Le pagine conclusive di Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli) mi hanno ricordato uno dei dialoghi dell’ultimo romanzo di Leonardo Sciascia, Una storia semplice. La scena è quella di un professore di lettere in pensione, che dopo tanti anni incontra un suo vecchio allievo diventato magistrato: «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica». La risposta del professore è feroce: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare […]. Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto» (Sciascia 1989, p. 44). Non so quanto Walter Siti condividerebbe questa definizione. Sebbene nel suo libro siano molti i passaggi in cui riflette sui meccanismi della lingua letteraria e sulla fatica dello stile, «perdo molto temo a “limare le parole”» (Siti 2021, p. 66), per Siti l’italiano non è solo ragionare, ma è anche smarrirsi, abbandonarsi tra le pieghe delle parole, «farsi vuoti e disposti a lasciarsi guidare dal loro misterioso aggregarsi» (ivi, p. 260).
Il vero punto di adesione mi pare sia un altro: l’italiano non è l’italiano nel senso che la letteratura non è la superficie in cui pensieri ed espressioni si predispongono al bene, alle buone cause del liceale ambizioso come quelle dello scrittore impegnato. Ma è piuttosto una catabasi, una discesa negli inferi in cui i piani si mescolano fino a confondersi. «In letteratura – scrive Siti – i colpevoli sono anche innocenti e gli innocenti anche colpevoli» (ivi, p. 149). E, del resto, se così non fosse, se il buon italiano fosse solo l’involucro espressivo di storie edificanti, non sarebbe mai stato possibile per uno scrittore come Sciascia comprendere molte delle sottigliezze di una realtà complessa e contraddittoria come quella mafiosa, dove non ci si raccapezza senza calarsi anche nella psicologia e nella mentalità dei meno raccomandabili, senza cioè – per riprendere un’altra formula di Siti – «dare cittadinanza a Satana» (ivi, p. 150).
Le differenze tra Sciascia e Siti, si dirà, sono nondimeno tante, forse troppe e inconciliabili. Con i suoi romanzi, le inchieste, gli interventi giornalistici e persino l’attività politica diretta, prima come consigliere comunale e poi come parlamentare, Sciascia si è affermato tra gli autori italiani più significativi dell’impegno nel secondo dopoguerra. Al contrario Siti con il suo recente libro sembra volersi collocare in una posizione opposta («sono sempre scettico nei confronti di chi agisce, costruisce, lotta», ivi, p. 262) e di aperta polemica se non proprio contro lo scrittore siciliano, contro quegli autori che in tempi più recenti hanno raccolto la bandiera dell’impegno e si sono posti lungo la sua tradizione.
Osservando tuttavia l’immagine che Contro l’impegno offre della recente produzione italiana che si è data come scopo quello di «riparare il mondo» (Roberto Saviano citato in Siti 2021, p. 98), la posizione che Siti assume ha molto del professore sciasciano. E questo non solo perché oggi anche i magistrati scrivono, ma soprattutto per gli esiti a cui ha condotto la strada della testimonianza, della denuncia che diffida della complessità formale e che, come emerge nelle numerose pagine dedicate a Roberto Saviano, aspira a una sorta di immediatezza, di trasparenza con il mondo, ovvero a una lingua senza filtri e complicazioni che possano in qualche modo oscurare le buone ragioni di chi scrive.
L’italiano, afferma Siti, è anche ambiguità, potere polisemico, contraddizione: non assomiglia mai a se stesso, non si illude di aderire irenicamente al mondo. Seguendo ancora una volta lo scrittore siciliano potremmo spingerci sino a dire che la scrittura letteraria è anche la pratica del paradosso morale: «Lottando contro la mafia – ha affermato Sciascia in una nota intervista – io lotto anche contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione» (Sciascia 1979, p. 74). Per Il giorno della civetta non era infatti sufficiente stare dalla parte del capitano Bellodi, ma occorreva desiderare e forse persino amare anche Don Mariano. Occorreva per usare le parole di Siti «lasciar entrare nel testo il discorso dell’avversario» (ivi, p. 257) e quindi introdurre a casa del lettore quella visione del mondo che divide l’umanità in uomini, ominicchi e quaquaraquà – Santana per l’appunto.
