Nel 1739 David Hume, dopo aver messo in crisi la nozione ingenua, non probabilistica, di causalità, si avviava a concludere il primo libro del suo Trattato sulla natura umana in questa maniera:
Ma prima che io mi lanci in quelle immense profondità della filosofia che si aprono innanzi a me, provo il desiderio di fermarmi un momento a riflettere sul viaggio intrapreso, il quale richiede, indubbiamente, la più grande arte e fatica per condurlo a felice conclusione. Ora, a me pare d’essere come uno che, dopo aver dato in molti scogli e a malapena evitato il naufragio col rasentare una secca, ha tuttavia la temerarietà di mettersi in mare sulla stessa nave sconquassata, ed osa ancora proporsi il giro del mondo in tali disastrose circostanze. Il ricordo degli errori e delle difficoltà passate mi fa diffidare dell'avvenire. La mia apprensione si fa più grande se penso allo stato miserevole, alla debolezza e al disordine delle facoltà necessarie alla mia ricerca. E l’impossibilità di sanare o correggere queste facoltà mi riduce quasi alla disperazione, e mi farebbe preferire la morte sulla nuda roccia dove mi trovo, anziché avventurarmi in quest’oceano senza confini che si perde nell’immensità (Hume 1971, pp. 275-276).
Abbiamo noi oggi il desiderio di rimetterci in viaggio su quella nave sconquassata, nonostante diffidiamo costitutivamente dell’avvenire? Al centro dell’esperienza contemporanea, infatti, c’è una simile diffida per ciò che si manifesta di fronte ai nostri occhi e, in quanto tale, va ad irritarne i bulbi fino a farli sanguinare dal trauma. La vista del futuro – possiamo forse scriverlo in confidenza – non può non essere compromessa di fronte a quell’inumano immondo e disgustoso che attiva tutti i nostri sensi in un vortice di repulsione. Quale forma di vita si assembra con un simile non-umano? Quali regole sostengono l’esistenza nel «parco umano» (Sloterdijk 2004) nel quale ci siamo trovati oggi ad abitare? Innanzitutto, e lo abbiamo visto negli ultimi tre anni con il SARS-CoV-2, il panorama della nostra esistenza è lungi dall’essere popolato unicamente da quei viventi che ci ostiniamo a chiamare umani, nonostante i corpi che reputiamo nostri siano variazioni sul tema della co-abitazione interspecie. Scrivo co-abitazone e non alleanza, come forse vorrebbe una certa tradizione, per non dare l’impressione che una composizione tra i modi in cui il corpo si manifesta sia sempre possibile e felice. Insomma, esiste la decomposizione, anche macabra e irricomponibile, e dobbiamo imparare a non ignorarla. Se il corpo, intesto stavolta come corpo vivente, è solamente una fase metastabile di un processo che lo comprende, questo non significa però che le calcificazioni soggettive che una simile concrezione ha messo assieme possano essere cancellate con un colpo di spugna. Al contrario, quel che andrebbe considerato è la forza tensiva che unisce quel sistema fragile nel quale oggi fatichiamo a riconoscerci. Magari per smantellarlo definitivamente o per farlo accasciare esausto su una seggiola. Si tratta, in definitiva, di riconoscere un lavoro dell’esterno, del cosmo, su quell’osso indurito che chiamiamo interno o soggetto, e viceversa.
Se l’irritazione della vita è consustanziale alla vita stessa – un sasso non sa che farsene delle nostre esperienze sensibili – la questione del nucleare, oggi tornata in voga a causa del conflitto russo-ucraino, non può non essere affrontata a partire dalla nozione di sistema. Ma quale sistema? Quella di nucleare, infatti, è una categoria liminare, espressione di quella natura esistente che siamo abituati a pensare come originaria e distinta da noi, e allo stesso tempo potenza autoprodotta con i mezzi della tecnica moderna all’interno del consesso umano. Inoltre, se da un lato il nucleare è considerato da molti alla stregua dell’effetto di un rituale propiziatorio, salvezza estrema di fronte al pericolo dell’esaurimento delle risorse energetiche tradizionali; dall’altro lato è giudicato come sintomo assoluto della modernità europea, spada danzante tenuta sospesa da un filo sgualcito sulle teste del genere umano. Se il senso è dato dalla «continua attualizzazione delle possibilità» (Luhmann 1990, p. 153) di un sistema, allora l’irritazione del sistema-umanità causata dal nucleare è ciò che impedisce una simile attualizzazione. Quel che è interrotto dalla potenza del nucleare è la possibilità interna di un rinvio o l’affermazione di una ridondanza di senso nel sistema immaginario all’interno del quale le nostre vite hanno preso forma.
