Se ha ragione Iosif Brodskij nell’accostare la memoria a una “biblioteca in disordine alfabetico”, il cinema dello statunitense Joshua Oppenheimer potrebbe caratterizzarsi per la sua propensione a esasperare tale disordine e svelare la contiguità sotterranea di memoria e storia, passato e futuro, nell’abbraccio del presente. Disordine alfabetico confluito soprattutto nei due lungometraggi The Act of Killing (2012) e The Look of Silence (2014) che inquadrano, da due punti di vista differenti – quello dei carnefici e quello delle vittime – il genocidio indonesiano avvenuto tra il 1965 e il 1966 come reazione a un falso tentativo di colpo di stato orchestrato da alcuni membri dello Stato maggiore dell’esercito, in primis il futuro dittatore Suharto, ma ingiustamente imputato al partito comunista nazionale.
Incontriamo Oppenheimer in occasione della cerimonia di consegna dei diplomi per gli studenti del corso 2016-2019 da parte del Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo, che onora il regista con un diploma honoris causa, inaugurando così il nuovo corso della Scuola sotto la direzione artistica e il coordinamento didattico della regista Costanza Quatriglio. Al termine del suo intervento – moderato dalla stessa Quatriglio e dal direttore della Sicilia Film Commission, Alessandro Rais – chiediamo a Oppenheimer di tornare su alcune questioni cruciali emerse durante il dibattito.
Al tuo lavoro è riconosciuta un’importanza storica straordinaria per aver dato visibilità internazionale a un genocidio che ha determinato la scomparsa di più di un milione di comunisti e dissidenti tra il 1965 e il 1966 di cui fino a qualche decennio fa persino il giudizio storico era piuttosto appannato. Spesso insisti sull’omertà, se non proprio sull’aperta ostilità, con cui la questione è stata sempre affrontata in Indonesia; eppure nel periodo immediatamente successivo alla caduta di Suharto, avvenuta nel 1998, vedono la luce una serie di iniziative di riconciliazione nazionale che producono anche libri e film. Hai percepito questo clima al tuo arrivo?
Me ne sono presto reso conto, ma, quando sono arrivato, nel 2001, Megawati (figlia del presidente Sukarno, destituito dall’esercito capeggiato da Suharto, e presidente indonesiana dal 2001 al 2004) era già alla presidenza e le aperture di Wahid (presidente indonesiano dal 1999 al 2001, leader riformista del Partito Islamico e promotore di un tentativo di riconciliazione), incluse le scuse pubbliche per il contributo del suo partito al genocidio, gli erano costate l’elezione. A quel punto, la proposta di un comitato per la verità e la riconciliazione era già stata ritirata. Prima, pochissimi film erano prodotti da attivisti per i diritti umani. Nello Giava Centrale c’era una fossa comune costruita per dare una sepoltura adeguata alle vittime, ma l’ho scoperto soltanto dopo. I lavoratori della piantagione con cui ho realizzato The Globalization Tapes tra il 2001 e il 2003 mi hanno raccontato molte storie sui massacri, e tramite loro sono entrato in contatto con gli attivisti per i diritti umani che mi hanno aiutato a impostare le ricerche per The Act of Killing e The Look of Silence.
Quindi sei arrivato nel Sumatra settentrionale con la consapevolezza che il genocidio fosse qualcosa su cui si stava riflettendo, per quanto forse non a livello locale ma di certo su scala nazionale?
Nel Sumatra settentrionale, così come in molte altre province, non c’era traccia di alcun movimento politico che nell’era post-Suharto volesse affrontare il tema. Anzi, un’organizzazione per la salvaguardia dei diritti umani effettivamente c’era, ma era diretta da uno dei leader locali del genocidio; un uomo, molto noto nella regione, che con il suo movimento andava taglieggiando i sopravvissuti al genocidio, imponendo, in sostanza, una forma di estorsione in nome dei diritti umani e riuscendo anche ad ottenere finanziamenti internazionali dalle ONG. Insisto, non c’era alcuna consapevolezza del genocidio e, fino a oggi, il Sumatra settentrionale continua a essere soggiogato alla Gioventù Pancasila (l’organizzazione paramilitare di estrema destra, protagonista di The Act of Killing, che nella regione coordinò il genocidio sotto la supervisione, soltanto recentemente comprovata, dell’esercito di Suharto).
