intento filosoficamente nobile e decisamente ambizioso. Vale a dire, quello di proporre una genealogia incrociata, di respiro millenario (si veda in proposito la “cronologia dei pensatori orientali e occidentali discussi nel libro” apposta all’inizio dell’edizione italiana, che copre un arco che va dalla “preistoria” all’anno corrente), di come la “questione della tecnologia” si è dispiegata in Oriente e in Occidente. Questo progetto viene messo a punto da Hui sulla scorta di una ben precisa scelta di campo, consistente nella decisione di ereditare e proseguire un approccio messo a punto da una specifica direttrice della filosofia occidentale contemporanea. Tale è la linea che da Heidegger e dalla sua Frage nach der Technik, esplicitamente richiamata dal titolo e poi dall’incipit del libro di Hui, giunge, via Derrida, all’insegnamento di Bernard Stiegler, alla cui memoria Cosmotecnica è dedicato.

La macro-tesi centrale di questa direttrice, riassumibile nella riformulazione di marca stiegleriana del lascito di Heidegger secondo la quale «l’oblio dell’essere è, in effetti, la questione della tecnologia» (Hui 2021, p. 189), consiste nell’idea secondo la quale la storia della metafisica, e con ciò l’apparato concettuale che sorregge l’interpretazione del mondo alla base della cultura occidentale tout court, culmini nella modernità in una dimenticanza di quella “cornice” della nostra esperienza che è la tecnicità originaria dell’umano, la strutturale esteriorizzazione di “facoltà” vitali che mai pre-esisterebbero ai supporti e alle protesi, oblio e “perdita” che già in Derrida, prima ancora che in Stiegler, venivano tematizzate alla luce del carattere “repressivo” della dimenticanza come motore della vita psichica messo in luce dalla psicanalisi.

Dichiaratamente heideggeriano è lo schema del quale Hui si avvale per leggere questa “incoscienza tecnologica” che caratterizzerebbe la nostra modernità: «L’incoscienza tecnologica è l’essere più invisibile, ma allo stesso tempo più visibile: come direbbe Heidegger, non vediamo ciò che ci è più vicino» (ivi, p. 184), e cioè quell’opera di mediazione, a noi talmente “prossima” da coincidere col nostro stesso essere, già sempre esercitata dalle tecnologie nel plasmare il milieu storico nel quale ciascuna epoca si situa, «sprofondandovisi ciecamente come nell’evidenza naturale del proprio elemento» (Derrida 2018, p. 122). Questa incoscienza, che nella lunga Introduzione Hui definisce nei termini di una duplice mancanza «di una coscienza del potere della tecnologia e della condizione tecnologica dell’essere umano» (Hui 2021, p. 47), è precisamente quanto con la fine della modernità giunge a decostruirsi: «La fine della modernità è un ri-conoscimento di tale illusione, il riconoscimento che la tecnica è ciò che condiziona l’ominazione, non solo nella sua storia ma anche nella sua storicità» (ivi, p. 195).

Nel riallacciarsi a questa direttrice, l’intento di Hui è però quello di compiere un passo in avanti, proponendone un’integrazione originale nel senso di un approccio più marcatamente “pluralista”. Fin dalle prime pagine del libro, egli si propone di scardinare un pregiudizio diffuso e deleterio, vale a dire «la tacita accettazione dell’idea che esista un solo tipo di tecnica e un solo tipo di tecnologia, le quali vengono così considerate come antropologicamente universali, come se avessero una qualche funzione transculturale, e potessero essere dunque spiegate negli stessi termini» (ivi, p. 18). A parere di Hui, non soltanto Heidegger sarebbe ancora prigioniero di un tale fraintendimento; esso farebbe anche sentire il suo peso sulla ricerca dell’antropologo e paleontologo francese André Leroi-Gourhan, punto di partenza tanto della grammatologia di Derrida quanto della filosofia della tecnologia di Stiegler. Egli avrebbe gettato le basi di un pluralismo tecnologico attraverso la distinzione tra «tendenze tecniche» necessarie da un lato e di «fatti tecnici» accidentali dall’altro, e cioè discernendo la dinamica universale di esteriorizzazione di organi e memorie e di interiorizzazione di protesi, coincidente con la storia evolutiva dell’uomo tout court, da quella diversificazione degli artefatti che è al contempo effetto e causa delle specificità culturali e ambientali, e dunque delle differenze tra le forme di vita umane e tra i molteplici dispositivi tecnici di cui esse si dotano.

