Tra la ampia letteratura dedicata all’opera di Abbas Kiarostami, pochi sono gli studi che si sono soffermati specificamente sulla sua produzione di cortometraggi. Eppure il regista iraniano è stato un autore prolifico di film brevi. Dall’inizio degli anni Settanta fino alla metà degli Ottanta ha firmato tredici corti, quattro medi e due soli lungometraggi, tutti finanziati dal Kanun, un istituto governativo specializzato in film per l’infanzia. Di questi anni sono lavori come Il pane e il vicolo (1970), Ricreazione (1972), Due soluzioni per un problema (1975), Il vestito per il matrimonio (1976), Il coro (1982) che anticipano temi e forme della sua produzione più matura.
In verità, anche nel decennio successivo, quando è prevalentemente impegnato in quelle pellicole che lo consacreranno sul piano internazionale, egli non lesina il ricorso al cortometraggio (cfr. Dinner for One, 1995, Repérages, 1995) che, anzi, tornerà ad essere uno dei suoi principali mezzi di espressione artistica allorché, con il nuovo secolo, il mutato quadro sociale e politico iraniano gli renderà difficile l’accesso a produzioni più costose. Tra i suoi ultimi lavori vanno annoverati titoli come Five, un film in cinque long take di pochi minuti l’uno (ne dà conto Elio Ugenti), i meno noti Seagull Eggs (2007) e Where is My Friend (2013), anch’essi basati sulla riproposizione di piani sequenza a soggetto naturalistico, Where is My Romeo (2007) che anticipa di pochi mesi il lungometraggio Shirin (2008). E ancora No (2012) e Venice 70. Future Reloaded (2013), con protagonisti altri bambini, le animazioni fotografiche di Take Me Home (2016) e 24 Frames (2017), presentato – postumo – durante l’ultimo Festival di Cannes (ne parla Augusto Sainati qui).
Vorrei concentrarmi sulla filmografia “concisa” di Kiarostami per dimostrare quanto essa rappresenti, al di là della sua natura per lo più occasionale, una parte consistente e decisiva del suo lavoro. In particolar modo, vorrei soffermarmi su quello che definirei il suo tasso di teorizzazione “dormiente”, vale a dire quel portato di disponibilità alla speculazione teorica che ogni film, anche il più succinto, conserva, non attendendo altro di essere “ridestato” da una qualche attività ermeneutica. Anticipo che tale tasso, già spiccato nei più noti e lunghi Close Up (1990), E la vita continua… (1992), Sotto gli ulivi (1994) o Ten (2000), trova negli haiku cinematografici più recenti un’atmosfera rarefatta e raffinata che lo rende più semplice da riconoscere e dunque da ri-ponderare. Vediamo come.
Quando si riflette sulla questione della durata nel cinema, si è soliti far riferimento a due temporalità distinte: la prima è quella “oggettiva”, “esteriore” e “misurabile” del testo filmico e delle sue singole parti (inquadrature, segmenti, sequenze), durata che spesso viene quantificata per elaborare modelli analitici standard volti a descrivere il funzionamento della narrazione da un lato (si pensi agli studi neo-formalisti di Bordwell o Salt) e delle capacità di ricezione spettatoriale dall’altro (si vedano i più recenti lavori di approccio neuro-cognitivista come quelli di Zacks, Smith, Grodal e in Italia Gallese e Guerra); c’è poi la temporalità “soggettiva”, “interiore” e dunque “variabile” della percezione che, sulla falsariga della proposta filosofica di Henri Bergson rivisitata da Gilles Deleuze nel suo Cinema 2, ribalta tali assunti soffermandosi sulle modalità di distanziamento, quando non di straniamento, che certe pellicole impongono tanto ai personaggi che abitano quelle storie, quanto al pubblico che le osserva. Due tipi di durata distinti, insomma, l’uno esterno e segmentabile, l’altro interno e volubile, l’uno riconducibile per lo più al mainstream (serie-tv comprese), l’altro al cinema moderno e d’essai; l’uno scandito e modulato secondo precise regole di ingaggio, l’altro dilatato e dispiegato in movimenti lenti e destrutturati.
Quanto propone Kiarostami nei suoi corti sembra affrontare la questione del tempo nella sua estensione breve in un modo che scioglie, di fatto, le dicotomie sopra descritte. Prendiamo gli episodi di Five o di 24 Frames, ma anche i meno noti Where is My Friend o Seagull Eggs. La ricerca di una via d’uscita da una fontana-labirinto da parte di un pesce rosso, il reciproco corteggiamento di due cavalli in un paesaggio innevato, lo spezzarsi di un legno lasciato in balia delle onde, l’inseguirsi reciproco di un gruppo di papere, e così via, diventano esempi di micro-storie che a fronte di una messa in forma a bassissimo gradiente di drammatizzazione (siamo solitamente innanzi a long take o piani sequenza ripresi in modo “amatoriale” con una camera digitale) contrappone un dipanarsi del racconto che, nella sua semplicità e immediatezza, tratta tematiche struggenti e profonde: il perdersi, il ritrovarsi, il ricordarsi di una coppia (Where is My Friend, Where is My Romeo), il conflitto e l’attrazione tra singolo e gruppo sociale di appartenenza (Ducks e Dogs, due episodi di Five), l’intrinseca simbiosi tra concausalità degli eventi e loro ripetitiva proposizione (Take Me Home), ecc.
