Che cosa accomuna Al Gore e John McCain, Joe Biden e Donald Trump, Condoleeza Rice e Hillary Clinton? Certo, sono (o sono state) figure di primo piano nel mondo politico statunitense, magari su fronti opposti. Ma non c’è solo questo. Tutte, prima, dopo o durante la loro carriera ai vertici del Paese, hanno infatti partecipato, nel ruolo di se stessi o di un alter ego con poche variazioni, a qualche sitcom in onda in prima serata sui principali network americani. Gore ha promosso la sua crociata ambientalista (anche) in un episodio a tema di 30 Rock (Nbc, 2006-2013), serie in cui anche Rice si è messa in gioco suonando un pianoforte a mezza coda nell’ufficio del protagonista, ed ex amante, Jack Donaghy (Alec Baldwin). Biden e McCain, insieme a Michelle Obama, hanno incontrato Leslie Knope (Amy Poehler), la protagonista di Parks and Recreation (Nbc, 2009-2015), nelle sue incursioni a Washington DC. Sempre Biden e Michelle Obama hanno preso parte al segmento speciale di Veep (Hbo, 2012-2019) realizzato in occasione di una White House Correspondents’ Association Dinner. Trump è comparso in tempi non sospetti in Willy, il principe di Bel Air (The Fresh Prince of Bel Air, Nbc, 1990-1996) e Sex and the City (Hbo, 1998-2004). Hillary Clinton ha tentato di dare slancio alla sua campagna presidenziale con un’incursione in Broad City (Comedy Central, 2014-2019) e ha poi elaborato la sconfitta in una rapida comparsata nella nuova stagione, ripartita a distanza di vent’anni, di Murphy Brown (Cbs, 1988-1998; 2018-).

Si potrebbero fare molti altri esempi. Ma già questa rassegna, che si limita solo al dato superficiale della presenza effettiva di politici (o di figure pubbliche in disarmo, o ancora in divenire) nelle narrazioni tv più leggere, forse minori, solo apparentemente banali, è indicativa di un rapporto profondo, e duraturo, tra la sitcom, e in generale la serialità di tipo comedy nella televisione americana, e la realtà sociale, culturale e politica degli Stati Uniti degli ultimi decenni. Un legame fatto di contaminazioni inattese e di continui rispecchiamenti, di pezzi del quotidiano traslati nel racconto e di contrappunti del piccolo schermo su quanto accadeva fuori, di partecipazioni dirette e allusioni indirette, di riferimenti, gag e battute. In sostanza, paradossalmente (ma fino a un certo punto), è proprio il genere seriale accusato di essere più finto, quello tacciato del massimo grado di artificialità, allora, a dare spazio ai maggiori innesti del reale entro l’informe e onnivora materia televisiva. Guardando in particolare alla serialità comedy statunitense contemporanea, si possono individuare due percorsi principali, distinti ma in qualche modo speculari, impegnati a intessere un dialogo tra le risate tv e una realtà che passa anche dai media.

La prima traiettoria è quella della sitcom che potremmo definire “classica”, ma che occupa tuttora spazi pregiati sulle reti principali ed è saldamente in testa, ogni settimana, nelle graduatorie dei programmi più visti dal pubblico americano. La situation comedy dalla storia ormai lunga, con radici saldamente fissate nel teatro leggero. Quel genere specificamente televisivo, definito già negli anni cinquanta come “l’asse attorno a cui ruota il broadcasting” e considerato il perno delle reti generaliste e dell’offerta mainstream. Certo, c’è l’inevitabile stilizzazione data dalla messa in scena, ogni settimana, di una breve commedia e dal ripetersi, nuovo e sempre uguale, di situazioni destinate a risolversi nel giro di venti minuti, di spazi fissi, di personaggi che non sembrano imparare mai (quasi) nulla. Ci sono le quinte di cartone, i pezzi di bravura degli attori, registrati da quattro telecamere puntate in contemporanea, una regia che opera live, in diretta, “cotta e mangiata”, secondo un modello produttivo-industriale definito in modo preciso. E c’è un pubblico in studio che assiste alla scena (“filmed in front of a live studio audience”, si ricorda prima di cominciare) e che punteggia il racconto con le sue “risate in scatola”, già pronte e spesso perfezionate in postproduzione. Ma negli interstizi del modello, nei margini lasciati dalla catena di montaggio, spesso trova ampio spazio il mondo reale, con i suoi fatti del giorno e le sue pulsioni di più lungo corso.

