Nel tuo libro Emozione e coscienza (Adelphi, 2000) hai utilizzato la metafora del “film-nel-cervello” (movie-in-the-brain) per introdurre il lettore al problema della coscienza. Per chi si occupa di cinema, in quella metafora riecheggiano alcune idee dello psicologo di Harvard Hugo Münsterberg, secondo il quale il cinema, oltre a parlare lo stesso linguaggio della mente umana, trasfigurava la realtà esterna fino a darle la forma della nostra coscienza. Come ti è venuta in mente l’immagine del “film-nel-cervello”?
L’idea del “film-nel-cervello” viene dal fatto che negli individui dotati di vista, i contenuti dei processi mentali sono spesso caratterizzati da sequenze di immagini animate e da una traccia di accompagnamento sonoro. Questi contenuti sono caratterizzati da uno specifico punto di vista, sia che essi facciano riferimento all’effettiva realtà che ci circonda, sia che facciano invece riferimento a quella realtà come viene richiamata nella nostra immaginazione.
Il punto di vista del “film-nel-cervello” è quello del Sé, del soggetto che esperisce quei contenuti mentali. Noi vediamo il mondo, le persone e le cose attraverso i nostri occhi e li sentiamo a partire dalla posizione spaziale che assumiamo rispetto ad essi; oppure vediamo/sentiamo ciò che immaginiamo altri vedano/sentano da un altro specifico e situato punto di vista. Anche il film naturalmente ha un punto di vista visivo e sonoro, che è quello della macchina da presa e del suo microfono (o dei microfoni posti in scena nelle sue vicinanze), necessari a catturare le immagini e i suoni che strutturano l’inquadratura.
Se da una parte il “film-nel-cervello” è una metafora pratica e funzionale per caratterizzare la coscienza, dall’altra essa consente di mettere in luce anche uno dei maggiori problemi relativi alla concettualizzazione dei fenomeni ad essa legati. Infatti, se non fosse per la predominanza, nella teoria della coscienza, di operazioni percettive altamente evolute come la vista e l’udito, sarebbe stato semplice per i filosofi, gli scienziati cognitivi e i neuroscienziati rilevare che il “film-nel-cervello” rappresenta uno stadio molto avanzato nella catena di processi che sta dietro il formarsi della coscienza, e che non comprende affatto il sistema di fenomeni di base che rendono possibili quei processi. Pertanto, se per certi versi la metafora è produttiva e applicabile, per altri potrebbe apparire deviante, laddove non si consideri l’insieme di sensazioni su cui, per come la vedo oggi, si basa criticamente l’intero processo della formazione della coscienza.
Pensi che il cinema possa, meglio di altre forme d’arte, simulare la nostra esperienza cosciente?
Non è semplice rispondere a questa domanda, anche se sarei portato, di primo acchito, a dare una risposta affermativa. Si può dire che nessun’altra arte raggiunge nulla di paragonabile a ciò che raggiunge il cinema, se pensiamo agli effetti che questa forma di espressione ha su milioni di spettatori, e potremmo aggiungere che nessun’altra arte dipende da elementi paragonabili a quelli da cui dipende il cinema. La pittura, ad esempio, è priva di movimento, anche se aperta a prospettive e forme di visione che appaiono più libere rispetto alle forme di visione che ci sono proprie, come peraltro ha dimostrato più volte David Hockney nei suoi lavori che riflettono su pittura e fotografia.
Nemmeno la musica è paragonabile, dal momento che ogni tipo di narrazione musicale ha un basso grado di referenzialità nei confronti di oggetti o di azioni e si tratta di una referenzialità che è in gran parte suggerita o implicita, ma non possiede alcuna specificità analogica. Il teatro si avvicina di più, ma anche in questo caso i nostri occhi possono spostarsi e il nostro sguardo vagare per la scena con una libertà molto maggiore rispetto a quella che ci concede l’occhio della macchina da presa. Infine, neanche la letteratura e la poesia arrivano a ottenere effetti paragonabili a quelli del cinema, dal momento che sono arti fondate sul linguaggio, vale a dire su un codice che traduce il mondo primo degli oggetti e delle azioni, senza poter rappresentare né i primi né le seconde analogicamente.
Quel che dici del rapporto tra la metafora del “film-nel-cervello” e il Sé porta quasi a pensare che il cinema (e forse l’arte in generale) possa essere considerato come una sorta di costruzione protesica del nostro Sé. Che ne pensi?
Il cinema è protesico nel senso che può surrogare o accrescere ed estendere qualcosa di naturale, e più precisamente gli abituali contenuti della nostra mente e le sue funzioni in rapporto alla soggettività. Ogni arte è protesica per molti versi. […]
Vari teorici del cinema, di provenienza e metodologie spesso anche distanti, hanno ripreso a interrogarsi in anni recenti sulle ragioni della capacità dello spettatore cinematografico di muoversi con disinvoltura tra lo spazio reale della sala e quello immaginario dello schermo. C’è chi ha parlato di uno sdoppiamento di coscienza: da una parte la coscienza che realizza la concreta materialità del dispositivo cinematografico e la base reale della nostra esperienza, dall’altra la coscienza che si proietta, con po- tenza immaginifica, nel mondo del film. Qual è la tua posizione al riguardo?
Penso che non ci siano dubbi sul fatto che sia possibile equiparare (e in certi casi anche sovrapporre) l’esperienza che facciamo delle immagini sullo schermo con il resto delle nostre esperienze reali. Tanto per cominciare, bisogna osservare che gli elementi visivi e sonori di un film tendono a spiazzare le componenti visive e sonore della nostra esperienza reale. Uno dei motivi per cui ci sarebbe ancora molto da dire sul sistema classico di proiezione (in una sala buia e con un raffinato sistema di relazione tra la superficie dello schermo e lo spettatore), è che questa situazione che definiamo classica serve in primo luogo a mascherare e dissimulare alcuni elementi dell’intorno caratteristico dello spettatore e, così facendo, favorisce il primato e il predominio dei materiali che appaiono sullo schermo. Tale predominio o, ancora meglio, tale prevalenza, è favorita anche dal grado di engagement personale con cui lo spettatore si relaziona a ciò che accade sullo schermo: alcune esperienze cinematografiche sono così immersive e coinvolgenti che lasciano poco spazio perché altri elementi o fattori esterni possano raggiungere il centro della nostra coscienza. Eppure c’è una palese eccezione a questa forma di rimozione dell’esperienza ordinaria causata dai film: la percezione dello stato del nostro corpo.
[…] Quando ci si domanda se il cinema (soprattutto quello mainstream) può “re-incarnare” la nostra esperienza in modi simili a quelli della vita reale, la risposta dev’essere sia sì che no. Da un certo punto di vista è sì, perché il flusso di immagini e suoni sullo schermo nel suo incontro con il flusso sensoriale del nostro corpo forma una totalità di esperienza che per molti versi è simile alla normale disposizione di momenti coscienti. La risposta però deve essere negativa quando consideriamo che l’esperienza filmica richiede alla nostra mente di darle senso, di completarla, per meglio dire, laddove la nostra esperienza di ogni giorno è già completa e autonoma. Le migliori e le più ricche esperienze filmiche si appoggiano al nostro sistema sensoriale e un film può arrivare a costruire un affascinante simulacro di un’esperienza reale e complessa, un simulacro che scava nei nostri processi mentali e che va ad inserirsi nel cratere lasciato da quello scavo, sostituendo alla realtà la finzione.