André Bazin vide I sette assassini (1956), il primo dei sette western con Randolph Scott diretti da Budd Boetticher, nel luglio del 1957, «in una piccola sala degli Champs-Élysées», in versione originale. Ne restò folgorato e gli dedicò ben quattro articoli distinti, apparsi, a poca distanza l’uno dall’altro, su “Le Parisien libéré” (Sept hommes à abattre. Bon vent d’Ouest!), su “France Observateur” (Une semaine vouée au western, dove il film era discusso assieme a L’ultima caccia, 1956, di Richard Brooks), su “Radio-Cinéma-Télévision” (Sept hommes à abattre. Du beau, du bon, du vrai western!) e sui “Cahiers du cinéma” (Un western exemplaire, titolo-definizione poi sempre ricordato nei discorsi sul film). Da un articolo all’altro, I sette assassini vi veniva descritto con toni di assoluto entusiasmo: «Un film eccezionale», «Si tratta probabilmente del più bel western degli ultimi anni», «Ecco in effetti uno dei western più intelligenti che io conosca, ma anche il meno intellettuale; il più raffinato e il meno estetizzante; il più semplice e il più bello» (Bazin 2018). Con la consueta acutezza, cogliendo subito molti dei tratti principali dei western maggiori di Boetticher (asciuttezza della mise en scène, semplicità del racconto, ricchezza e precisione della sceneggiatura, humour diffuso, notevole uso del paesaggio, del colore, dell’ellissi, tra tradizione e innovazione, tra concretezza e astrazione), Bazin aveva colto nel segno nell’individuare, nel film, qualcosa di importante.
Con in I sette assassini, scritto da Burt Kennedy a partire da un suo racconto, prodotto dalla Batjac di John Wayne (già produttore, nel 1951, di un film-chiave nella carriera del regista, L’amante del torero), nasce di fatto il connubio Budd Boetticher-Randolph Scott che, tra il 1956 e il 1960, con un memorabile ciclo di film e lungo la via di un classicismo terminale e inquieto, consente al regista, pure già attivo nel western, di lasciarvi il suo segno più compiuto e più profondo e di rappresentare esemplarmente, assieme a Anthony Mann, il rinnovamento che investe il genere lungo il corso degli anni cinquanta.
Dopo I sette assassini, Randolph Scott e il produttore Harry Joe Brown, già soci da tempo nella produzione di western con l’attore, avviano con Boetticher – e con Burt Kennedy – una collaborazione decisiva. Il regista dirige così cinque western interpretati da Scott, prodotti dalla Scott-Brown Productions, poi (ma solo gli ultimi due) dalla Ranown Pictures Corp., sempre di Scott e Brown (e dalla quale deriverà il nome con cui si è soliti riferirsi all’intero ciclo di film) e distribuiti dalla Columbia. Prende corpo così quello che sarà appunto ricordato come il Ranown Cycle, il cui primo tassello (benché, come detto, prodotto dalla Batjac) viene riconosciuto proprio ne I sette assassini, sorta di matrice, tematica e/o compositiva, dei film a venire. Arriveranno dunque I tre banditi (1957), Decisione al tramonto (1957), Il cavaliere solitario (1958), L’albero della vendetta (1959) e La valle dei Mohicani (1960). Accanto a essi, che presentano consonanze numerose e molto evidenti, è L’oro della California (1959), western prodotto, su una fiacca sceneggiatura di Berne Giler, dalla Warner Bros. – per la quale Scott, da contratto, doveva interpretare il film, che Boetticher si offrì di dirigere per tentare, dirà poi, di migliorarlo –, girato nel ‘57 ma uscito due anni più tardi, molto diverso dagli altri – basta la sua «troppo pimpante colonna musicale» per notarlo (Nott 2004) – e che lo stesso Boetticher non considerava parte del ciclo (Boetticher 1989).
Realizzati a basso costo e con grande rapidità, i film Ranown consentono a Boetticher, Scott, Brown e al giovane sceneggiatore Burt Kennedy ampia libertà d’azione. Kennedy (futuro regista di lavori mai all’altezza delle prove realizzate per Budd) ne scrive quattro (I sette assassini, I tre banditi, da un racconto di Elmore Leonard, L’albero della vendetta, La valle dei Mohicani), oltre a essere in parte coinvolto, non accreditato, per Il cavaliere solitario (pure non accreditato, scriverà una scena, per motivarne un’altra altrimenti incomprensibile, per lo stesso L’oro della California; Nott 2018); Charles Lang, ex attore passato alla sceneggiatura, che aveva già scritto un film per Boetticher (Il grande matador, 1955), ne sceneggia due (Decisione al tramonto, da un racconto di Vernon L. Fluharty, e Il cavaliere solitario, da un romanzo di Jonas Ward); per ciò che concerne la fotografia, Charles Lawton ne firma tre (gli stessi scritti da Kennedy, tranne I sette assassini), mentre uno (Il cavaliere solitario) si deve a Lucien Ballard, tra i capo-operatori preferiti di Boetticher.