La forza del movimento è dimostrata dal fatto che, nonostante The Act of Killing sia stato proiettato innumerevoli volte, una delle vie principali di Medan, capoluogo della provincia di Sumatra settentrionale, è stata recentemente intitolata al direttore del giornale (nonché influente boss-gangster tra i protagonisti dell’eccidio nell’area) presente nel film. È bene che abbiate sottolineato l’esistenza di un movimento di riconciliazione, benché si sia rivelato effimero e sterile. Giusto per mettere le cose in prospettiva: in una nazione di 300 milioni di persone c’erano meno di 5 registi e 5 scrittori che si erano occupati di questo problema, e per giunta solo a Giava.
Quali sono i rischi in cui si può incorrere scegliendo un simile approccio volto a sfrangiare la distinzione tra realtà e finzione, presente e passato, specialmente in relazione a quelli che tu hai definito gli “strati dell’immagine”? Considerando, ad esempio, la sequenza del massacro, in cui hai cercato di rimettere in scena la distruzione di un villaggio, o, ancora, quella del primo incontro con il protagonista del film, nonché diretto responsabile del genocidio, Anwar Congo, in cui lo si vede ricostruire divertito le dinamiche degli omicidi, potresti dirci come ti accosti alla messinscena?
Non concordo con il modo in cui è stata posta la domanda. È Anwar – e non io – a dichiarare che i confini tra realtà e finzione cominciano a scivolare, proprio nel momento in cui osserva le scene del massacro che abbiamo girato. Il pubblico è perfettamente in grado di comprendere che si tratta della ricostruzione di un massacro, tant’è che vediamo persone urlare “Taglia!”, altre rialzarsi dopo essere state uccise. Nonostante ciò Anwar vive e commenta la sequenza come se si trovasse di fronte a un vero massacro. Ho scelto di costruire il film in modo che alcune cose non siano specificate: ad esempio, lo spettatore non può sapere che in quella sequenza le persone che interpretano le vittime sono parenti dei carnefici. Non può saperlo perché non è stato previsto che facesse parte del film. Ma è la prima ora e mezza del film a chiarire la sua costruzione intrinseca, quando li si osserva collaborare mentre fanno i provini per strada, mentre organizzano la messinscena o quando mi fanno richieste per i costumi e gli oggetti di scena. Quella sezione del film permette agli spettatori di decodificare, o quantomeno di percepire, i vari strati delle immagini. Quando si appurano le conseguenze del massacro, quando la donna appare traumatizzata e si sdraia, si dispone ormai di tutto il necessario per comprendere che si è nel presente e che i personaggi stanno recitando in un film sul passato, benché il trauma della donna si consumi nel presente.
È a quel punto che Anwar osserva la messinscena e comincia a dubitare del passato effettivo e di ciò che ha fatto. Considerato com’è stata costruita, non avrei mai pensato che la messinscena potesse sortire un effetto così terribile. Insomma, gli strati dell’immagine sono lì, in quel materiale. Lo stesso avviene nella sequenza in cui Anwar, vestito come un gangster, interpreta la vittima. Tale sequenza, pur costituendo una sorta di sua glorificazione estetica in quanto carnefice, evidenzia altresì la fragilità della narrazione che gli ha consentito di vivere malgrado ciò che ha fatto, senza doversi giustificare e, per di più, considerando la sua un’impresa eccezionale e affascinante. È un retaggio del cinema americano degli anni trenta e quaranta. E poi, ecco Anwar nel 2009, nei panni di una delle sue vittime, intento a riflettere su ciò che è accaduto nel 1965, nella stessa stanza, convinto di poter provare empatia per le persone che ha ucciso.
In che modo influenza il tuo lavoro questa concezione stratificata dell'immagine?
Quando faccio riferimento agli strati parlo di strati temporali. Se non si presta sufficiente attenzione, si possono commettere degli errori, rischiando di comporre sequenze o immagini che si rivelano inutilizzabili. Ad esempio, negli studi televisivi, quando Anwar è stato già truccato, se si osserva attentamente si può notare che i truccatori si rifanno alle immagini tratte dal film di propaganda, ricalcando quelle presunte, false ferite che sarebbero state inflitte ai generali anticomunisti per mano dei comunisti. È una questione molto complicata, ma se si cresce guardando quel film di propaganda, anno dopo anno, si può riconoscere immediatamente quel livello dell’immagine: stanno ricreando quel film, ma perché dovrebbero farlo se in realtà stanno interpretando ciò che è successo agli oppositori? Si tratta di un riferimento sottile che è stato colto dagli indonesiani – e che molto è stato discusso – ma che sfugge agli spettatori stranieri, ossia che il film di propaganda ha accusato i comunisti (le vittime) dopo che l’eccidio aveva avuto luogo; la propaganda anticomunista ha giustificato i massacri imputando loro una serie di colpe che, in realtà, erano da attribuire ai carnefici. Quindi non hanno fatto altre che creare i comunisti a loro immagine. E gli spettatori indonesiani lo hanno subito notato.
