Un mondo senza sensazioni e affetti. Senza pensieri, e pensieri sui pensieri. Un mondo in cui i corpi sentono e agiscono, come ovviamente i corpi hanno sempre fatto, ma senza che sensazioni e pensieri diventino il principale oggetto di queste stesse sensazioni e di questi stessi pensieri. Un mondo di corpi, che non sono (più) perennemente impegnati a pensare a sé stessi, a scrutare sé stessi, ad ascoltarsi. Un corpo senza psiche.
Si tratta di un mondo molto diverso dal nostro, in cui, invece, «il nostro linguaggio ha subito una contaminazione psicologica senza precedenti. La psicologia ha invaso le nostre vite. […] Il rivolgimento del mondo su noi stessi e sui nostri stati mentali sembra tanto automatico quanto inaggirabile (Cima, L’epoca della vulnerabilità, Piano B edizioni, Prato 2024, pp. 10-11).
Perché nel nostro tempo, al contrario, «la psicologia è oggi il dispositivo dominante attraverso cui filtrare tutto ciò che ci accade» (ivi, p. 13). Non che ci succede qualcosa, com’è sempre successo nella vita di ogni essere vivente (e non solo), è che tutto quello che succede ci succede come fenomeno psicologico, introspettivo, intimo.
Non c’è più semplicemente la vita, c’è l’emozione della vita, non c’è più un colpo del mondo che si abbatte su di noi, c’è l’effetto doloroso per quel colpo, così come non c’è più un piacere del corpo, c’è piuttosto la gratificazione che quel piacere comporta. In questo modo fra noi e il mondo si frappone lo schermo della psiche, e della disciplina normalizzante (e subdolamente poliziesca) della psicologia; e così «ciascuna nostra esperienza e vicissitudine tende a essere ricondotta al linguaggio a senso unico della valutazione psichica» (ivi, p. 11).
Non c’è più la vita, c’è un costante raddoppiamento psicologico, e patologizzante, della vita: «Se sono triste, allora sono depresso; se sono affetto da preoccupazioni ricorrenti è perché soffro d’ansia, se determinati ricordi mi suscitano angoscia, evidentemente sono vittima di un trauma» (ivi, p. 13). L’effetto principale di questa costante autosservazione patologizzante, come nota Cima, consiste nel divenire «schiavi della nostra stessa sorveglianza psicologica» (ivi, p. 16). Siamo, cioè, ciò che il linguaggio (o meglio lo pseudo linguaggio) psicologico ci dice che siamo. Siamo la “nostra” stessa patologia psichica.
Questa condizione si sposa perfettamente con lo spirito del tempo del neoliberismo globale, che se da un lato esalta l’individuo imprenditore di sé stesso, dall’altro abbandona questo stesso individuo – una volta che si è avverata l’invettiva di Margaret Thatcher “There’s no such thing as society” – ad una condizione di radicale fragilità:
L’epoca della vulnerabilità ha presto preso il sopravvento, rovesciando le carte in tavola. La sicurezza si tramuta in ansia generalizzata, l’unità piena di sé decade a precarietà. Il Sé, il Mercato, la valorizzazione incondizionata delle proprie capacità psicologiche si ritorcono in un senso di fragilità diffuso. Non ci sono più garanzie né tutele, l’esistenza è nuda e in balìa degli eventi. Così, all’inizio degli anni Duemila, la cultura terapeutica ha dovuto cominciare a correggere il tiro (ivi, p. 20).
Il punto da rimarcare è che questo individuo divenuto ora «impotente e insicuro» (ivi, p. 20), è in realtà lo stesso individuo che il neoliberalismo voleva invece affermativo e sicuro di sé: in entrambi i casi sarebbe un’entità autosufficiente, appunto perché la società non esiste. Eccolo, allora, il tempo della «vulnerabilità, l’idea che l’individuo sia un animale solo, fragile, perennemente esposto al rischio del disturbo mentale» (ivi, p. 26).
Ma che comporta questa radicale psicologizzazione dell’Homo vulnerabilis? Un allontanamento sempre più marcato dalla “normalità” della vita dei corpi, vita che è fatta di incontri, di scontri, di piaceri e di dispiaceri. Al posto di questa vita, che è poi anche la vita che vivono gli animali (che infatti fuggono, se possono, il dolore e la sofferenza ma difficilmente se ne lamentano), la vita dell’animale psicologico è una vita della rappresentazione e dell’immaginazione della vita. Una vita di secondo livello, una vita in cui il corpo non occupa più la posizione centrale, come appunto capita alla vita non umana, posizione occupata appunto da una psiche debordante e sempre sulla difensiva, perché c’è sempre un trauma nel passato di ogni psiche.
