Sergei Loznitsa, nato in Bielorussia e trasferitosi in Ucraina da bambino, un passato da matematico prima degli studi in cinematografia a Mosca, è uno dei registi più singolari del panorama contemporaneo, lavorando indifferentemente su film di finzione (My Joy del 2010 e Anime nella nebbia del 2012, presentati entrambi in concorso a Cannes, ma anche Donbass del 2018), documentari e reportage (Maidan del 2014 e Austerlitz del 2016), e film di montaggio di materiali d’archivio (The Trial del 2017 e State Funeral, l’ultima sua opera presentata fuori concorso a settembre a Venezia). Lo incontriamo durante l’ultima edizione del Festival dei Popoli, che ha dedicato una retrospettiva integrale all’opera del regista ucraino culminata con una masterclass di oltre 3 ore tenuta da Loznitsa la mattina dell’8 novembre. Questa intervista riprende alcuni dei temi emersi nel dibattito con il pubblico per discutere con il regista la sua visione del cinema e della politica del presente.
La masterclass di questa mattina è iniziata con una parola chiave della contemporaneità: confine. Qual è secondo lei la relazione tra il confine inteso in senso fisico-politico e in senso mediale, il confine cioè come aspetto geografico e il confine come soglia tra il documentario e la finzione? Penso che Donbass sia il lavoro nel quale lei affronta in modo esplicito tale questione.
Il confine è un concetto che definisce un cambio di realtà: tedeschi e italiani, russi e ucraini non hanno tanto una lingua diversa, ma più in profondità un’idea diversa di vita. È difficile dire dove inizia e dove finisce: a un certo punto, non lontano dal confine, le cose cominciano a cambiare. Non possiamo definire il confine nel momento in cui lo attraversiamo, ma solo in relazione con la capitale, con il centro: più ci si allontana più le cose cambiano e tendono a sfumarsi e a confondersi. La stessa cosa con il documentario e la finzione: esistono film completamente di finzione e completamente documentari. Ma quando ti muovi attraversando i confini diventi curioso di capire esattamente cos’è questo oggetto nuovo. È come il corpo umano: dove finisco io e dove comincia qualcosa d’altro? La pelle della mia mano definisce me stesso e insieme la mia relazione con l’altro. È un concetto insieme concreto e astratto.
Oggi lei ha fatto riferimento proprio a questo: che cos’è il cinema documentario? Come definirlo? Il suo lavoro mi sembra che abbia sempre questo problema alla base, che è il problema tra verità e finzione. Lo si può vedere in Donbass ad esempio: rimettere in scena il materiale documentario, i video presi da YouTube che testimoniano il conflitto, dunque c’è un’esigenza di finzionalizzare i documenti. Ma lo si vede anche a rovescio, ad esempio in The Trial o in State Funeral: creare un racconto con i filmati d’archivio per decostruire la finzione insita in quegli stessi documenti originali, fare proprio il racconto della storia.
Io cerco di affrontare questo problema da diverse angolazioni. Per me è interessante usare queste immagini d’archivio che appartengono pienamente a un’epoca per creare qualcosa di nuovo; allo stesso modo, è interessante ricostruire qualcosa che invece accade nel presente. È un compito stratificato, è come una matrice: bisogna trovare una soluzione unica per differenti livelli. In Donbass è stato molto interessante lavorare con la fiction per fare un documentario e vedere dove è il limite estetico oltre il quale non posso andare: ogni criminale ha il suo specifico modus operandi! Io vorrei distruggere tutto e trovare il modo in cui è possibile farlo, creare i giusti concetti per realizzare questa visione apocalittica. Ad esempio, adesso stanno proiettando Maidan [nel foyer del cinema si sentono i suoni del film provenienti dalla sala, ndr] e mi chiedo se sia possibile per me rigirare tutto il materiale e far sì che lo spettatore possa comunque crederci ancora. Perché tutto si basa su questo: fiducia.
