Nel centenario dell’assassinio di Rosa Luxemburg, filosofa, politica e rivoluzionaria polacca, teorica del socialismo e fondatrice della Lega di Spartaco, uccisa a Berlino il 15 gennaio 1919 per mano dei Freikorps, è stato proiettato alla Casa del Cinema di Roma, su iniziativa dell’AAMOD, Rosa Luxemburg (1985) di Margarethe von Trotta. È in questa occasione che abbiamo incontrato la regista tedesca.

Cosa significa raccontare un personaggio come Rosa Luxemburg settant’anni dopo? E cosa vuol dire ri-raccontarlo oggi, dopo trent’anni ancora?

All’inizio avevo paura di narrare e rendere merito ad un personaggio di questo peso, storico e culturale. La stessa identica sensazione l’ho provata prima di fare il film su Hannah Arendt. Entrambi i film non sono venuti da “dentro”, da una mia volontà interna, ma mi sono stati commissionati. Io da sola non avrei mai trovato il coraggio. Eppure mi sono trovata ad essere capace di farlo in corso d’opera, e Rosa prima e Hannah poi hanno significato per me un’apertura al mondo e una crescita intellettuale di cui ancora idealmente le ringrazio. Vivo l’incontro con questi personaggi come un dono inaspettato. Quel celebre “voglio capire” arendtiano fa da base all’attitudine che ha accompagnato il mio lavoro di ricerca sia su di lei che sulla Luxemburg. Sono personaggi che chiamano in causa il desiderio e il dovere di sapere. Del resto le due donne sono legate da una storia che anche io ho toccato con mano. La madre di Hannah Arendt amava la figura di Rosa Luxemburg e il marito fu uno spartachista alle origini del movimento. Hannah stessa nel ’68 scrisse un essay, L’umanità in tempi bui, dedicato a riflessioni su Lessing, Benjamin, Brecht e Rosa Luxemburg. Quando andai a New York dall’amica/erede della Harendt per accedere al suo archivio sono stata ben accolta e mi è stato dato il permesso di usufruire dei materiali perché la donna aveva visto Rosa Luxemburg e il fatto che io avessi deciso di realizzare un film su questa figura l’aveva convinta ad acconsentire che ne facessi uno anche sulla Arendt. Sull’oggi, sono molto curiosa del rapporto delle nuove generazioni con un personaggio come Rosa Luxemburg, sulla cognizione che ne hanno. Si studia sui libri di scuola? Sui manuali di filosofia? Temo molto poco. Spero allora che il film possa rivelarsi un mezzo ancora efficace oggi per far conoscere la storia di Rosa ai ragazzi più giovani. Il centenario del suo assassinio si sta dimostrando un’occasione importante per farlo.

Rosa Luxemburg è appunto una filosofa, oltre che una militante politica. Il suo discorso teorico acquista anche nella sua pellicola un rilievo indiscusso. Cosa vuol dire trasporre in forma filmica parole di un peso simile? Cosa si aggiunge e cosa si toglie? Come si relaziona la potenza della parola all’immagine cinematografica?

Senza dubbio il pensiero della Luxemburg è molto complesso, la sua struttura teorica è articolata e critica rispetto ad alcune posizioni marxiste e leniniste. Presenta una forza e un’originalità indiscutibili che è impossibile sottovalutare. In origine doveva realizzare questo film Fassbinder. Aveva già scritto la sceneggiatura, ma poi morì e il film venne affidato a me dal produttore. Si trattava però di una sceneggiatura priva di discorsi autentici: un melodramma in cui le parole di Rosa risultavano riscritte di sana pianta, uscendone riduttive, semplificate, come se la pellicola dovesse essere mostrata nelle scuole primarie. Fassbinder è stato un grande amico, ma non l’ho mai perdonato di aver portato via il linguaggio di Rosa. Ho buttato la sceneggiatura e ho fatto sì che le immagini del film fossero intrise del suo linguaggio. Il suo è un tedesco bello, forte, mai banale. È impossibile pensare di stravolgerlo. La parola ha in un racconto un rilievo fondamentale. Certo i film raccontano attraverso le immagini, e accade anche in Rosa Luxemburg, ma in particolare nella narrazione di un personaggio come questo è la parola autentica a restituircene il carattere, la persona, in tutte le sue sfumature. Dalle frecce taglienti che tirava ai suoi avversari durante le riunioni del Partito al tono riflessivo di discorsi privati di cui abbiamo un altro tipo di documentazione. I discorsi di Rosa attraversavano diversi livelli semantici, la sua ironia e il suo acume intimorivano e al tempo stesso soggiogavano i suoi uditori.

Nei suoi film storici, “Rosa Luxemburg” compreso, creatività e immaginazione si inseriscono nel solco tracciato dalla cronaca attraverso respiri in cui si avverte uno sguardo che definirei più "narrativo". Che peso assumono questi momenti all’interno di un contesto di carattere storico e come contribuiscono a spiegare il personaggio?

