Il tessuto narrativo di Companion, diretto da Drew Hancock, si intreccia attorno a dei nodi pregni di significato: alcuni incisivi primi piani del volto della protagonista, Iris (Sophie Thatcher). Il corpo attoriale, e in particolare il volto di Thatcher, gioca un ruolo primario nella costruzione del testo filmico. Tali inquadrature dimostrano un’immediata discrepanza tra l’atteggiamento innamorato e devoto, ai limiti del servile, di Iris e la percezione profonda delle debolezze della sua relazione con Josh. Nello stesso modo, la reale natura di Iris come cyborg è rivelata proprio attraverso il close-up sugli occhi vacui e inerti a causa della trance indotta dallo “spegnimento”. Nel dipanarsi del racconto, in realtà, l’insistenza sul primo piano verrà a costituirsi quale mezzo attraverso cui Hancock restituisce progressivamente a Iris una dignità individuale, indipendente dai pregiudizi degli altri personaggi.

In definitiva, la macchina da presa, con le frequenti riprese del volto della protagonista, empatizza con la sua condizione, strappandola al dominio della pura materialità e ricollocandola in quello dell’emotività e, in tal modo, spingendo anche gli spettatori a un processo di identificazione con la soggettività di Iris, doppiamente emarginata e sfruttata perché cyborg di sesso femminile. Come nota Federica Timeto:

Quando al corpo delle macchine è attribuito un genere femminile a essere amplificato è piuttosto il pericolo che un simile organismo rappresenta (un oltrepassamento verso il basso). I molteplici posizionamenti di questo corpo, per definizione mostruoso perché aperto e mutevole in modo incontrollabile, accerchiano e decentrano minacciosamente il campo del Soggetto dominante, che si serve di precise strategie di ridimensionamento, confinamento e neutralizzazione della mutazione sempre possibile. Nelle rappresentazioni dei cyborg e delle IA femmina, si tratta di strategie di addomesticamento, inteso come asservimento e/o come feticizzazione erotica (2018, p. 207). 

Quanto descritto da Timeto è proprio ciò che accade alla soggettività di Iris nel corso della prima sezione del film. La sua personalità è ripetutamente appiattita, dai giudizi degli altri personaggi umani, a mero strumento di piacere, oggetto duttile nelle mani di Josh, completamente asservito ai suoi bisogni e alle sue necessità.

Il film, tuttavia, pare perseguire l’obiettivo di emancipare Iris da questa posizione e, a tal fine, gioca, attraverso un ritmo piuttosto incalzante, sulle duplicità: la doppiezza dell’atteggiamento di Josh, l’ambivalenza del carattere di Iris e le due diverse attitudini di Josh e del suo amico nei confronti dei propri robot companion. Nel corso della narrazione, la prima, apparente, liberazione di Iris dal controllo maschile si verifica nella sequenza in cui, minacciata dall’abuso sessuale di Sergej, compagno di Kat e proprietario della villa in cui Josh e Iris sono ospitati, la protagonista reagisce con una violenza catartica, manifestando una mostruosità dai tratti liberatori. La sequenza successiva, tuttavia, ci rivela che quella risposta non è altro che il risultato di una manipolazione operata dallo stesso Josh sul sistema operativo di Iris, allo scopo di usarla per eliminare Sergej e impossessarsi del suo patrimonio. È a questo punto, dunque, che Josh mostra la vera natura di Iris, ma anche la propria. In aggiunta, anche l’ordito narrativo sembra muoversi verso un duplice intento: da un lato denunciare la malvagità avida che può dimorare nel cuore degli esseri umani; dall’altro indurre lo spettatore a schierarsi con Iris e le sue intense emozioni d’affetto, di smarrimento e di dolore. In tal modo, attraverso la selezione e successione delle inquadrature, il regista isola la figura di Iris da quella di Josh, restituendole progressivamente un’agency sempre più marcata, e svincolata dalle volontà del compagno, e il controllo sul proprio corpo e sulle proprie azioni.