Fiducia e autenticità, sulla quale lei si è soffermato oggi, si connettono a un’altra parola chiave: credenza. Vorrei chiederle allora se il credere sia la dimensione principale del nostro rapporto con le immagini oggi.
Certo. Credere è un aspetto fondamentale nella visione di un film. Ma questo dipende da quanto il linguaggio sia conforme alle aspettative dello spettatore e non ha niente a che vedere con la verità. Si può credere che il mondo poggi su una tartaruga! Pensiamo a cosa è successo durante il nazionalsocialismo: siccome – dicevano al tempo – siamo individui superiori possiamo decidere chi ha il diritto di vivere e chi no e cerchiamo una conferma nella scienza. Oggi noi sappiamo, grazie alla scienza, che quei concetti erano totalmente errati, e anzi abbiamo bisogno della diversità per sopravvivere: la natura è decisamente più intelligente di noi! Però io mi chiedo: e se anche questa convinzione fosse errata? Dove sta allora il confine tra il sapere della scienza e il credere alla scienza?
Parlando di The Trial lei ha usato un’altra parola molto interessante: drammaturgia. C’è una drammaturgia della verità in azione in quel processo che definisce appunto un dispositivo spettacolare, con tanto di attori, scena e pubblico. Dunque, mi sembra di intravedere un doppio percorso che si sviluppa nel film: da un lato decostruire quella drammaturgia, dall’altro ricostruirne un’altra che non guardi a una verità oggettiva, ma che rifletta sulla relazione tra le forme di rappresentazione e la nostra conoscenza del mondo.
Sono assolutamente d’accordo, con la precisazione che non parlerei di verità ma di idee di verità. Tra qualche anno gli scienziati faranno delle scoperte che cambieranno completamente la nostra idea di realtà, come ciclicamente è accaduto nella nostra storia, e allora dovremo mettere in questione tutto quello che abbiamo creduto vero sinora. A Venezia c’è una bellissima chiesa, Santa Maria della Salute, costruita nel XVI secolo durante un’epidemia di peste come ex-voto alla Madonna. Al tempo era normale, perché la popolazione pensava di aver vinto questa malattia grazie alle preghiere, ma oggi nessuno erigerebbe una chiesa a un medicinale! È un perfetto esempio di cambiamento della mentalità collettiva; probabilmente la prossima generazione troverà un po’ assurdo parte delle nostre convenzioni odierne che pure ci sembrano così solide e ragionevoli.
Tutto ciò si ricollega a un’altra questione che volevo affrontare, quella della distanza dalla quale percepiamo il mondo. Mi sembra che il suo lavoro sia interessato a soffermarsi sui dettagli piuttosto che su un quadro d’insieme degli eventi. Per esempio, in Maidan si inizia con la folla ma poi ci si concentra sugli individui, sui singoli volti. È un fatto insolito, dato che nell’affrontare la Storia normalmente bisogna avere totale per poter desumere i singoli aspetti; al contrario, lei parte dai dettagli per poi ricostruire la struttura generale. La questione della giusta distanza dalla quale inquadrare gli eventi è dunque un problema centrale nel suo lavoro?
Sì, è assolutamente vero! Non a caso uno dei pittori che sento più affini al mio modo di vedere è Peter Brueghel, che compone i suoi quadri attraverso un montaggio di piccoli episodi e dettagli minuziosi descritti con grande precisione: lo spettatore si trova di fronte un totale che deve piano piano ricomporre leggendo i singoli dettagli per estrarne concetti.
Brueghel è in effetti un pittore che ha proposto un’immagine differente del mondo, decostruendo quella che noi potremmo chiamare la realtà “normale” del suo tempo.
Certo! Ma a quel tempo c’era un’idea diversa di arte. Io mi devo confrontare con l’idea di arte del presente e lavorare all’interno di questo paradigma. Mi piacerebbe lavorare rivolgendomi allo stesso pubblico che aveva Brueghel al tempo!
