Sul punto di concludere un affare immobiliare, l’acquisto della tenuta di Lord Canterville, il politico americano Mr. Otis viene avvertito dallo scrupoloso aristocratico inglese della presenza infestante di un fantasma nella magione. La sua risposta è leggendaria: «Farò valutare il fantasma insieme ai mobili. Vengo da un paese moderno dove abbiamo tutto quello che il denaro può comprare». Il resto del racconto di Oscar Wilde, si sa, sbeffeggia il pragmatismo della famiglia americana, che oppone al romantico repertorio horror del fantasma la volgarità di prodotti industriali: lubrificanti per oliare le catene, sciroppi per curare la voce roca e detersivi per pulire le macchie di sangue. Il denaro sconfigge la paura: gli Otis ammettono senza problemi l’esistenza del fantasma, ma il loro materialismo neutralizza il suo unico vero potere, quello di spaventare. Wilde però non prende il partito della difesa della tradizione – ci mancherebbe – perché il personaggio chiave del Fantasma di Canterville è Virginia Otis, la figlia sensibile, che attraverso il sentimento placa per sempre lo spettro e, sposando un aristocratico inglese, incrina le stolide certezze paterne.
Il nuovo libro di Walter Siti, Pagare o non pagare. L’evaporazione del denaro (Nottetempo 2018), è un’indagine non sul denaro, ma sullo scambio di denaro, sull’azione di scambiare il denaro con la merce, in primis il lavoro. È un tipo di azione che fino a poco fa era scontata, ma a poco a poco sta scomparendo, o meglio si sta assottigliando. Siti usa il verbo evaporare, che raffigura un movimento verso l’alto, quanto mai appropriato perché non si tratta di una dissoluzione, ma di una migrazione dalle classi basse e medie verso quelle alte. Non solo la ricchezza in sé si concentra nelle mani di pochi, ma anche l’uso di pagare ed essere pagati in denaro. Mentre i lavori più modesti (tra cui quelli intellettuali e “creativi”) e le merci comuni vengono pagati sempre meno, in una tensione continua verso la gratuità e il ritorno a una premoderna economia del baratto, i ruoli di potere, i beni di lusso e naturalmente i profitti a monte acquistano sempre più valore, rigorosamente quantificato e scambiato in denaro.
Il libro si apre con un capitolo sul “piacere di pagare”: un titolo che alle orecchie di alcuni, soprattutto giovani, suona come un ossimoro. Chi non ha mai conosciuto il Welfare State degli anni buoni, la mobilità sociale conquistata a morsi, il lavoro pagato davvero e in maniera durevole, non riesce a immaginarsi il significato di un piacere del genere. «Eppure io che ho settant’anni, e provengo da quella che una volta si chiamava la classe operaia, ricordo il piacere di pagare: una sensazione di trionfo, o almeno di soddisfazione profonda, le prime volte che potevo procurarmi, pagando con soldi guadagnati da me, qualche piccolo lusso». Pagare era «un’affermazione del diritto a incarnare i desideri», e più specificamente di «pretendere cose grandi» come chiunque altro.
All’opposto della retorica dei sacrifici, caratteristica della generazione precedente (fondata sulla memoria delle ristrettezze e dell’intensità dei desideri a lungo repressi) il racconto di Siti è quello di un’ascesa facile, lineare, dove tutto sommato gli sforzi erano commisurati ai risultati e la capacità di acquisto era enormemente aumentata rispetto a cinquanta o cento anni prima («per avere la stessa comodità di cose e servizi che aveva un alto-proletario piccolo-borghesizzato negli anni ottanta, duecento anni prima avresti dovuto nascere come minimo visconte o marchese»).