Al contempo, tuttavia, Leroi-Gourhan avrebbe trascurato il nesso tra questa differenziazione tra fatti tecnici e le diverse cosmologie a partire dalle quali tale differenziazione emerge e alla quale va dunque in primo luogo rapportata. Tale è appunto il compito che Hui si propone di assolvere: spiegare «perché e in che modo ogni cultura esteriorizza a un passo diverso e secondo distinte direzioni», comprendere «come l’esteriorizzazione venga determinata da certe condizioni non soltanto biologiche e geografiche, ma anche sociali, culturali e metafisiche», tra le quali spicca appunto la concezione del cosmo (ivi, p. 179). Da cui la ridefinizione della tecnica come «cosmotecnica» che dà il titolo al libro, termine che esprime la funzione di «unificazione tra ordine cosmico e ordine morale» cui le attività tecniche sarebbero per Hui essenzialmente votate (ivi, p. 29). In questo senso, ciò che l’autore si propone di mostrare è che «in Cina, la tecnica nel senso in cui la intendiamo oggi – o almeno in cui è definita da alcuni filosofi europei – non è mai esistita» (ivi, p. 22). La differenza tra la cosmotecnica cinese e quella occidentale è il caso di studio al quale il pluralismo tecnologico di Hui si dedica in particolare nella prima parte del libro, intitolata Alla ricerca di un pensiero tecnologico in Cina. Numerosissimi sono gli spunti che in queste pagine vengono offerti a proposito della divergenza tra Cina e Occidente a proposito dell’opera di mediazione tra uomo e cosmo che le tecnologie e la concezione di esse hanno assolto.

Imperniato su un concetto di «risonanza» (Ganying) tra umano e Cielo come sfondo della morale, ispirato da una «visione energetica del mondo» (ivi, p. 63) in cui gli esseri sono congiunti in un ordine cosmico che comunica attraverso una coscienza comune, il pensiero tecnologico cinese, che Hui, riprendendo rispettivamente Joseph Needham e Mou Zongsan, definisce anche come «materialismo organico» e come speculazione sintetica sul mondo noumenico perlopiù disinteressata ad un’analisi della sfera dei fenomeni, si rivela del tutto estraneo a tutta una serie di motivi fondamentali che hanno invece scandito la cosmotecnica occidentale: dall’idea greca che la tecnica possa supplire e perfezionare la natura, fondamento della nostra mitologia prometeica, alla visione meccanica del mondo alla base della scienza moderna, fino all’antitesi tra natura e cultura che Hui, riprendendo Descola, individua come la cosmotecnica implicita dell’Occidente globalizzato.

Il che non impedisce però all’autore, mettendo un attimo da parte le sollecitudini metodologiche sollevate a più riprese nel corso del libro, di categorizzare come “cartesiana” tutta una tappa della storia della cosmotecnica cinese: quella nella quale, in seguito allo shock delle due Guerre dell’Oppio, si fece strada nel dibattito cinese l’idea che fosse necessario assumere le tecnologie occidentali asservendole però alla mentalità orientale; si trattò di un momento nel quale le categorie di “Dao” e “Qi”, la cui relazione e risignificazione reciproca viene assunta da Hui come chiave per ricostruire la parabola del pensiero tecnologico cinese, “ruppero” in quanto presero a significare i due termini di un dualismo secondo il quale «la mente (il cogito – o, qui, il pensiero filosofico), attraverso la mediazione tecnica, possa contemplare e comandare il mondo fisico senza essere a sua volta affettata e trasformata» (ivi, p. 128).