Una cosa che mi ha molto colpito nei filmati originali mostrati questa mattina che lei ha rimesso in scena in Donbass – ad esempio nell’episodio del secchio di escrementi rovesciato sulla testa del politico – è il fatto che molti dei presenti riprendessero la scena con i propri telefonini o macchine fotografiche. Qualcosa di analogo si riscontra anche in Austerlitz, dove si evince che la nostra relazione con luoghi ed eventi è costantemente mediata da questi mezzi di riproduzione. Cosa vuol dire allora fare film in un’epoca in cui tutti girano dei video?
Io non so perché queste persone girino dei video, se perché è l’unico modo di dare senso alla loro esperienza o di condividerla. Anche in Maidan per esempio molte persone giravano video…
…riprendevano/sparavano a [polisemia del termine inglese “to shoot”] la polizia…
Sì sì, come strumento di autodifesa, ed è davvero molto buffo. Ma la mia domanda in Austerlitz è perché lo facciano, perché vadano al cancello d’ingresso e si facciano una foto. Ho trovato recentemente un album composto da cartoline da Auschwitz, collezionate da qualcuno, dove si può leggere anche il retro. Si trovano frasi come “Caro, cara, mi trovo ad Auschwitz, è una bella giornata…”: è assurdo. Forse le persone hanno ricevuto questi strumenti nelle loro mani e non sanno come funziona e dunque sperimentano, fanno prove, a volte non funziona, a volte sono di pessimo gusto… Per me è una domanda capitale: cosa cerchino queste persone in questi posti ed ecco perché ho fatto un film, perché non capisco.
E ha trovato delle risposte?
Per niente! Non mi ci sono nemmeno avvicinato, per me sono persone che vivono in una realtà separata dalla mia.
State Funeral si apre con uno splendido montaggio parallelo che ricompone una geografia di quell’impero gigantesco che era l’Unione Sovietica attraverso i volti dei diversi popoli che la componevano. Che cosa vuol dire per lei filmare il popolo oggi che il concetto di popolo è così presente nel dibattito politico europeo, oggi che ogni politico dice di rappresentare direttamente la voce di questo popolo?
Quando sono stato in Portogallo ho trovato molto affascinante riprendere la festa di Sant’Antonio Abate, nella quale vengono benedetti gli animali, che diventano dunque cristiani. In Ucraina non abbiamo queste festività autenticamente popolari – forse solo Capodanno – dato che le altre sono tutte ricorrenze politiche; in ogni luogo in cui vado cerco dunque di trovare delle situazioni che rappresentino tanto la mia idea quanto la singolarità del posto. In Maidan invece non credo di aver ripreso un evento che ha a che fare con il resto dell’Europa, dato che appartiene al Medioevo per tutta una serie di questioni culturali e di mentalità nazionale, e per la prima volta quel popolo finiva sullo schermo. Il fatto è che lì c’è un problema con la classe dei burocrati, che non sono pronti a lasciare il potere anche se con le tecnologie odierne, come le blockchain, non c’è più alcun bisogno di loro. Ma c’è anche un problema con il popolo, che non sa o non vuole forse cambiare le cose: lo definirei il “paradosso di Sanjuro” [il protagonista del film di Akira Kurosawa La sfida del samurai del 1961, ndr], che combatte con la spada contro un uomo con la pistola. Perché, nonostante le nuove tecnologie, il popolo in quella piazza continua a usare quelle vecchie?
Parlando di culto, perché ha deciso di rimontare i filmati del funerale di Stalin?
È una risposta semplice: perché non c’è alcuna immagine di quell’evento nella storia sovietica, nessuno in Unione Sovietica ha mai visto quelle immagini, e per discuterne abbiamo almeno bisogno di visualizzare qualche cosa. Ma nel visionare quei filmati mi sono accorto che potevo anche dire molto sulle persone, più che su Stalin. Stalin morì sul 1953 e la sua salma rimase esposta nel mausoleo per 8 anni; nel frattempo Kruscev aveva commissionato un report segreto sul culto della personalità. Può immaginare, dopo 8 anni erano impauriti di rimuovere la salma dal mausoleo, perché il popolo si sarebbe opposto e lo avrebbe protetto, Kruscev aveva paura di essere ucciso dai filo-staliniani. Così come in Germania con il nazionalsocialismo, la visione antiumanistica di Stalin aveva fatto molti proseliti: è una cosa difficile da accettare. Di solito si dice che i criminali erano Hitler e Stalin, e tutti gli altri erano solo delle vittime del fascino esercitato da queste figure: ma questa è un’idea molto sbagliata.