Di ogni cosa chiedere innanzitutto quanto costa
Certo, tutto questo era il prodotto di circostanze storiche, lotte politiche secolari, avanzamento tecnologico, ma paradossalmente questo picco di redistribuzione e uguaglianza era garantito dalla presenza fisica, misurabile, e finalmente diffusa, del denaro. Ogni cosa aveva un prezzo, o meglio il prezzo di ogni cosa era discusso, trattato, apertamente conteso, ed era non solo lecito, ma politicamente fondamentale parlarne. In questo contesto è stato possibile raggiungere la minima distanza storica tra le classi, e chi emergeva era realmente libero con il suo salario di comportarsi da formica, scalando più solidamente i gradini della scala sociale, o da cicala, pagando beni che lo ponevano sullo stesso piano simbolico di chi gli stava sopra.
Quello che è successo dopo, il nuovo corso impresso da Thatcher e Reagan, le crisi politiche e finanziarie, il sopravvento del digitale, il ritorno della rendita e della diseguaglianza, è stato accompagnato da una serie di fenomeni in apparente contraddizione tra di loro, che hanno annebbiato la percezione della realtà. La caduta libera dei salari (e prima dei diritti) ha coinciso con la caduta dei prezzi di moltissime cose: vestiti fast fashion, aerei low cost, elettrodomestici, mobili, apericene, open bar, internet, musica, film, abbonamenti telefonici, gadget, app, trasporti in sharing, spedizioni gratis. Ognuna di queste cose ha un prezzo nascosto – dal lavoro schiavile alla devastazione ambientale alla morte dell’industria culturale, oppure, su un piano diverso ma ancora più perturbante, il controllo e la mercificazione dei nostri dati e delle nostre attività – ma nessuno è più veramente in grado di chiederne conto, perché non esiste più alcun interesse collettivo a farlo. La cosiddetta “economia del gratis”, di natura profondamente ricattatoria, ha imposto un tabù fortissimo sul denaro agendo su fronti contrapposti: chi non è pagato, o è pagato male, assume di valere poco, e di non avere quindi alcun diritto a questionare, mentre la possibilità di consumare beni superflui low cost allontana la sensazione che sia il sistema a essere iniquo.
«Se non conosci il prezzo vero di nulla, alla fine non conosci nemmeno il tuo prezzo», dice Siti. E infatti nessuno rivela al proprio collega quanto guadagna, per un mix di vergogna, furbizia e obbedienza al padrone, che impone il segreto. È diventato accettabile il pagamento in “visibilità”, in righe di inutili curriculum, in “esperienza”, come accadeva per i volontari dell’EXPO o per le migliaia di artisti, designer, curatori, giornalisti, montatori su cui è fondata l’economia degli eventi grandi e piccoli, dalle design week ai festival letterari. La lotta per l’aumento si è trasformata in una lamentosa richiesta di elemosina individuale, e l’interrogazione sui bilanci, sull’allocazione del denaro pubblico – essenza della politica – appare ormai come polemica sterile, roba da grilli parlanti.
Elemosinare il privilegio
La figura dello scroccone, un tempo oggetto di satira, è oggi modello di vita: riuscire a imbucarsi nella festa vip vale più che trovarsi ospite d’onore nel proprio circuito. Accaparrarsi, a costo di notti insonni, il biglietto a un euro è meglio che pagare, potendoselo permettere, un business a prezzo pieno, e folle di persone che non hanno mai preso una penna in mano cercano di piazzare marchette su qualche blog per procurarsi gli accrediti a mostre e festival, nel plauso generale. Gli artisti o i curatori sono quasi più felici di essere invitati a passare un weekend nella villa o sul motoscafo del collezionista che di vendergli le opere ad alto prezzo. Gli studiosi insegnano gratis nelle università per potere spacciare il titolo.
Ma naturalmente la concessione di privilegi (che peraltro è sempre esistita) non è misurabile, e può essere revocata in qualsiasi momento, come aveva capito Luigi XIV formalizzando il sistema Versailles per impallinare le fronde. E il baratto lascerà sempre l’amaro in bocca al più debole. Come è stato possibile tornare, quasi volontariamente, a questa postura così poco eretta, al timore e al rispetto per i vecchi fantasmi nei castelli inglesi?
