Agony (Schiele, 1912).

“Una cosa”, pareva dicesse, “una cosa!”
E accennava, come ammiccando,
a qualcosa che sapevano bene lui e il Nini, e Milio.

Ma non parlava, non riusciva a dire che cosa fosse.
Ce l’aveva negli occhi.
Non sarebbe riuscito a dirlo nemmeno
quand’era forte e pieno di vita,
figurarsi se riusciva a dirlo adesso che stava morendo

P.P. Pasolini, Il sogno di una cosa.

Qualunque cosa sia la “cosa” che compare nel titolo del primo romanzo scritto da Pasolini – titolo mutuato da un passaggio di una lettera di Marx ad Arnold Ruge in cui si legge: «Apparirà allora che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa…» –, si può dire che della cosa non si ha mai altro che il sogno. E che questo sogno di tanto in tanto si riaccende. Come accade oggi, in un panorama filosofico dominato dalla questione del realismo, vale a dire dall’impulso a pensare il mondo senza passare per il soggetto, la cui mediazione – massicciamente tematizzata durante la congiuntura che dal linguistic turn ha condotto agli esiti del post-modernismo e del pensiero debole – viene oggi ripudiata come inessenziale e sconfessata come un filosofema ormai fuori moda. L’ultimo libro di Felice Cimatti (Cose. Per una filosofia del reale) parte da qui, dal “sogno di una cosa” che domina l’ontologia contemporanea non attaccando l’aspirazione di fondo del realismo, che in sé «è il desiderio di dare al mondo, e alle cose, tutto lo spazio che meritano, indipendentemente dalla nostra ingombrante presenza» (Cimatti 2018, p. 18), ma mostrando quale forma di realismo sia realisticamente praticabile per l’animale dotato di linguaggio.

Nei cinque capitoli in cui si articola il saggio si compie dunque il passaggio dal dibattito contemporaneo sulla realtà delle cose e sul loro statuto (cap. 1, “Metafisica”) all’idea di una vita piena, in cui il soggetto coincide con il mondo, che determina una fuoriuscita dall’ambito del discorso filosofico, inevitabilmente segnato da dualismi inconciliabili, tramite una valorizzazione dell’esperienza artistica, «la forma più radicale di antiumanesimo che ci sia, o meglio, di post-umanesimo» (ivi, p. 134). Le ontologie orientate sugli oggetti, che pretendono di osservare la realtà al di fuori dei nostri schemi linguistici, secondo Cimatti rimuovono semplicemente la questione del linguaggio, «trasforma[ndo] in entità ontologiche quelle che, invece, sono entità esclusivamente concettuali e linguistiche» (ivi, p. 24), vale a dire finendo per concepire l’esistenza degli oggetti proprio sulla scorta di quel découpage linguistico dell’esperienza che pretendono di evitare. Tendenzialmente atomiste, le ontologie orientate sugli oggetti vedono «il mondo come un insieme di cose», il che «significa proprio vederlo come lo pensa il linguaggio» (ivi, p. 30). L’ontologia diviene così un inventario di oggetti che invece di restituirci la “vita” delle cose finisce piuttosto per ricalcare l’articolazione di un pedante lemmario.

Per incontrare le cose occorre dunque rivolgersi altrove, interrogando l’autore che più di ogni altro nel Novecento ha preso in carico l’essere del mondo: Heidegger (cap. 2, “Essere”). Il filosofo tedesco pone però la questione a partire dall’ente che si interroga sull’essere: «Se l’esserci comprende se stesso, allora comprenderà anche l’ente» (ivi, p. 51). E l’esserci – la vita umana – è essenzialmente segnato da una distanza rispetto al mondo, da una scissione introdotta proprio dal linguaggio, la cui essenza è in ultima analisi negazione. Nell’ultima fase del pensiero di Heidegger tuttavia tale iato tra essere ed esserci (tra mondo e soggetto) pare poter essere superato proprio attraverso il linguaggio, insieme causa della scissione e sua soluzione, malattia e cura. «La posizione di Heidegger è quest’ultima, l’essere è inseparabile dall’esserci, e l’esserci serve all’essere perché attraverso di lui può “parlare”. L’esserci è la voce dell’essere» (ivi, p. 61) e la  poesia, in particolare, assume la funzione di ricondurre l’essere presso di sé attraverso la voce del poeta. In questo tragitto «dal linguaggio al linguaggio» (ivi, p. 65) si consuma il progetto filosofico di Heidegger, progetto fallito in quanto egli «non è davvero riuscito a scalzare l’umano dalla sua posizione di privilegio rispetto al mondo» (ivi, p. 68).

Che fare dunque per non abbandonare il progetto di una “filosofia delle cose” senza ricadere però nei trabocchetti delle dicotomie linguistiche? Con una radicale inversione (cap. 3, “Soglia”), per affrontare il problema in maniera differente bisogna iniziare a «farsi guardare dalle cose» (ivi, p. 75), cercando di «diventare cose per cose, cose fra cose» (ivi, p. 79). Interrogando la letteratura (Sartre, Robbe-Grillet), Cimatti indica un percorso che cerca di «svuotare il senso attraverso il senso» (ivi, p. 93), ammettendo al tempo stesso che «il paradosso è inevitabile»: come uscire dal linguaggio per mezzo del linguaggio? «Rimane la sensazione di un movimento che non riesce davvero ad arrivare alle cose» (ibidem).