Tutto molto bello e interessante, a prendere in considerazione tutti questi claims e a ripercorrere l’opera per sommi capi, enunciandone tesi e propositi. Il punto è però che oltre a questo schizzo di un piano generale Cosmotecnica non offre sostanzialmente nient’altro. Perfettamente in linea con un certo “dichiarativismo” della letteratura filosofica contemporanea, specialmente anglofona, le quasi trecento pagine dell’opera di Hui si rivelano ben presto l’onanistica stesura di una mera table des matières o dell’ennesimo manifesto che prefigura imprese intellettuali e politiche sempre a venire, ripiegate come sono in una performance scritturale involuta e autoreferenziale nella quale si alternano rituali enunciazioni di propositi e programmi, solenni prese di posizione e scolastiche elencazioni delle posizioni da rifiutare: dagli studi postcoloniali all’accelerazionismo, dalla svolta ontologica dell’antropologia contemporanea ai “fascismi metafisici” (!).

Coerentemente, non manca nemmeno l’insostenibile parata di etichette e di “-ismi”, così come il tipico pathos “iperpolitico” – qui declinato ad esempio nei termini dell’obiettivo di «reinventare la relazione tra Dao e Qi» per «rispondere all’attuale situazione di globalizzazione tecnologica» (ivi, p. 42), et similia – che a un certo punto l’autore, facendo la posa di distaccarsi da questa tendenza della filosofia contemporanea di cui Cosmotecnica è invece il perfetto condensato, ha pure il cattivo gusto di denegare, quando afferma che «la tensione tra “natura” e condizione tecnologica globale non sparirà soltanto grazie alle narrazioni sulla “svolta ontologica”» (ivi, p. 55). Non che l’opera non abbia delle sue ragioni per figurare nella libreria di un lettore occidentale: principalmente (oltre alla copertina) quella di essere un’inesauribile miniera di spunti comparativi e rimandi bibliografici e un bello squarcio su testi orientali altrimenti difficilmente accessibili nello spazio di così poche pagine. Ma il suo punto forte coincide senza riserve con la sua principale debolezza, e il lettore che si aspettasse da Cosmotecnica l’occasione di un esercizio pienamente filosofico, e non semplicemente la sua promessa, tenderà a rimanere deluso dopo pochi capitoli.

In un’epoca come la nostra che sempre più appare segnata, a decenni di distanza dalle prime constatazioni in tal senso, da una “oralità di ritorno” e da un’erosione della capacità del libro di fungere da supporto primario della trasmissione del sapere e della cultura, nulla impedisce di immaginare i testi di filosofia del futuro come dei brogliacci di per sé del tutto incapaci di veicolare al lettore un discorso in sé compiuto, ma da utilizzare proficuamente come supporti più “leggeri” in occasioni di dialogo o di insegnamento nelle quali il peso della trasmissione delle conoscenze sia molto più spostato sull’oralità di come lo è stato negli ultimi secoli. Si tratterebbe forse di ripensare la scrittura rivalutando “l’aiuto del padre”, per dirla con la celeberrima citazione del Fedro, e riscoprendo forme di “scrittura del sé” già frequentate in altre culture o nella nostra stessa antichità, come ad esempio quelle prese in considerazione dall’ultimo Foucault. Bisognerebbe finire di distruggere il libro e di aprirlo al nuovo dal momento che esso, quantomeno per la filosofia, è forse l’oggetto epigonale per eccellenza, reso tale da una profonda trasformazione del milieu materiale delle pratiche e delle tecnologie, in primis quelle della memoria e della comunicazione, sul quale proprio i riferimenti filosofici di Hui ci insegnano più di altri a tenere desto uno sguardo che tende strutturalmente a rivolgersi altrove. Ma di quanto il pensiero contemporaneo sia lontano dal saper assumere questo compito, ancora a mezza strada nel cammino verso nuove forme cariche di effettività, è proprio un libro come Cosmotecnica a rendercelo palese in forma sintomatica. Peccato, perché le premesse da cui Yuk Hui sceglie di partire meriterebbero molto di più.

 

Riferimenti bibliografici
J. Derrida, La disseminazione, Jaca Book, Milano 2018.

Yuk Hui, Cosmotecnica. La questione della tecnologia in Cina, Nero, Roma 2021.

Share