In tutti i miei film di carattere storico ho sempre voluto dare ampio spazio alla conoscenza intima dei miei personaggi, da parte mia, prima ancora che da parte dello spettatore. Ho quindi sempre fatto ricerche di scritti che mi permettessero di entrare in contatto non solo con riferimenti al contesto storico, ma anche con la carne della vita privata dei miei protagonisti. I documenti che più esaudiscono questo desiderio – lo sono stati nel caso della Luxemburg come in quello della Arendt – sono le lettere. Prima di realizzare il film su Rosa ho letto 2500 lettere scritte dalla donna in tutta la sua vita. Sono lettere indirizzate a diversi destinatari (compagni politici, amici fraterni, amanti, familiari) e dunque ognuna ha un suo proprio registro, una specifica tonalità emotiva, in ognuna di esse è possibile ascoltare la “voce” della donna in modo diverso. Ecco, è a partire da queste lettere che ho costruito le scene più intime del mio film, quelle in cui appare quello che tu hai definito uno sguardo di carattere “narrativo” più che storico. Le ho riadattate a dialoghi – quelli con l’amante Leo ad esempio – o a monologhi “casalinghi” in cui emerge tutta la solitudine di Rosa – penso a quelli in presenza del suo amato gatto a tavola durante la cena o decorando l’albero di Natale. Queste scene, che amo più delle altre, mi hanno permesso di far trasparire come autrice non solo uno “sguardo” su questo personaggio, ma anche un vivo, sentito, “interesse”. L’ho catturato da dentro, dalla sua profondità. Chissà come si farà tra dieci o vent’anni, quando si vorrà ricostruire la storia di un personaggio contemporaneo e non si avranno lettere, solo conversazioni WhatsApp o foto sui social. Mi chiedo spesso come le nuove tecnologie potranno riuscire a costruire narrazioni durature nel tempo che permettano a testimoni posteriori di avvicinarsi alle anime dei personaggi in questione. Io soffrirei molto nel mettermi oggi su una pista composta da questo tipo di tracce. Per costruire una storia personale continuerei ad aver bisogno di pezzi di carta in cui il movimento del braccio del mio personaggio sia entrato in quella scrittura con la pelle e con il sangue.

Attraverso quali procedimenti può avvenire l’autenticazione di eventi così tragici e rilevanti come quelli della vita della Luxemburg su uno schermo? Lei decide ad esempio di far intervenire il documento - l’immagine d’archivio - solo nell’ultima parte del suo film. Cosa vuol dire o come si trasforma l’intenzione di documentare quando si dà vita ad un biopic come questo?

Ti dico la verità, in Rosa Luxemburg ho usato quelle immagini di repertorio perché non avevo i soldi da “produzione americana” per riprodurre quelle scene di guerra. Se posso realizzare un film con solo mie immagini, lo preferisco. Altra cosa, è quando posso far interagire l’immagine d’archivio con i personaggi interni alla storia. Allora l’archivio assume per me un valore diverso, viene “vivificato” dalla narrazione. Come quando nel mio film Anni di Piombo il padre fa vedere alle figlie la famosa scena del pianto di Nuit et brouillard, il documentario di Alain Resnais sui campi di concentramento. O quando in Hannah Arendt c’è il raccordo di sguardi tra l’attrice e il vero Eichmann nel filmato d’archivio. Questi sono inserti narrativi di altro tipo, dove il repertorio interloquisce in qualche modo con le mie immagini e i miei personaggi. In un certo senso, anche se non si tratta di un’interazione diretta, accade qualcosa di simile anche nel film sulla Luxemburg, quando la protagonista si sdraia a letto in preda alle lacrime dopo aver appreso della morte del giovane amico in guerra – guerra da lei estremamente sofferta e combattuta. Lì le immagini d’archivio dei massacri al fronte intervengono in maniera più intima, come fossero un incubo di Rosa, conferendo al suo dolore “individuale” una portata universale.

La figura femminile sembra interessarla più di quella maschile. Nel caso del film sulla Luxemburg o in quello del film sulla Arendt sembra che il Cinema prenda in carico la responsabilità di una memoria al femminile purtroppo più facilmente scalfibile di quella relativa al mondo maschile.