Non a caso il corpo, in questo processo, smette di essere semplicemente un corpo, cioè una massa di materia vivente, e diventa – esattamente come la psiche che non smette mai di parlare e parlarsi – esso stesso un agente comunicativo. Di qui tutta l’ideologia del cosiddetto linguaggio del corpo, ché non si ammette che il corpo sia soltanto un corpo; anche il corpo, invece, deve parlare, deve manifestare, deve comunicare. Il corpo, in sostanza, non dev’essere un corpo. Perché questo significa, in fondo, psicologizzare l’individuo, trasformarlo integralmente in un’entità semiotica, una macchina che produce sintomi e discorsi.
Sintomi e discorsi che la psicologia, attraverso un apparato categoriale sempre più pervasivo e invadente, non fa che provare a interpretare e spiegare, e quindi a normalizzare. La Bibbia di questo processo è il DSM, il Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders:
È dal 1980 [l’anno del DSM-III], anno zero della cultura terapeutica, che la diagnosi diventa la nuova lente attraverso cui scrutare (e ingabbiare) i fenomeni della mente e, soprattutto, imporre alle persone un preciso modus vivendi. Il nuovo decennio segna l’inizio di una trasformazione antropologica su larga scala, in cui la semantica dei disturbi mentali ridefinisce i tratti dell’essere umano occidentale da capo a piedi. Le etichette psicologiche diventano la nuova pelle dell’individuo: non amalgamano organi e sistemi, ma credenze, stili di vita, strategie di consumo, prestazioni e atteggiamenti (ivi, p. 94).
La funzione di questo dispositivo biopolitico non tanto quella di descrivere i disturbi mentali, quanto piuttosto decidere come dovremmo vivere:
Con il pretesto dell’imparzialità medica, il DSM fornisce ogni giorno a milioni di persone la grammatica ideale della vulnerabilità. Non ci dice solo quanto ci è permesso essere tristi o ansiosi, ma anche quanto e come dovremmo dormire, mangiare, socializzare, fare esercizio fisico o navigare su internet (ivi, pp. 95-97).
Si coglie così l’aspetto generativo dell’inarrestabile processo di psicologizzazione delle nostre esistenze, che non si limita affatto a registrare le varie forme del disagio mentale, quanto al contrario istituirle, così come il sesso, per il Foucault della Volontà di sapere, è una invenzione dei discorsi sulla sessualità. Questo non significa che il disagio mentale sia una invenzione del DSM, ovviamente, ma che i modi in cui gli esseri umani vivono le loro esistenze non era, prima del DSM, organizzato e normalizzato come lo sono diventati ora che non c’è aspetto della loro vita che non sia potenzialmente etichettabile come un disturbo mentale. Cosicché man mano che appaiono le nuove edizioni del DSM i disturbi mentali diagnosticati aumentano, al momento sono già diverse centinaia. Siamo tutti traumatizzati, tutti fragili, tutti mentalmente disturbati, perché “la persona sana”, in realtà è solo “una persona in attesa di valutazione” (ivi, p. 27) psichiatrica. Prima o poi il DSM acchiapperà anche te.
Torniamo infine, come sempre, al corpo, alla sua realtà cocciuta e muta. Al corpo e alla sua impensabile, oscena, normalità. Che poi non è altro che l’oscenità della vita, al di qua dei discorsi e delle rappresentazioni. La normalità della vita dei corpi:
L’epoca dell’autonomia promuoveva un ideale assoluto di salute da preservare a tutti i costi contro il pericolo invalidante della malattia. Il normale è produttività, forza-lavoro; il patologico è improduttività, assenza di performance. La vulnerabilità ha portato in primo piano l’onnipresenza del patologico a discapito del normale. Il patologico di oggi è produttivo nella misura in cui riesce a esternare la fragilità dell’individuo, trasformandola in informazione, esposizione, svelamento illimitato. Essa nutre il consenso clinico e alimenta l’ideologia della compassione. La normalità, al contrario, è improduttiva perché incapace di essere messa a profitto. In un’epoca che fa della sofferenza psicologica la più redditizia delle risorse, la normalità deve uscire di scena: per la società della compassione, il normale è, appunto, osceno (ivi, p. 161).
Gioele Cima, L’epoca della vulnerabilità, Piano B edizioni, Prato 2024.