Mummificare i leader politici è una pratica condivisa in molte parti del mondo. Cosa ne pensa di queste mummie del potere?
È una domanda che ha in un certo senso affrontato René Girard nei suoi lavori sul potere nella società e sulla necessità del capro espiatorio come atto fondativo della società. La sepoltura è l’inizio di un rituale che ci ricorda quanto noi dobbiamo a quelle vittime sacrificali e che rimanda ovviamente al sacrificio di Cristo. È una struttura molto semplice e molto efficace: la si trova anche nella rivolta di Maidan, da quelle vittime nasce la nuova nazione ucraina. La cosa che mi spaventa è che noi continuiamo a creare concetti a partire dalla morte, invece che fondati sull’amore, su quello che amiamo e sull’amore tra di noi. In realtà siamo umani proprio a causa della morte.
C’è per caso una relazione particolare tra la mummia e il fare film? Il complesso della mummia è uno dei concetti fondamentali nel pensiero di André Bazin…
Certo! Perché entrambe sono legate a una dimensione metaforica. Quando facciamo un film affrontiamo in ogni caso la morte, solo che possiamo evitare di usare lo stesso linguaggio. Siccome siamo tutti schiavi di una stessa lingua, il grande cambio di rotta che i registi possono fare – se ne sono in grado – è proprio questo: distruggere il linguaggio. Da questo punto di vista State Funeral è l’archetipo di questo cambio di paradigma dato che una mummia è la protagonista del film. Ora, Stalin è morto 70 anni fa, che dal punto di vista della storiografia non sono nulla; tuttavia, si sta costruendo una nuova mitologia, che ha a che fare con Stalin, con Hitler, con la Shoah, ecc…, e noi ne siamo parte. Io ho seguito una mia idea particolare e magari non ho neppure pensato a questa mitologia in costruzione, ma non posso escludere che nel futuro qualcuno, guardando indietro a questa fase, consideri questo film come un mattoncino di questa mitologia. Insomma, questo film potrebbe anche essere usato contro la mia idea e io non potrò fare nulla contro tutto questo.
Oggi il cinema sembra ruotare per buona parte attorno all’idea di filmare un corpo vivente e realmente esistito – è il successo del filone biografico. Lei ha fatto esattamente l’opposto: mostrare un corpo morto, fare cioè un “tanatografico”…
Tanatografico… sono assolutamente d’accordo! Questo è il motivo per cui ho affrontato questo argomento. E The Trial è qualcosa di simile, in un certo senso la resurrezione di corpi morti quasi 100 anni fa. Il mio prossimo film si connetterà a questi due documentari, ma sarà un film di finzione sul “Sistema”, il sistema di persecuzione in funzione al tempo dell’Unione Sovietica. Non si propone tanto di dare una lettura del presente, quanto piuttosto in generale dell’organizzazione della nostra società e del perché certe cose succedono. Questo vorrei riuscire a mostrare.
Ha già un titolo?
Sì, sì: “Two Prosecutors” [“Due procuratori”, titolo originale Dva prokura, scritto tra il 1969 e il 1974 e inedito in Italia, ndr]. È basato su un bellissimo racconto, pubblicato solo 10 anni fa, di uno scrittore misconosciuto, Georgij Georgevič Demidov (1908-1987), che visse nei gulag per lungo tempo. È un grande scrittore che spiega in maniera molto semplice come funzionava questo sistema. Non solo il sistema staliniano, ma qualsiasi altro sistema di questa tipo, Duce o non Duce che fosse il capo.