Iris, prendendo coscienza della propria condizione, cambia il proprio statuto di corpo appropriato e posseduto in corpo inappropriato/bile. Haraway, sulla scia della cineasta femminista Trinh Minh-ha, definisce inappropriati/bili tutti quei soggetti «che non potevano indossare né la maschera del sé né la maschera dell’altro, entrambe concesse dalle narrative moderne dell’identità e della politica allora egemoni» (Haraway 2019, p. 54). In sostanza, sono inappropriati/bili tutti quei soggetti, umani, non-umani, organici e inorganici, imprevisti i quali si relazionano con la soggettività dominante (generalmente quella maschile eterosessuale) con modalità inaspettate: «Una relazionalità critica e decostruttiva, […] una razionalità diffrattiva e non riflettente: un modo per tessere connessioni potenti che spezzino i rapporti di dominazione», giungendo in tal modo alla mappatura «dei luoghi in cui gli effetti della differenza si manifestano» (ivi, pp. 54-56). Si tratta di «una geometria e un’ottica – per pensare i rapporti di differenza tra persone e umani, altri organismi e macchine – alternativi alla dominazione gerarchica, alla sussunzione delle parti nel tutto, alla protezione paternalista-colonialista, alla fusione simbiotica» (ivi, 56). In definitiva, il corpo di Iris cessa di essere corpo agito e sfruttato e, mediante un processo di auto-appropriazione di sé, diviene corpo agente, che mette in atto delle strategie di riconquista della propria autodeterminazione.

Le sequenze sanguinose assumono, per Iris, il valore di un mezzo di liberazione da una relazione gerarchizzata e simbiotica con Josh, in cui lei riveste il ruolo di subordinata. Attraverso l’esplosione della violenza Iris riesce a sciogliere i nodi delle vecchie relazioni, ma anche a riconoscere e accettare la propria identità fluida di cyborg, come si evince da una delle ultime sequenze, quella nella doccia, nella quale osservando lo scheletro meccanico, rimasto esposto dopo che Josh ha lasciato sciogliere completamente il rivestimento di plastica che avvolgeva il suo braccio, sul volto, ancora una volta in primo piano, di Iris compare l’ombra di un sorriso. Come scrive ancora Haraway: «La macchina non è un quid da animare, adorare e dominare; la macchina siamo noi, i nostri processi, un aspetto della nostra incarnazione. Noi possiamo essere i responsabili delle macchine, loro non ci dominano né ci minacciano; noi siamo i responsabili dei confini, noi siamo loro» (Haraway 1991, p. 125). Iris, dunque, comprende la propria natura «ibrida, mosaica, chimera» (ivi, p. 119) e l’accoglie pienamente, mentre si appresta a immettersi su un nuovo cammino e a intraprendere un nuovo percorso segnato dalla strada che si staglia sullo schermo e si proietta verso un orizzonte futuro, che per il momento resta ancora fuori campo.

Riferimenti bibliografici
D. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 1991.
Id., Le promesse dei mostri. Una politica generatrice per l’alterità inappropriata, DeriveApprodi, Roma 2019.
F. Timeto, Intelligenze Artificiali Incorporate. Macchine femmina e relazioni di genere umano-macchiniche nel cinema e nella televisione contemporanei, in SEX(T)UALITIES Morfologie del corpo tra visioni e narrazioni, a cura di S. Antosa e M. Lino, Mimesis, Milano-Udine 2017.

Companion. Regia: Drew Hancock; sceneggiatura: Drew Hancock; fotografia: Eli Born; montaggio: Brett W. Bachman, Josh Ethier; interpreti: Sophie Thatcher, Jack Quaid, Lukas Gage, Megan Suri, Harvey Guillén, Rupert Friend; produzione: New Line Cinema, BoulderLight Pictures, Vertigo Entertainment, Subconscious, Domain Entertainment; distribuzione: Warner Bros. Pictures; durata: 97′; anno: 2025.

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