C’è inoltre una sequenza piuttosto ridicola in cui Herman Koto (il leader paramilitare, gangster e partner di Anwar Congo nella realizzazione del film) va verso Adi Zulkadry (uno dei carnefici protagonisti), afferra una lametta e gli taglia le guance: si tratta della riproposizione fedele di un’inquadratura iconica del film di propaganda. Ogni indonesiano cresciuto negli anni ottanta e novanta sa bene che si tratta dei carnefici che interpretano i comunisti seppur immaginando i comunisti a loro immagine. Ancora una volta, sono questi gli strati cui faccio riferimento. Da qui il rischio di commettere errori, poiché, in alcuni punti, gli strati possono assumere configurazioni sempre più complesse. Abbiamo girato anche un bel remake della sequenza in cui la figlia del generale – interpretata da Herman – si cosparge il volto di sangue e grida “Papi! Papi!”, ma non l’abbiamo mai inserita perché non ci sembrava funzionasse in quel momento; allora abbiamo scelto quest’altra che però uno spettatore occidentale non riesce a identificare.
The Look of Silence, all’estremo politico opposto e quasi un decennio dopo la fine della dittatura, ha in qualche misura assunto il ruolo del film di propaganda ufficiale (The Treason of G30S/PKI, Arifin C. Noer, 1984), essendo diventato il film che racconta la storia ufficiale, seppure promossa stavolta non dallo stato nazionale ma dal sistema internazionale delle ONG, le quali ne promuovono la diffusione nelle scuole e ne coordinano la distribuzione nazionale, peraltro con successo. Cosa significa per te entrare in questo modo all’interno di un panorama mediatico che, dai tempi del genocidio, è sempre stato un terreno di lotta politica?
Voglio premettere che il dovere della memoria e della documentazione o, ad essere più precisi, il dovere di dire la verità su quanto accaduto è sempre una lotta contro l’impunità, a cui non ci si può tirare indietro. Detto questo, non sono d’accordo su come avete posto la domanda: gli insegnanti che mostrano i miei film in classe lo fanno in linea con un programma nazionale, che comunque non è richiesto dal programma governativo ufficiale, per cui è una decisione che prendono con grande coraggio (oppure, quando non lo fanno, un’azione che li spaventa). L’1 ottobre 2017, in occasione dell’anniversario del colpo di stato, il capo delle forze armate indonesiane ha ordinato all’esercito di impegnarsi a fermare le proiezioni di The Look of Silence, rimarcando, viceversa, l’esigenza di sollecitare un’intensificazione delle proiezioni di The Treason of G30S/PKI. Può darsi che quel giorno alcuni insegnanti in una città di 5 milioni di abitanti come Medan – dove è particolarmente importante che il film venga visto – abbiano osato proiettarlo, ma quello che conta è che nella piazza centrale quel giorno si svolgeva una grande proiezione pubblica del film di propaganda. Ogni spettatore che ha guardato entrambi i film sa da che parte stessero il potere e l’impunità.
Ci sembra molto interessante che in The Act of Killing il “nucleo documentario” s’innesta su alcuni segmenti che guardano ad altri generi cinematografici – pensiamo, ad esempio, al western, al musical o, ancora, al noir. Quanto è stata rilevante in tal senso la partecipazione attiva dei protagonisti? In che misura i generi cinematografici fungono da veicoli per la redenzione del passato, di qualcosa che si è già verificato e che può essere reso anche attraverso la finzione?
Si tratta dei generi preferiti di Anwar. Avrei voluto inserire altri due generi, ma non è stato possibile. Da una parte un film d’avventura per il quale Anwar aveva già pronta una sceneggiatura ambientata nella Foresta Amazzonica con tanto di caschi coloniali, ma purtroppo non sono riuscito a includerlo. L’altro sarebbe stato un film di fantascienza in cui degli scarafaggi succhiavano il cervello dei comunisti, ma non funzionava. Tutte le sequenze seguivano una scansione per capitoli di un remake ispirato al Sansone e Dalila di Cecil B. DeMille. Se doveste rivedere il film e osservare la sequenza notturna fuori dal vecchio cinema, vedreste una locandina enorme di un immaginario film indonesiano su Sansone e Dalila che abbiamo fatto dipingere a un artista così da riempire interamente il tabellone. Ciascuno dei generi crea una tipologia di sguardo e concerne il modo in cui guardiamo a noi stessi, al nostro mondo, e in cui rievochiamo i ricordi e, soprattutto, fa riferimento a tutti gli espedienti cui ricorre Anwar per cercare conforto. Anwar reputa affascinante la vita da gangster e quindi si trova a suo agio a vivere come se lo fosse: quando la cosa non funziona, l’escapismo e l’ottimismo del musical gli permettono di placare il suo senso di colpa attraverso una visione falsata della redenzione. Il western è interessante perché più volte mi è stato detto quanto sia grossolana l’idea di girare un film western su un genocidio e non ne capisco il motivo. Tutti i western parlano di genocidio e, oltretutto, è proprio questo il tratto caratterizzante del genere. Ci sono dei western che non se ne occupano, ma si tratta di opere derivative. Il western originale glorifica il massacro dei nativi americani.
