Direi che la prima questione che possiamo affrontare è quella dell’animale come limite dell’umano e l’idea dell’ambivalenza dell’animale rispetto a una centralità dell’uomo.
Possiamo pensare ad un itinerario che necessariamente sarà parziale rispetto al grande e complesso tema dell’animalità. Potremmo partire dal perché molto spesso gli animali, in alcuni contesti e in alcune epoche, ricoprono ruoli di evidente importanza. E, in questa direzione, soffermarci soprattutto sulla critica all’antropocentrismo, ad una visione del mondo esclusivamente legata al punto di vista umano.
La critica a una visione antropocentrica del mondo e della realtà che ci circonda è un tema importante nella storia del pensiero occidentale. Nella filosofia italiana rinascimentale, come tu stesso hai scritto, un posto di primo piano spetta a Machiavelli e a Bruno: entrambi hanno insistito sull’ambivalenza di concetti come feritas e humanitas. Si tratta di termini che non possono essere assolutizzati: l’umano e il ferino sono due opposti che rappresentano le facce di una stessa medaglia. All’interno di questo filone di pensiero è possibile ritrovare elementi di riflessione sullo statuto di ambivalenza degli animali che potrebbero essere utili per capire l’uso della figuralità della feritas nel cinema. Penso, per esempio, all’oscillazione del ruolo dell’animale tra innocenza e sapere che si può ritrovare in alcuni film di Pasolini. La sua idea del cinema come lingua scritta della realtà fa parte di questo guardare il mondo “come innocente”, con una lingua delle immagini che è primaria, che è animale. Dall’altro lato però l’animale può essere inteso anche come “salto” dell’umano verso il “divino” (e penso, per esempio, alla metamorfosi di Atteone nei “Furori” di Bruno, in cui è presente l’idea di un accesso a una visione “ulteriore”, quindi a una visione “altra”, che passa proprio attraverso la metamorfosi in cervo).
Partirei da un’osservazione di ordine generale: ossia dal fatto che, in fondo, sin dall’inizio della storia dell’umanità è difficile concepire qualsiasi sapere, non solo figurativo ma anche letterario, senza gli animali. Gli animali sono presenze continue, costanti. Basti pensare, appunto, all’arte antica, ma anche alle religioni che molto spesso hanno scelto gli animali proprio come simboli del sacro. Nella letteratura, soprattutto, gli animali hanno avuto già nell’antichità, come testimoniano i testi fondatori omerici, un ruolo di primo piano.
Ora: perché l’animale? Il mondo animale è sempre stato rappresentato in maniera fortemente ambivalente: ovvero da una parte l’animale è stato evocato come modello positivo (le virtù da imitare), ma dall’altra l’animale è diventato anche un modello negativo (i vizi da evitare). Proprio su questa ambivalenza di fondo si è costruita la “fortuna” della figura animale: è difficile pensare a un genere letterario o a un’epoca della storia della letteratura in cui gli animali siano del tutto assenti. Nel Rinascimento, in particolare, la loro presenza assume una valenza fortissima perché di fatto alcuni autori usano l’animale per mettere in crisi una visione antropocentrica, interamente costruita sulla scala gerarchica dei valori incarnata nella cosmologia tolemaica. In essa, infatti, abbiamo la Terra al centro di un universo finito. E al centro della Terra c’è l’uomo (centro del centro), seguito poi, secondo un rigido schema classificatorio, dagli animali, dalle piante, dai minerali. La critica dell’antropocentrismo vuole soprattutto mettere in crisi questa rigida gerarchia fondata sulla centralità dell’uomo.
Già nel mondo classico un celebre testo, La virtù degli animali (meglio conosciuto con il titolo di Grillo, dal nome del maiale parlante) – attribuito a Plutarco e che sarà, non a caso, ripreso poi come modello da Machiavelli, da Bruno e anche da altri autori – ci mostra come l’animale (ex uomo) che parla e conversa con Ulisse metta in discussione il primato dell’humanitas: contesta il fatto che gli uomini siano i soli depositari dell’unico modello di vita che in assoluto conduca alla felicità. Attraverso le sue parole e i suoi argomenti viene messa in crisi la visione antropocentrica del mondo e la concezione antropocentrica della vita stessa.