Da Brooklyn Nine-Nine (Fox, 2013-2018; Nbc, 2019-) all’ormai veterana The Big Bang Theory (Cbs, 2007-2019), da Modern Family (Abc, 2009-2019) a Superstore (Nbc, 2015-), da Mom (Cbs, 2013-) a Single Parents (Abc, 2018-) e alla ripartenza di Will and Grace (Nbc, 1998-2006; 2017-), per fare solo qualche esempio, la narrazione diegetica si arricchisce e si completa di materia extradiegetica, di squarci subitanei o di evoluzioni sottotraccia che collocano la sitcom in un qui e ora del tutto reale. Da una parte, così, alcune battute dei personaggi strizzano l’occhio alle notizie del giorno prima, all’attualità politica o sociale, alle mode culturali, ai successi cinematografici, televisivi e mediali veri, condivisi con gli spettatori. La risata nasce dal trovarsi in un attimo sbalzati fuori dal mondo narrativo, dalle “unghie sulla lavagna” di una plausibile incongruenza, dall’innestarsi improvviso di una realtà collettiva. Dall’altra parte, questioni più ampie, sociali e politiche, si inseriscono più o meno consapevolmente, trasfigurate, nelle relazioni tra i personaggi e nelle situazioni che affrontano: dalle “nuove famiglie” ai lavori sotto il salario minimo, dalla sicurezza nei contesti urbani all’educazione superiore, dall’immigrazione alle dipendenze. Si tratta del rinnovarsi di una lunga tradizione, che ha fatto sì che per decenni (e tuttora) lo sguardo della sitcom fosse ritenuto troppo progressista dai conservatori e troppo moderato dagli attivisti liberal, componendo però in un sorriso le tensioni di un mondo reale addolcito, ma ben presente, in un racconto verosimile. Su entrambi i versanti, questa aderenza a quanto accade fuori nasce da un modello produttivo che ha tempi di scrittura e realizzazione molto più rapidi del drama, e una flessibilità forse meno “artistica” ma di indubbia efficacia; come da una modalità distributiva che, settimana dopo settimana, per molti anni, si intreccia con i ritmi quotidiani e stagionali degli spettatori, punteggia la vita quotidiana del pubblico.

Una seconda traiettoria, che con strumenti opposti arriva però a risultati simili, è quella percorsa invece da molta comedy statunitense contemporanea, sulle reti via cavo (da Hbo a Fx) come sulle piattaforme on demand (a partire da Netflix). A livello formale, nulla è più distante dalla sitcom “classica”: ambienti reali, riprese sporche, modello cinematografico della single camera, il ruolo forte di comici che sono pure autori, attori, protagonisti in una specie di one-man-show narrativo. Solo la durata resta di mezz’ora. Si pensi per esempio a Louie (Fx, 2010-2015) dell’antesignano Louis C.K., ora caduto in disgrazia, a Master of None di Aziz Anzari (Netflix, 2015-2017), all’Atlanta descritta da Donald Glover (Fx, 2016-) o ancora allo sguardo di Pamela Adlon in Better Things (Fx, 2016-). Una comicità più aspra, tipica della stand-up comedy, si mescola all’imbarazzo (awkward), allo straniamento, a una certa surrealtà, mentre spesso si passa senza soluzione di continuità (anche) a tonalità drammatiche, a un incedere documentaristico. Ma è proprio qui, però, che torna prepotente la realtà. Con la voluta confusione tra persona e performer. Con la descrizione sfrontata, senza belletti, aderente alle esperienze di molti, delle inezie del quotidiano, dei rapporti familiari, sentimentali, sessuali, delle complessità della vita adulta. Con racconti che cominciano spesso in medias res, che cambiano fuoco più volte dentro uno stesso episodio, che mettono insieme dei lacerti scollegati, veri o verosimili, senza più nemmeno porsi il problema, o la necessità, di una storia. Le risate di sottofondo spariscono, ma resta – e talora si rafforza – una visione anche “politica” sulla realtà contemporanea americana, sul centro e sui margini, sull’identità in divenire e su una società che cambia, in una lettura tendenzialmente progressista che può (talvolta) diventare un invito ad agire, o a provarci.

Che sia inserendola nella rodata macchina produttiva e narrativa della sitcom o invece presentandone dei frammenti (apparentemente) grezzi nei titoli più autoriali, sta di fatto però che la comedy americana non si tira mai indietro da un dialogo fitto con la realtà. Anzi, spesso è diventata lo spazio privilegiato per elaborare i cambiamenti politici e sociali o per scontrarsi con le cruciali minuzie della vita di tutti i giorni. Se comparata alla situazione italiana, emerge in tutta evidenza l’incapacità non soltanto di fare lo stesso, ma pure di avvicinarsi da lontano a un’analoga comprensione e rielaborazione del nostro reale. La sitcom nazionale, nonostante ripetuti tentativi, non ha mai attecchito davvero; la comedy si è adagiata sulla riproposizione del varietà e del cabaret, senza diventare una forma espressiva matura, salvo poche eccezioni (Boris?) e nonostante alcuni comici molto bravi (Corrado Guzzanti, Antonio Albanese). Forse il problema dell’Italia con una serialità televisiva che possa far ridere sta tutto qui: nell’incapacità di dare valore e rilievo a generi come questi, considerati bassi e quindi poco importanti; e, causa e conseguenza insieme, nella rinuncia, o comunque nella sottovalutazione, di quel fondo di realtà che per forza deve stare alla base di ogni racconto comico, in modo che il valore e rilievo negati se li possa prendere.

Riferimenti bibliografici
D. Marc, Comic Visions. Television Comedy and American Culture, Blackwell, Malden (Ma) 1997, II ed.
B. Mills, The Sitcom, Edinburgh University Press, Edinburgh 2009.
C. Tryon, Political Tv. Informazione e satira, da Obama a Trump, minimum fax, Roma 2018.