Film dopo film, si compone dunque la segreta alchimia tra l’intensa asciuttezza della scrittura filmica di Boetticher e un’icona del genere come Randolph Scott, che aveva 58 anni quando uscì I sette assassini, con alle spalle una carriera che al mezzo degli anni ‘50 sembrava inesorabilmente avviata al declino e che ebbe invece, proprio con i film di Boetticher, una sfolgorante stagione conclusiva (chiudendosi infine, e in bellezza, con Sfida nell’Alta Sierra, 1962, di Peckinpah).
Senza dubbio il nucleo più coeso e organico della serie è costituito dai quattro film, tematicamente molto simili, dominati dagli spazi aperti, scritti da Kennedy, col quale Boetticher sviluppa un’esemplare intesa creativa e la cui scrittura concisa, animata da dialoghi spesso di grande fattura, si armonizza perfettamente con lo stile del regista. Con essi, i film firmati da Charles Lang, pur meno compiuti e per contro caratterizzati da ambientazione urbana e ampio uso di interni, si incrociano in punti determinati, in singoli nodi e motivi, talora anche molto importanti.
Sorretti da uno stile vibrante nella sua radicale essenzialità, da una scrittura filmica spesso calibratissima, che racchiude personaggi, situazioni, azioni in luoghi isolati o di confine e in dispositivi narrativi di concentrata efficacia, scanditi da tempi del racconto dilatati in cui pure si danno improvvise accensioni, virate di tono e subitanei accessi di violenza, pervasi ovunque da getti di humour, da uno straordinario uso del paesaggio e ancora da una peculiare capacità, sempre ricordata, di costruire notevoli figure di antagonisti, i western di Boetticher di questi anni modulano, su piani diversi, riconfigurando di regola tratti individuanti del genere, temi e motivi che ritornano di film in film. E tracciano traiettorie narrative, drammaturgiche e compositive insieme semplici e complesse, in cui alla logica spesso implacabile del racconto corrisponde il più alto grado di concretezza, di matericità, quasi di mineralità del rappresentato. Pur di fronte al solo I sette assassini, Bazin aveva definito questo determinato ordine di problemi: «L’emozione – scriveva – nasce dai rapporti più astratti e dalla bellezza più concreta» (Bazin 2018).
Tutti costruiti attorno alla presenza di Scott, la cui maschera scolpita di eroe immacolato – «un segno, un’immagine di repertorio del genere […], un punto di forza del sistema» – è rimodellata da Boetticher, che ne porta a emersione una sorta di segreta, oscura «inquietudine» (D’Angela 2012), i film del ciclo sono dominati dalla figura di un protagonista stanco e solitario, che li attraversa e vi scompare, ora ironico e sicuro (Il cavaliere solitario) ora (più spesso) dolente e cupo, sempre taciturno, che ha nella freddezza e nel calcolo la migliore arma di difesa (Kitses 2004), per lo più chiuso nel proprio passato – e quasi sempre impossibilitato a configurare, almeno per sé, un avvenire diverso da una radicale solitudine – e nelle ossessioni che ne derivano.
Muove e struttura i film, molto spesso, il motivo della vendetta (I sette assassini, Decisione al tramonto, L’albero della vendetta e, ma in modi diversi, I tre banditi), o più esattamente della sua inutilità, del nulla che consegna a chi ne raggiunge il compimento (come nell’impressionante finale de L’albero della vendetta, con Scott/Ben Brigade che rimane da solo davanti all’albero che ha dato alle fiamme, cifra materiale del proprio dolore), così come a chi non riesce a condurla a termine (il Bart Allison di Decisione al tramonto, che se ne va da Sundown come avvolto nella sua cieca, quasi folle, disperazione). E vi torna il motivo della donna mancante, della moglie dell’eroe come personaggio assente, incorporeo quanto cruciale, «un fantasma da inseguire» (D’Angela 2012), uccisa (da poco, come ne I sette assassini, o molto tempo prima, come in L’albero della vendetta), suicida (come in Decisione al tramonto), rapita (e quasi certamente morta, come ne La valle dei Mohicani), il cui ricordo, talora intriso di senso di colpa, ossessiona Scott e ne muove tutte le azioni.