Si delinea d’altra parte una possibile via di fuga: se il linguaggio stesso diviene cosa, se si giunge a un «diventare mondo del linguaggio» (ivi, p. 98), allora le cose non ci saranno precluse ma anzi potremo noi stessi fare esperienza della nostra cosalità, vale a dire del nostro essere corpo (cap. 4, “Pieno”). Si apre in questo modo un confronto serrato con la psicoanalisi, che attraverso la pulsione di morte teorizzata da Freud in Al di là del principio di piacere (1920) indica come orizzonte della vita il ritorno a «uno stato di cose precedente», da intendersi più come situazione al di là della dicotomia vita/morte che come ineluttabile destino segnato dalla caducità. È così che «Freud […] riport[a] la psicoanalisi alla cosa, all’estensione, al corpo appunto» (ivi, p. 108) e, dopo di lui, Lacan porta a compimento il percorso che vede nel corpo l’arresto, la cessazione del desiderio, che è sempre il «desiderio dell’Altro», vale a dire il frutto della scissione originaria che, per mezzo del linguaggio, determina la soggettivazione. La ricerca di qualcosa che sfugga al soggetto e al linguaggio conduce Lacan al cospetto di das Ding, la cosa non simbolizzabile, in cui prende corpo il registro del reale, inassimilabile alla realtà quotidiana che è sempre una realtà parlata e pensata. Ma questa Cosa è già da sempre perduta, inaccessibile per l’animale parlante: «Per uscire da questa impasse Lacan immagina […] la condizione di quell’umano che si mette nella condizione della cosa» (ivi, p. 122) e il cui linguaggio diviene infine mondo. Questo passaggio avviene per Lacan nella scrittura, «quell’evento di linguaggio che smette di essere linguaggio, […] il divenire cosa dell’umano» (ivi, p. 123).

Ma come si presenta ora una vita umana che ha rinunciato ad essere persona, soggetto, ed è divenuta cosa? Su questa vita a contatto con il reale ci danno indicazioni gli artisti e i poeti (come Cézanne o Francis Ponge), che da sempre hanno commercio con il mondo, producendo cose «che non sono altro che cose» (ivi, p. 132) e divenendo cose essi stessi, vale a dire – uso qui un’espressione di Simone Weil – persone impersonali. Il farsi cosa dell’umano è inevitabilmente una «capriola sul posto» (ivi, p. 143), così come la vita del filosofo cinico è il paradossale movimento riflessivo di quell’animale (linguistico) che prova a vivere da animale. «Il cinico non è un cane, ma non è nemmeno un uomo; è un cane che parla» (ivi, p. 159), così come l’uomo che è divenuto mondo è quello che ha assunto su di sé, direbbe Wittgenstein, «tutto ciò che accade» (ivi, p. 162), in una coincidenza – istantanea come un «cambiamento d’aspetto» (ivi, p. 166) – che dà luogo a una felicità non imputabile a nessun soggetto (perché, appunto, il soggetto ha fatto finalmente posto al mondo).

Il percorso proposto da Cimatti conduce da un realismo speculativo, svolto tutto – contraddittoriamente – all’interno del pensiero, a un realismo praticabile, il cui terreno è la vita e la cui posta in palio è una forma singolare di felicità, il cui prezzo è la deposizione dell’io. Ma al termine del percorso, che ne è del “sogno di una cosa”? Si giunge infine a toccare la polpa del reale? L’inversione di prospettiva rispetto al dibattito contemporaneo sul realismo operata da Cimatti ci porta a concludere che è possibile toccare il reale soltanto lasciandosi toccare, accettando cioè di diventare quella cosa sognata – oggetto di desiderio – irraggiungibile finché ci si poneva come soggetti. La tensione verso l’oggetto in sé, che si pretendeva di cogliere in una illusoria immediatezza, si trasforma così in abbandono della soggettività e, con essa, dello stesso dualismo che ci teneva lontani dalle cose. La strada maestra di questa trasformazione, ci dice Cimatti, è l’arte: un’arte lontana però dalle retoriche del genio e dell’opera, indifferente al “mondo dell’arte”, una pratica in cui finalmente «si tratta di abitare fino in fondo il mondo che c’è, il mondo della cosa, questo mondo» (ivi, p. 147).

Riferimenti bibliografici
F. Cimatti, Cose. Per una filosofia del reale, Bollati Boringhieri, Torino 2018.
F. Cimatti, Filosofia dell’animalità, Laterza, Roma-Bari 2013.
S. De Sanctis, a cura di, Nuovi realismi, Bompiani, Milano 2017.
S. Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere, IX: 1917-1923, Bollati Boringhieri, Torino 1977.
J. Lacan, Il Seminario. Libro VI: Il desiderio e la sua interpretazione. 1958-1959, Einaudi, Torino 2016.
P.P. Pasolini, Il sogno di una cosa, Garzanti, Milano 2011.

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