La mia però non è mai stata un’intenzione teoretica, mai un concetto, piuttosto un naturale interesse per il genere che mi appartiene. Fino alla mia laurea ho vissuto con mia madre in una stanza. Con lei condividevo tutto. Mio padre è morto quando avevo dieci anni, a scuola le classi erano femminili, Berlino era distrutta e gli unici uomini che frequentavo erano i miei zii invalidi di guerra. Tutti gli altri erano in prigione. Insomma, il mondo maschile normale l’ho conosciuto molto tardi, e anche se nella vita ho avuto tre compagni ancora ho l’impressione di conoscerlo poco. Anche se il mio ultimo film è dedicato ad un grande uomo che amava molto le donne, Ingmar Bergman. In ogni caso è vero che nei miei film ho spesso scelto donne che hanno lottato, donne forti e intelligenti, perché si deve saper pensare per poter lottare. Incarnano una mia convinzione, quella che si debba dissentire per essere liberi. Ma dissentire vuol dire prima di tutto voler capire, desidero dire e ho il coraggio di dire quando comprendo a fondo qualcosa. Si può essere libere con il pensiero anche se costrette con il corpo ad una condizione di prigionia, fisica o etica. Ma la situazione oggi, almeno in occidente, è ben diversa. Credo che tutto dipenda dal carattere della singola donna, da quello che cerca nella sua vita. Forse però nelle lotte femministe attuali c’è meno consapevolezza politica del proprio ruolo rispetto agli anni sessantottini che ho vissuto io.

Ha dedicato diversi suoi film alla storia della sua città, Berlino, una storia difficile e in continua evoluzione. Che tipo di eredità vede intorno a lei di quella dinamicità intellettuale dell’epoca della Luxemburg? Qual è il paesaggio, politico e culturale, della Berlino attuale, e cosa deve a ciò che è stato?

 
Sono nata a Berlino ma sono in realtà cresciuta in Renania. Ora vivo tra Parigi e Monaco, Berlino non la frequento così tanto né mi sento particolarmente legata affettivamente a questa città. A sei anni l’ho lasciata, e mi sembra di essere diventata una testa pensante in altri paesi, a cui quindi sono più affezionata. Io poi ho vissuto la Berlino della guerra e del muro, mi sentivo più a casa in Italia o in Francia. In ogni caso il fervore intellettuale di inizio secolo ora incontrerebbe una metropoli molto diversa, più grande e ben più divisa, dal fascismo e dalla guerra che ne ha distrutto la cultura e l’architettura. Il muro è caduto da trent’anni, ma le menti dei suoi cittadini sono ancora divise. Quando lavoravo al film sulla Luxemburg ero costretta ad andare tutti i giorni all’Istituto marxista-leninista a Berlino est per le mie ricerche. Sorridevo ai poliziotti e non ricevevo che freddezza, sospetto e rigidità. Odiavo andarci. Pochi giorni fa – il 15 gennaio, il giorno dell’assassinio di Rosa – abbiamo proiettato il film a Weißensee (Berlino est) e guardavo gli spettatori. Erano ancora vestiti come si vestivano un tempo, prima dell’89. È ancora molto – troppo – evidente l’influenza della divisione, fisica e culturale, est/ovest. Alla fine degli anni ’60 e all’inizio dei ’70 la Germania ha scavato nel suo passato meglio e più di come fa oggi. Si guardava alla Storia in modo più profondo e più consapevole – e dall’interno, anche dopo l’iniziale “aiuto” americano, molto più che in altri Paesi europei. Un maggiore confronto era giusto, perché la colpa di aver fatto scoppiare una guerra e aver commesso tali atrocità è maggiore rispetto a quella degli altri. Ora i nuovi nazionalisti di Berlino est non sanno nulla, non hanno visto nulla, seminano paura e malcontento tra i cittadini.

Ci sono autori nel cinema contemporaneo che lei vede come eredi di un certo modo di pensare e intendere il cinema? Come racconto e documento di ciò che la storia ci lascia e ci ha lasciato come monito o eredità da raccogliere?

Parlando della Germania, sono fiduciosa nei confronti della nuova leva di cineasti che portano nei loro film la contrarietà alla violenza reazionaria e retrograda della destra fascista. Loro li sostengo e so che esistono. Detto questo, nonostante io sia ormai conosciuta – soprattutto all’estero – per i miei film di carattere storico, amo molto anche le storie con la “s” minuscola. Noto che molti registi giovani si guardano alle spalle piuttosto che guardare avanti. Cercano grandi modelli di stile – un Lars von Trier o un Ettore Scola – senza buttarsi davvero nell’esperienza unica del fare cinema individualmente. Molti lavorano con il repertorio più che con il presente. Io sono ormai alla fine della carriera, i miei occhi sono vecchi e non voglio dare consigli né fare obiezioni sulla nuova produzione cinematografica. Mi piacerebbe al contrario che i giovani registi mi aiutassero a guardare il mondo con lo sguardo di oggi. Rivolgendomi a voi giovani artisti contemporanei: trovate il vostro modo di guardare la realtà, dentro e fuori. Dovete pensare “io voglio essere io”. Raccontateci cosa vedete, presentificate con i vostri lavori lo sguardo di noi vecchi registi.

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