E ancora, tornano i luoghi – il territorio di Lone Pine, in California, in quattro film, con lo spazio lunare e selvaggio, aspro e tortuoso, delle Alabama Hills, che assume una dimensione di assoluta centralità e che il regista filma con notevole sensibilità compositiva (Kitses 2004, Donaldson 2017) – e ulteriori motivi e situazioni: lungo la linea Kennedy-Boetticher, l’isolamento, e il campo di tensioni che si apre tra loro, di un piccolo gruppo di individui – in viaggio (o in stallo, come ne I tre banditi) –, l’eroe e due (o tre) fuorilegge e sempre una donna (ne I sette assassini c’è anche un marito, ne L’albero della vendetta c’è anche un prigioniero) e il confronto, lungo, studiato in ogni mossa, più mentale che fisico, tra due avversari complementari e opposti, divisi da una prospettiva integralmente morale.
Ricorre, di film in film, la figura del fuorilegge che sogna di cambiare vita, di avere un pezzo di terra e trovare la pace: come il Frank Usher (Richard Boone) de I tre banditi, che dice di non aver mai sparato a un uomo e che per questo si serve di due spietati pistoleri; come il Sam Boone (Pernell Roberts) de L’albero della vendetta, cui – assieme a Whit che l’accompagna (James Coburn, al suo esordio cinematografico) – è garantita da Scott, alla fine del film, la possibilità di abitare un futuro diverso, probabilmente accanto alla giovane vedova (Karen Steele) per la quale, durante il viaggio, ha perso la testa; come Dobie, uno dei due pistoleri che affiancano Claude Akins ne La valle dei Mohicani, cui il protagonista offre di prenderlo con sé quando il viaggio sarà terminato e che tuttavia sarà ucciso; come lo stesso Pecos (L.Q. Jones) di Il cavaliere solitario, che pure non è un fuorilegge ma un malvivente al servizio del truce sceriffo di Agry Town, che come Scott vorrebbe tornare nel Texas e che, ugualmente, verrà assassinato.
Se quelli appena descritti sono temi, motivi, scenari ricorrenti di questi film, cui conferiscono una marcata unitarietà, si configurano come vere e proprie ripetizioni di situazioni molto determinate, talvolta anche in termini di mise en scène, quelle che riguardano ad esempio i dialoghi notturni, durante le soste del viaggio, tra il villain e l’eroe o tra il villain e la donna, oppure il gesto gratuito (Kitses 2004), da parte del fuorilegge, di salvare la vita all’eroe, che costituisce il solo ostacolo al compimento dei suoi obiettivi ma che egli non tenta mai di uccidere a tradimento, in attesa della sfida finale, o ancora gli apprezzamenti, ora molto espliciti (penso in particolare al Lee Marvin de I sette assassini) ora più composti (con ripetizioni e variazioni anche all’interno del medesimo film), che lo stesso fuorilegge indirizza alla donna con cui si trova a viaggiare, ecc. Ma la ripetizione riguarda anche singoli elementi della rappresentazione: l’albero dalle forme contorte che il protagonista brucia alla fine de L’albero della vendetta ricompare identico, al centro di un piccolo bacino d’acqua, ne La valle dei Mohicani (Donaldson 2017). E la ripetizione di posti e situazioni spesso letteralmente muove il funzionamento del film, come ne Il cavaliere solitario.
Temi ricorrenti, che già rifigurano motivi interni al genere, e ripetizioni di situazioni determinate sono il legante formativo di opere – nei modi, nelle forme – molto simili (L’albero della vendetta e La valle dei Mohicani, gli esiti più alti e compiuti del ciclo, sono quasi lo specchio l’uno dell’altro), ma anche diverse nelle andature, nei toni, talvolta nelle dinamiche formative e nelle quali Randolph Scott, perfetto di film in film, corpo affaticato, volto immutabile, sembra esistere di volta in volta per percorrerle come una brillanza malinconica, una luminescenza oscura, e per svanire in un altrove invisibile in cui continua a cavalcare da solo.
Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Écrits complets, édition établie par H. Joubert-Laurencin, vol. II, Éditions Macula, Paris 2018.
B. Boetticher, When in Disgrace, Neville Publishing, Santa Barbara 1989 .
T. D’Angela, Western. Una storia dell’Occidente, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2012.
L.F. Donaldson, The Ranown Style: Mapping Textual Echoes, in G.D. Rhodes, R. Singer (eds), The Films of Budd Boetticher, Edinburgh University Press, Edinburgh 2017.
J. Kitses, Horizons West. Directing the Western from John Ford to Clint Eastwood, BFI, London 2004.
R. Nott, The Films of Randolph Scott, McFarland, Jefferson 2004
Id., The Films of Budd Boetticher, McFarland, Jefferson 2018.