La messa in crisi da parte di Bruno di questa visione antropocentrica, come tu scrivi, si fonda proprio sulla sua nuova concezione della cosmologia. L’idea che quella umana non sia più l’unica visione dell’universo, l’ipotesi di una pluralità di mondi possibili, di una pluralità di movimento, cambia il rapporto uomo-animale?
Non c’è dubbio.
In Bruno sussiste un cammino verso il moderno e questo lo si vede anche nel modo in cui lui tratta le immagini. Bruno va verso un esito quasi “cinematografico” nel suo uso delle immagini. E certo nelle grotte primitive, nei dipinti di Lascaux, c’è l’idea dell’animale come feticcio magico collegato al movimento, e alla cattura figurale del movimento, come una sorta di “cinema dipinto” nelle grotte…
Ma anche come prima raffigurazione dell’arte, in età primitiva: insomma l’animale dipinto nelle grotte diventa un’espressione, un oggetto artistico.
C’è un lato magico, un lato pertinente nell’uso “efficace” dell’immagine. Il lato magico viene ripreso in qualche modo da Bruno, proprio in rapporto al problema del movimento.
Per quanto riguarda il tema della magia in Bruno, devo ammettere, e l’ho scritto più volte, che non mi riconosco nella lettura “ermetica” di Frances Yates (studiosa che ha dato contributi fondamentali alla critica bruniana soprattutto nei suoi primi libri non direttamente legati al Nolano: penso allo splendido saggio sulle Accademie francesi e sul milieu di Enrico III). L’uso bruniano dell’immagine favorisce e stimola anche la partecipazione del lettore a una lettura attiva del testo. Negli Eroici Furori, per esempio, l’immagine è soprattutto prodotto dell’ekphrasis. Non ci sono immagini “materiali” nel dialogo: spetta alla parola evocare l’immagine.
Bruno sa bene che alcuni contenuti cruciali, alcuni passaggi di base nei diversi campi del sapere richiedono uno sforzo notevole per essere compresi: la mediazione dell’immagine facilita questo processo, aiutando a rendere visibile l’invisibile. L’immagine, per certi versi, svolge lo stesso ruolo della fabula: la fabula da una parte svela (e quindi aiuta a capire ciò che non si potrebbe capire) ma, dall’altra vela (aiuta a proteggere cioè quelle verità che possono essere comprese solo da coloro che compiono lo sforzo di squarciare il velo delle apparenze). Per cui la ricerca del sapere presuppone una gradualità: tutto dipende da chi compie il difficile cammino della conoscenza. Ci sarà il lettore che riuscirà a squarciare il velo, ad aprire il Sileno, a raggiungere il profondo intus. E ci sarà, invece, il lettore che resterà abbagliato dalla superficie delle cose, dall’extra, lasciandosi ingannare dalle apparenze.
Del resto – come ricorderanno Pico, Erasmo e lo stesso Bruno – l’immagine del Socrate-Sileno, proposta da Alcibiade nel Simposio di Platone, può essere utilizzata come un’ermeneutica dei testi e delle cose: per cogliere la sapienza del padre della filosofia bisogna andare oltre la fisiognomica; giudicare Socrate basandosi esclusivamente sulla sua fisionomia significherebbe restare prigionieri di un gravissimo errore. Lo stesso discorso vale per i generi letterari: un testo comico – si pensi, solo per citare qualche celebre esempio, alla Mandragola o all’Asino di Machiavelli, al Candelaio di Bruno, al Gargantua e Pantagruele di Rabelais – nasconde al suo interno una feroce critica del presente fondata su una nuova visione del mondo. E, per restare sempre sul tema della feritas, esiste anche un’ermeneutica del Sileno che riguarda l’uso degli animali nel cinema: dietro la facciata apparente dell’animale più feroce e spaventoso si può nascondere una profonda e romantica “umanità” (si pensi alla fortuna dell’innamorato gorilla King Kong o di tanti “nobili” mostri) e, nello stesso tempo, l’humanitas esteriore può invece celare la più feroce bestialità (si pensi al successo di film legati al filone della licantropia o dei vampiri).
Quindi, per ritornare a Bruno, si tratta più di un’ermeneutica dell’immagine e meno di un “magismo”.