Leggendo le numerose pagine dedicate oltre che a Saviano, a Murgia, Carofiglio, D’Avenia e persino Vecchioni, ci si domanda se l’impoverimento letterario denunciato da Siti sia l’espressione di un fenomeno più grave di quanto lui stesso riconosca apertamente. Due mi sembrano i segnali principali. Il primo trova ampio sviluppo nel libro e riguarda l’altra faccia del neoimpegno, e cioè l’intrattenimento. Senza paradosso morale l’ambizione di riparare e guarire il mondo assume la forma del rito consolatorio celebrato nel quadro di un ben definito orizzonte delle attese che chiarisce dove stanno le vittime e dove i carnefici.
Si pensi ad esempio al volume che Michela Murgia ha dedicato al fascismo, Istruzioni per diventare fascista, ridotto – come giustamente osserva Siti – «a una specie di malattia, latente in ciascuno di noi» (ivi, p. 107), che emerge attraverso la figura di un fascista immaginario ideato dalla scrittrice sarda per dare luogo a un effetto di straniamento apparentemente liberatorio. Si legge infatti il libro di Michela Murgia un po’ come si va allo zoo per visitare il giardino delle scimmie, che, sì, un po’ ci somigliano ma dopotutto sono diverse.
L’autrice avrebbe tradito il mandato del neoimpegno se ricorrendo alle proprie reminiscenze gramsciane – Michela Murgia ha introdotto un’edizione delle Lettere dal carcere – avesse dato forma narrativa e approfondito l’idea secondo cui il fascismo è un fenomeno storico della modernità, incomprensibile se si trascura il dato progressivo che sin dagli anni venti ha saputo imprimere alla vita italiana. La storia è però troppo contraddittoria, crea inquietudine, meglio allora rifuggire su un piano strettamente moralistico, anche attingendo da quel sistema di convinzioni e di credenze predisposte dai media, soprattutto di orientamento liberal, oggi largamente egemone. Quello denunciato dalla scrittrice sarda è in fondo un fascismo prepolitico che si valuta attraverso i comportamenti e i gesti.
È un fascismo da social network che deve creare rifiuto, non interrogativi sulle ragioni sociali e materiali che lo hanno generato. Per mezzo di un procedimento non molto lontano dall’ottica di Don Mariano quando parla dei quaraquaquà, il termine fascista consente dunque di dividere l’umanità, di riconoscere tutto ciò che non merita attenzione, interesse, per confinarlo e togliergli cittadinanza.
Un secondo elemento che il volume di Siti lascia emergere attraverso rinvii più o meno espliciti riguarda invece il rapporto tra letteratura e forze materiali, tema che in passato è stato oggetto di ampie discussioni, ma che ora il neoimpegno sembra del tutto trascurare in favore di una lotta tutta interna al dominio culturale e dal carattere neanche troppo nascostamente classista – per usare una fortunata formula di Thomas Piketty direi da «sinistra intellettuale benestante».
Nel volume di Siti, questa regressione culturalista emerge nel modello pedagogico del neoimpegno e soprattutto nell’idea, diffusa anche fra i più insospettabili, che siano le parole a generare i comportamenti e che dunque agendo su di esse sia possibile modificare e migliorare la società. Per criticare questo caposaldo del neoimpegno Siti ricorre in alcuni passaggi all’armamentario marxista. Lo fa non tanto in virtù di un’adesione ideologica – il pessimismo sitiano non la consentirebbe –, quanto piuttosto per invitare la critica a un atteggiamento più smaliziato, meno succube delle mode ideologicamente ostili a un settore di studi che può ancora dire qualcosa sull’impegno.