Il nucleare è per noi l’indisponibile, non perché ci sia impossibile maneggiarlo tecnicamente, ma perché non si è ancora riusciti a operarlo, non attraverso nuovi concetti, ma per mezzo di nuovi «modi di percepire» (Deleuze 2013, p. 43). L’immaginario disponibile è ormai saturo di immagini della catastrofe, eventi puntuali nel tempo e nello spazio capaci di sconvolgere il mondo ordinario. Tuttavia, in questi immaginari prodotti e riproposti, ad esempio all’interno della produzione cinematografica, di volta in volta, l’ordinario ha la curiosa abitudine di riaffacciarsi, facendo capolino tra gli scheletri di grattacieli affondati nel mare di una natura rigogliosa a causa della nostra assenza. Cosa significa la presenza di una simile massa ordinaria, non in grado, ancora, di trasformare qualitativamente se stessa nel miracolo tetro della privazione di senso? Il nucleare fa problema perché è un fenomeno-limite, autoprodotto da un lato, inaccoglibile dall’altro. Irrita il nostro sistema percettivo, la carne che condividiamo con quel mondo che riteniamo separato, perché ci costringe a fare i conti con un oggetto dotato di un’agency che non siamo in grado, come specie, di ridurre a zero. Questa ci sopravvive – sopravvivendo forse ad ogni vivente – destrutturando le nostre idee di soggetto, tempo e spazio.
Cos’è infatti il tempo di fronte alla permanenza che il nucleare ci mette innanzi? Certamente non un evento circoscrivibile, databile e organizzabile attorno a un nucleo di senso. La tensione che l’avvenire esercita sul presente è talmente enorme di fronte al nucleare da sfuggire a qualsiasi attribuzione di senso possibile. Come pensare e percepire un tempo lungo, più lungo dell’esistenza stessa della specie che lo pensa e lo percepisce, è uno dei problemi che il nucleare ci pone. Proviamo a riflettere sul triplice disastro di Fukushima, su cosa significa fare memoria di quell’evento irricomponibile (Cfr. Fongaro 2019). Sicuramente non guardare dietro alle nostre spalle, come se ciò che si è prodotto nel marzo del 2011 fosse solamente un evento accaduto. Fukushima continua ad esserci, a popolare e a intrecciarsi con le vite e di coloro – umani e non-umani – che popolano l’ambiente contaminato delle coste del Tōhoku, a interpellarci da un futuro virtuale, non solamente possibile.
Allo stesso tempo, cos’è lo spazio di fronte al nucleare, se la sua semplice presenza spinge a riconsiderare tutti i rapporti tra i viventi? Lo spazio si riconfigura attorno a un vuoto costitutivo, una zona d’esclusione che favorisce la produzione di ibridi interspecie. Ibridi – lo ripetiamo – che non sono certamente il prodotto di un’alleanza felice tra viventi, o tra vivente e non vivente, o non soltanto, ma di una composizione o di un assembramento (Cfr. Cimatti 2022) che ha l’effetto di rimettere radicalmente in gioco l’ossatura o l’habitus, sia sociale sia biologico, di tutti gli enti coinvolti nella loro produzione. Uno spazio che pur sembrando identico a se stesso – si pensi al panorama fluviale in Mujin chitai (2012) di Fujiwara Toshi – è in realtà essenzialmente differente a causa delle radiazioni, presenza invisibile o fantasmatica del disastro nucleare.
I soggetti, allora, in questo panorama di visibilità identiche e di invisibilità dalla potenza trasformativa, in senso decompositivo, in che maniera dovrebbero essere pensati o immaginati? Ma soprattutto, come immaginare in assenza di immagini? Non sono certo il nucleare o le radiazioni a costituire una novità per questi ibridi che vengono richiamati, il cosmo è infatti già sempre in un rapporto costitutivo con i corpi singolari che di esso non sono altro che espressioni – che sia nella forma del virus, del batterio o, più in generale, della materia. Il nucleare e le radiazioni, semplicemente, ci richiamano a un’urgenza, a una liminarità, a un’impossibile composizione nell’immediato che segna l’immaginazione degli spazi di mediazione o, ancora, delle operazioni metaboliche possibili tra enti radicalmente distinti per via delle composizioni precedenti che essi hanno dovuto produrre.
Con il nucleare siamo di fronte a una deflagrazione dei corpi ordinari, velocissima (nel caso delle bombe) o lentissima (nel caso dei disastri di Fukushima o Chernobyl), e innanzi a un nuovo intensificarsi, nei nostri immaginari, del conflitto nucleare su larga scala – nonostante la forclusione che quella che sembrava la fine della guerra fredda ci ha consegnato – tutte queste questioni restano aperte, non sappiamo come rispondere, ma andrebbero forse ricomprese all’interno dell’agenda di un’ontologia dell’attualità: qual è il campo di esperienza attuale che il nucleare rende di fatto possibile?
Riferimenti bibliografici
F. Cimatti, Assembramenti, Orthotes, Napoli-Salerno 2022.
G. Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre corte, Verona 2013.
E. Fongaro, Forget the Unforgettable or Recall the Unrecollectable?, in 3.11. Fukushima, Northeastern Japan and the Conceptualization of Catastrophe, edited by A. Niehaus, E. Fongaro, C. Craig, Mimesis International, Milan 2020.
D. Hume, Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari 1971.
N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna 1990.
P. Sloterdijk, Regole per un parco umano. Una risposta alla Lettera sull’“umanismo” di Heidegger, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Bompiani, Milano 2004, pp. 239-266.