Esatto. E non è un caso che nella mia lettura di Bruno io sia partito dalla sua rivoluzionaria visione cosmologica, dove gli animali assumono un ruolo di primo piano. C’è un passaggio bellissimo nello Spaccio de la bestia trionfante – per lungo tempo sottovalutato dalla critica bruniana – in cui Giove convoca un’assemblea degli dèi per decretare riforme necessarie a riportare l’ordine sulla Terra, tra gli uomini. E così affida a Mercurio una serie di missioni da svolgere soprattutto a Nola, paese natale di Bruno. Tra le tante cose, il messaggero celeste si deve occupare anche del destino delle pulci che vivono nel letto di un poveraccio, chiamato Costantino. Quelle pulci rappresentano allegoricamente gli esseri viventi minuscoli (le “minuzzaríe”, come le chiama Bruno) che, nella nuova cosmologia infinistica, assumono una grandissima dignità. Ecco perché a Giove, il padre degli dèi, sta a cuore la vita delle pulci del letto di Costantino.
Questo passaggio comico – e comici sono tanti passaggi dei dialoghi italiani in cui si discutono nodi centrali della filosofia bruniana – significa (al di là di una sottile allusione ironica alla visione provvidenzialistica cristiana) una cosa ben precisa: cioè che nell’universo bruniano (una volta distrutto l’antropocentrismo, una volta distrutta la concezione geocentrica e una volta distrutto anche il sistema di un cosmo finito, perché non dimentichiamoci che lo stesso Copernico colloca il sole al centro di un universo finito) il centro assoluto non esiste più e l’unico centro possibile è l’individuo che guarda l’infinito. All’interno di questo contesto quella singola pulce o quel singolo uomo hanno la stessa dignità: perché entrambi sono al centro dell’universo e perché entrambi sono fatti della stessa materia che anima tutti gli esseri viventi. Entrambi, insomma, godono della stessa forza vitale che vivifica ogni cosa.
Qui c’è l’idea nuovissima di singolarità.
Appunto. Non si parla più genericamente di uomini o di animali. Ma di quell’uomo e di quell’animale specifico. La distruzione di ogni astratta gerarchia, fondata su basi ontologiche, implica un ritorno all’uguaglianza: quella pulce è il centro dell’universo come lo può essere il sole. Per cui, nel sistema bruniano, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande godono della stessa dignità. L’animale è fatto della stessa materia con cui è fatto il sole: l’animale che guarda l’universo infinito è il centro dell’universo come può esserlo il sole. Ma questa nuova visione cosmologica investe, più in generale, anche il campo della conoscenza, distruggendo, come vedremo più avanti, ogni punto di vista assoluto.
Ora una domanda è legittima: cosa distingue l’uomo dall’animale? Bruno affronta questo delicato tema con grande intelligenza. Si tratta di un antico dibattito che fin dal mondo classico ha sempre affascinato gli studiosi. Alcuni hanno visto nel linguaggio la linea di demarcazione tra feritas e humanitas. Altri hanno obiettato che anche gli animali hanno un loro linguaggio: diverso da quello degli uomini, ma pur sempre un linguaggio che permette di comunicare tra loro. E allora su quali basi considerare la differenza? Alcuni hanno individuato la presenza dell’anima (o di un certo tipo di anima). Ma diversi studiosi, soprattutto in ambito materialistico, hanno insistito sulla mortalità dell’anima umana e dell’anima animale (senza contare che certe teorie hanno sottolineato come la stessa radice etimologica di «animale» deriverebbe proprio da «anima», dal «soffio vitale»).
Bruno, da parte sua, riprende un tema lucreziano che sviluppa in una chiave filosofica ancora più radicale. Per il Nolano, la differenza che distingue l’uomo dall’animale si fonda su basi puramente materiali e non ontologiche. La natura infatti ha dotato l’uomo di uno strumento che nessun animale possiede: la mano. Proprio la presenza della mano ha reso la complessione corporea dell’uomo più adatta a dominare la natura e gli altri animali. Per Bruno l’uomo e l’animale sono fatti della stessa materia: l’uomo, però, attraverso la mano può compiere operazioni che nessun altro essere vivente può fare. La visione aristotelica e poi cristiana viene cancellata d’un colpo: l’uomo non è dotato della mano perché è l’essere superiore (supremazia ontologica), ma diventa l’essere superiore perché il suo corpo è naturalmente dotato della mano (supremazia su basi naturali e materiali). La mano è lo strumento che incarna la capacità dell’uomo di modificare la natura, di costruire nuovi strumenti, di mutare radicalmente il corso delle cose. In poche parole: di costruire la civiltà.