Più in generale il suo è anche un suggerimento a non soffermarsi alle sole apparenze della lingua e a ricomporre quel nesso tra coscienza storica e libertà espressiva che alimenta «le potenzialità conoscitive della letteratura» (ivi, p. 254). Ancora una volta l’italiano non è l’italiano: rimanda a un mondo più complesso e scaltro, grande e terribile, attraversato da rapporti di forza e lacerazioni che sfuggono al balletto molto convenzionale dei significanti.
Ora, l’idea che alcune prove letterarie del neoimpegno nascondano molto più di quanto dovrebbero rivelare attraversa tutto il libro di Siti. È forse allora lecito chiedersi se questo carattere di intrattenimento consolatorio e destorificante, nonché riservato a una ristretta classe sociale, non sia altro che un ingrediente di quell’oppio del popolo con il quale Goffredo Fofi, qualche anno fa, ha definito provocatoriamente la funzione della cultura nell’attuale fase storica (Fofi 2019).
Certo, non si può negare che il primo romanzo di Saviano, Gomorra, abbia in realtà avuto un effetto tutt’altro che narcotizzante. Lo stesso Fofi ne aveva del resto caldeggiato la pubblicazione. Siti tuttavia mostra come la freschezza letteraria e persino l’audacia di questo libro d’esordio siano venute meno proprio quando Saviano ha voluto rinunciare al lavoro formale che in precedenza aveva rivelato alla sua scrittura l’esistenza di una terra di nessuno priva di statuto morale, ma da cui provenivano stimoli decisivi per comprendere il fenomeno camorristico. Qualcosa però è andato storto. Nelle tante pagine dedicate a questo scrittore Siti dà particolare risalto all’ipertrofia dell’io autoriale, all’urgenza di rispecchiarsi nelle parole, di essere loro mezzo e sostanza. Dalle sue sottili analisi si direbbe che gli scritti successivi a Gomorra siano più rivolti all’auto-edificazione di Saviano che al lavoro propriamente letterario. L’enunciazione finisce infatti per prevalere sull’enunciato, tanto che su un piano linguistico potremmo dire che i suoi romanzi siano una sorta di selfie scattato sullo sfondo dei traffici di droga o della miseria dei giovani finiti nelle reti della camorra.
Mi domando, e in questo frangente anche Siti qualche interrogativo lo solleva, quanto le nuove forme di comunicazione abbiano condizionato il neoimpegno, in particolare nella riduzione moralistica e nell’esaltazione narcisistica dell’auto-rappresentazione edificante che i social network consentono a ciascun utente. Non mi riferisco qui solo alla presenza degli scrittori sulle piattaforme di Facebook o di Instagram, ma alla modalità comunicativa che istituisce l’opera impegnata, sempre più opera «webbabile» (Siti 2021, p. 42), frammentata, parziale, messa a disposizione di un pubblico che la acquista per sapere da che parte sta e contro chi.
È su questa linea di frontiera, oltre la quale «la scrittura engagée […] rischia di diventare una specializzazione merceologica», che emerge da parte di Siti la richiesta di un ritorno alla letteratura: non all’«autonomia dell’arte (che) è una favola» (ivi, p. 27), ma alla sua capacità di «interezza» (ivi, p. 46), di esprimere la «totalità» (ivi, p. 49) in cui albergano contraddizioni e lacerazioni. Insomma: tornare alle lettere, all’italiano del vecchio professore sciasciano.
Riferimenti bibliografici
G. Fofi, L’oppio del popolo, Elèuthera, Milano 2019.
M. Murgia, Istruzioni per diventare fascista, Einaudi, Torino 2018.
T. Piketty, Capitale e ideologia, La nave di Teseo, Milano 2020.
L. Sciascia, Una storia semplice, Adelphi, Milano 1989.
L. Sciascia, La Sicilia come metafora, Mondadori, Milano 1979.
Walter Siti, Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura, Rizzoli, Milano 2021.