Certo, una grossa responsabilità la possiamo attribuire ai soliti fricchettoni dei garage della Silicon Valley, che hanno costruito questo capitalismo da incubo sull’ambivalenza del FREE. Molto è stato scritto nell’ultimo decennio sulla distanza che separa la gratuità dalla libertà, eppure i nerd non sono gli unici a confondere i termini, ma si trovano in compagnia di apologeti delle comunità, teorici dei beni comuni e/o della decrescita felice, attivisti del mutualismo, associazionismo del terzo settore, specialisti della resilienza e degli insediamenti informali e molti altri. Circuiti incrociati dotati di un potere reale non gigantesco, ma con una notevole capacità mediatica, in grado di influenzare il discorso pubblico di quelle aree di pensiero identificate ancora come critiche o antagoniste.
Proprio là, dove potrebbero coagularsi forze in grado di smontare le retoriche che giustificano il taglio della spesa pubblica e privata, cioè la cancellazione dei diritti e del lavoro pagato, si propongono modelli sociali fondati sulla «ambigua generosità del dono», sul valore della solidarietà, dello scambio gratuito di tempo, cibo, prestazioni, servizi, pulizie, sulla condivisione di strumenti e spazi in un pittoresco equilibrio comunitario. Si tratta di modelli ottimistici apparentemente speculari a quelli del capitalismo arrembante, ma frutto della stessa coazione a pensare positivo, annacquando desideri, conflitti e pretese, e non a caso ampiamente saccheggiati da quella branca vorace del capitalismo chiamata “Innovazione sociale e culturale”, che specula, per l’appunto, sulle energie dell’autorganizzazione, della “resilienza”.
Bunga bunga
«In ogni caso, per me il piacere di pagare è finito così, tra il premier ceco Topolanek fotografato nudo a Villa Certosa e i processi del bunga bunga». Che c’entra Berlusconi, perché segna un punto di rottura?
Nella fantasia degli italiani (nella mia di sicuro) fu soprattutto il compratore assoluto, colui che, privo della tradizionale sobrietà delle famiglie del fu-capitalismo, poteva permettersi magioni ai Caraibi, soubrette, giudici, squadre di calcio, la Standa, giornali, colibrì col proprio nome, vulcani in giardino, case editrici, deputati […] L’infinito, certo, ma non era l’infinito che io sognavo, o forse Berlusconi mi rivelava i miei stessi sogni in una forma troppo ovvia e troppo parodistica; realizzandoli li smitizzava, li riduceva a una fantasia da “cumenda”, li spogliava di ogni aura misterica.
Il rapporto tra pagamento e appagamento sessuale è cruciale nell’opera di Siti, forse nessuno ha indagato questo nodo come lui. E il risultato di questa esplorazione, rivelato in migliaia di sue pagine, è in effetti completamente opposto all’universo del bunga bunga e di tutto quello che l’ha preceduto nei giri berlusconiani. La differenza però non è nel registro, o nell’oggetto, o nella scala delle possibilità: lo scarto fondamentale è nell’atto del pagare. L’azione di Siti, di pagare uomini dal corpo non comune, sintesi di umano ed extraumano, per andare a letto con lui è funzionale al desiderio, serve a mantenere la distanza, l’asimmetria tra lui e questi esseri divini, è «l’obolo necessario deposto ai piedi di un altare sconosciuto; pagare è una sottospecie del pregare».
Esattamente l’opposto di Berlusconi, che quando pateticamente negava di avere mai pagato una donna in cambio di sesso non cercava di difendere la propria fedina penale, bensì l’immagine di persona universalmente desiderata che voleva assolutamente convincersi di essere. Le cifre e i regalini che elargiva alle ragazze di turno ad Arcore o a Villa Certosa erano miserabili: lui, che avrebbe potuto pagare le escort più lussuose del pianeta, preferiva gratificarsi con l’idea che delle ragazze normali venissero a lui affascinate, anzi eccitate, dal suo charme e dalla sua ricchezza. Piuttosto che pagare le donne, preferì comprarsi una tv per «scoparle tutte». Altro che compratore assoluto, B. è stato il vero antesignano dell’economia del gratis.
Riferimenti bibliografici
W. Siti, Pagare o non pagare. L’evaporazione del denaro, Nottetempo, Milano 2018.