La questione di cosa i generi permettano di articolare ci sembra abbia un certo valore anche dalla prospettiva del documentario. Ritieni che nei tuoi film sia presente una tensione tra due generi tradizionali, ossia il documentario storico, rivolto alla ricostruzione di un passato necessariamente contestualizzato e contingente, e il documentario umanitario, centrato invece sulle possibilità di agire sul presente e su presupposti di matrice universalista?
Per me è interessante notare che non mi fossi mai posto questo problema. Non amo pensare in termini di generi. Non ho mai guardato documentari storici, se si escludono quelli di Marcel Ophüls. Tendo a leggere la storia piuttosto che a guardare film al riguardo. Per quanto riguarda i documentari umanitari, credo che siano spesso progettati per farci stare bene con noi stessi, per aver acquistato il biglietto, assolvendoci dalle nostre responsabilità, allo stesso modo in cui ci si reca da un prete per confessarsi e uscirne puliti. È esattamente l’opposto di ciò che dovrebbe proporsi il cinema e, più in generale, l’arte, da cui dovremmo uscire “sporchi”. Essere onesti con se stessi, essere in grado di guardarci allo specchio perché siamo stati liberati dalla vergogna… In fondo, non mi considero nemmeno un documentarista.
Negli ultimi anni, sto lavorando a un film di finzione, e comunque non mi consideravo tale neanche prima di realizzare The Act of Killing. Ho studiato con il regista jugoslavo Dušan Makavejev che ha sempre combinato i generi in totale libertà, e questa cosa mi ha influenzato profondamente. Lui non si mai è considerato un documentarista e non lo avrebbe permesso neppure a me. Mi allarma che mi sia stata posta questa domanda, perché vuol dire che devo avere sbagliato qualcosa con i miei film. Quando dico che i miei film non parlano del passato, intendo dire che non si tratta di film sulla storia. Non si tratta di film sulla storia né di documentari storici, ma di film sul passato, certo, ma nella misura in cui noi siamo il nostro passato: sono dei film sulla memoria e su come ricordiamo. La memoria è qualcosa che si attua nel presente, e il passato è importante perché si protende sul presente.
Una delle frasi più ricorrenti in The Look of Silence è “il passato è passato”. Ritieni di aver lavorato per un decennio opponendoti a questa idea? Dev’essere stato abbastanza arduo continuare in questa direzione per così tanto tempo. Si potrebbe affermare, forse, che The Act of Killing redime il passato in quanto “ciò che è stato”, ricorrendo alla memoria nel presente – mentre The Look of Silence tenta di salvare “ciò che non è mai stato”…
Mi piace molto questa formulazione. Non vorrei ricorrere a un cliché, ma penso che se l’ha detto William Faulkner non può che funzionare. Faulkner afferma: “Il passato non è morto e sepolto. In realtà non è neppure passato”. Ecco, noi siamo il nostro passato. E non sappiamo guardare al passato, non possiamo che provare a disfarcene o ad ignorarlo, ma a quel punto non ci sarebbe alcuna ragione di vivere, poiché ciò equivarrebbe a disfarci di noi stessi, in un certo senso. Le sole persone che si sforzano di seppellire il passato sono criminali che nascondono le loro tracce oppure coloro che hanno goduto del potere e dei privilegi per via della loro connivenza con i criminali. Bisognerebbe accostarsi alla loro paura con empatia e comprensione, ma essere anche implacabili nel creare spazi sicuri per noi stessi in quanto parte della società così da poter uscire da quella zona di comfort, affinché si possa effettivamente conoscere noi stessi e affrontare il passato, in tutta onestà. Altrimenti saremo destinati all’insuccesso. Non c’è altro modo di risolvere il problema, anche perché è ormai evidente che viviamo in un periodo della storia umana in cui i problemi possono distruggere l’intera specie.
Riferimenti bibliografici
I. Brodskij, Fuga da Bisanzio, Adelphi, Milano 1987.