Se si accetta la sfida semantica che gli haiku visivi lanciano allo spettatore, ci si accorge ben presto che molti di essi sfruttano la durata breve per offrire una sorta di condensazione o, meglio ancora, di distillato degli elementi qualificanti di un racconto e di un’esperienza di visione. Non sintesi o riassunto, non trailer o frammento, ma nucleo originario di significazione, resistente a operazioni di setaccio ed esclusione di tutto ciò che è superfluo. Ecco che una tragedia d’amore si può esplicitare, con inattesa intensità, in un uovo che si scalda in una padella (Dinner for One, 1995), la nascita di una vita nell’improvviso albeggiare in un paesaggio montano (The Birth of Light, 1997), l’avvicinarsi della morte in dieci minuti di sonno di un bambino (Ten Minutes Older, 2003).
Che tale operazione sia consapevole e voluta si desume anche dalle attività non cinematografiche di Kiarostami. Penso alle installazioni che ha realizzato a Londra/Parigi (Forest Without Leaves, 2005) e a Toronto (Doors Without Keys, 2016) laddove la rapidità del colpo d’occhio su foreste e porte chiuse e la successiva presa di coscienza circa la falsificazione della riproduzione fotografica spinge il visitatore a riflettere sulla lacunosità del medium percettivo. Sto pensando ovviamente anche alle sue tre raccolte di haiku (Con il vento, Un lupo in agguato, Il vento e la foglia) e a quegli straordinari esempi di appropriation art rappresentati dalle parzialissime riedizioni di alcuni canzonieri di poeti classici persiani (Hafez, Saadi, Rumi, Nima), nelle quali Kiarostami seleziona e rimonta singoli emistichi o brevissimi estratti di componimenti lirici più ampi per assegnare loro nuove modulazioni e nuove concentrazioni di senso (Hafez secondo Abbas Kiarostami, 2017).
In questi e in altri casi, la riproduzione di un singolo gesto significante, per sua natura breve e sfuggente, impone in chi guarda uno sforzo di intensificazione ermeneutica, alla ricerca da una parte dei criteri di vaglio e setaccio che stanno alla base di ogni operazione condensativa, e dall’altra dei ristretti perimetri spazio-temporali che tale attività configura. E se i primi sono spesso sfuggenti perché volutamente indefiniti (lo spettatore spesso si domanda se ciò che accade davanti ai suoi occhi sia vero o falso, casuale o predisposto), i secondi invece demarcano delle linee di continuità precise – o se si preferisce – delle soglie di passaggio tracciabili tra un prima e un dopo, un dentro e un fuori, un campo e un fuoricampo della rappresentazione. In questa complementarietà tra indeterminatezza delle ragioni (soggettività, interiorità) e determinatezza dei micro-eventi mostrati nei loro ambienti di elezione (oggettività, esteriorità) risiede il tasso di teorizzazione “dormiente” di cui dicevo sopra. Dormiente perché questi cortometraggi sono fondati su una promessa di acquisizione di senso che, tuttavia, non viene presa in carico dal regista, ma delegata completamente allo spettatore che la deve “ridestare”, pur senza alcuna istruzione di comportamento in merito.
Non è un caso che nel suo The Sleeping Spectator Justin Remes sottolinei la legittimità, se non addirittura la liceità dell’assopimento per chi assiste alla proiezione di un film di Kiarostami: “In un certo senso, lo spettatore che si addormenta durante Five ha assorbito lo spirito del film. Lo spettatore o la spettatrice si è arreso/arresa alla rassicurante sospensione dell’opera, alla sua monotona tranquillità” (Justin Remes, 2015, p. 235).
Ma se lo studioso americano individua le ragioni di tale condizione narcotizzante in quella che chiama “l’indifferenza del film alla percezione umana” (p. 238), o meglio ancora nella negazione kiarostamiana dell’antropocentrismo visivo, così da consentire ai suoi film di esistere, paradossalmente, anche quando il pubblico chiude gli occhi e si addormenta, “perché i suoi film possono proseguire anche senza uno spettatore cosciente” (p. 236), io sono più portato a credere che essa dipenda dal fatto che chi si avvicina ai suoi lavori è costretto continuamente a rivivere l’esperienza insieme lesta e intangibile dell’attraversamento di una soglia: tra presenza e assenza, orientamento e disorientamento, consapevolezza e inconsapevolezza e non ultimi tra veglia e sonno o, declinati altrimenti, tra dilatazione e intensificazione della percezione temporale. In tal senso, la forma breve – come ben si evince dagli usi che si fanno in letteratura secondo modalità gnomiche, assiomatiche o aforistiche – evidenzia la presenza di un’autorità al lavoro che rende brusca, diretta, inevitabile l’attività di interposizione e trapasso tra il film e il suo spettatore, così come quella tra pratica filmica e sua inevitabile teorizzazione.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2016.
A. Kiarostami, Hafez secondo Abbas Kiarostami, a cura di R. Zipoli, Cafoscarina Editrice, Venezia 2017.
J. Remes, The Sleeping Spectator: Nonhuman Aesthetics in Abbas Kiarostami’s Five: Dedicated to Ozu in Slow Cinema, a cura di Th.De Luca, Edimburgh University Press, Edimburgh 2015, pp. 231-242.