Tutto ciò è connesso anche con un’idea di metamorfosi, mi riferisco al famoso esempio del serpente.
Esattamente. Le pagine bruniane della Cabala del cavallo pegaseo dedicate all’esempio del serpente sono molto eloquenti. Se il serpente fosse stato dotato delle mani si comporterebbe come un uomo. E, viceversa, se l’uomo avesse avuto in dotazione il corpo del serpente avrebbe fatto le stesse cose che fanno i serpenti.
In realtà c’è questa idea non tanto di equivalenza tra uomo e animale, quanto di “movimento continuo” della materia. L’idea di cinema comincia dallo studio del movimento animale da parte di Muybridge, dal fotografare un cavallo in movimento attraverso le singole sezioni. Il cinema nasce curiosamente dal movimento animale, per cui questa idea di movimento animale ha molto a che fare con lo sviluppo di una tecnica precisa che è quella del cinema. “La Cabala del cavallo pegaseo” mi fa pensare, per associazione, al cavallo: figura importante nel cinema (basti pensare a tutto il genere western). E la figura dell’asino – centrale nella filosofia bruniana, come hai dimostrato nel tuo libro “La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno” – rinvia ancora una volta all’ambivalenza del simbolo animale. La doppia asinità, di cui tu parli, mi fa pensare a un film come quello di Robert Bresson, “Au hasard Balthazar”, dove l’asino incarna questa “doppiezza”: innocenza e sacrificio cristico da un lato e dall’altro la capacità di immettere nel mondo grazia e quindi conoscenza.
[…] Alcuni critici hanno voluto vedere nella nozione bruniana di «asinità» solo una connotazione negativa. A me è sembrata una lettura molto riduttiva. E lo stesso Eugenio Garin ha sostenuto che la concezione dell’asinità in Bruno investe anche un polo positivo. L’asino rappresenterebbe valori diametralmente opposti: l’umiltà, la tolleranza, la fatica («asinità positiva»), ma anche l’arroganza, l’ozio, l’unidimensionalità («asinità negativa»). I valori positivi incarnano l’essenza della quête filosofica: solo la coscienza del proprio «non sapere» (della propria «asinità») spinge il filosofo ad inseguire la conoscenza nel disperato (ma impossibile) tentativo di abbracciarla una volta per tutte. Proprio attraverso questo lungo e faticoso processo, alcuni uomini eccezionali possono elevarsi dalla feritas alla divinitas, finendo per diventare dèi della Terra. Nell’elogio bruniano della fatica, necessaria alla costruzione della civiltà e all’inseguimento della sapienza, è possibile ritrovare una feroce critica ad alcuni grandi miti che imperversavano nel Rinascimento. Si pensi al mito dell’età dell’oro, rilanciato dalla scoperta dell’America. Per Bruno gli uomini che vivono in un giardino edenico nell’ozio e senza lavorare sono da considerarsi “bestie” e non uomini. Così viene messo in discussione anche il mito del buon selvaggio.
Lo stato d’innocenza…
Certamente, anche lo stato di innocenza che a questo mito è strettamente connesso. Il buon selvaggio, proprio come gli animali, testimonierebbe il rapporto primitivo con la natura, offrendo un modello di comportamento più vicino alla presunta felicità delle origini. Bruno si rende conto del pericoloso fraintendimento. Non è possibile considerare l’età dell’oro (dove gli uomini erano oziosi) e il paradiso edenico cristiano (in cui Adamo ed Eva, senza nessuna fatica, potevano ottenere facilmente ogni cosa, con l’unico divieto però di cogliere i frutti dell’albero della conoscenza) come modelli da imitare: senza il lavoro (che non a caso nell’uno e nell’altro mito viene considerato come una dannazione, come una dolorosa punizione) non ci può essere civiltà.
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