Avevo cominciato ad avere dei pensieri paranoidi. E se al posto del cervello avessi un computer e i tecnici mi avessero mostrato le immagini di qualcun altro per proteggermi dallo shock che questa scoperta mi avrebbe procurato? Era molto inquietante pensare che quella roba misteriosa che dicevano essere il mio cervello fosse stipata all’interno del mio cranio. Se il mio cranio diventasse improvvisamente trasparente, rendendo il mio cervello visibile all’esterno, non uscirei più di casa (Ishiguro 2024, pp. 58-59).

Sembrano parole tratte da un racconto di weird fiction, dalla crudele immaginazione di uno scrittore che, per intimorire il proprio pubblico, arriva a toccare le corde più intime dell’animo umano: il senso di straniamento di fronte al mondo e a chi lo abita, dell’improvvisa incapacità di distinguere tra dentro e fuori, noto e ignoto. La psichiatria parla in questi casi di disturbo di derealizzazione, della folgorante sensazione di distacco dal proprio corpo, dai propri processi mentali o dall’ambiente circostante. Una realtà familiare, dalle coordinate note, si rivela a un tratto completamente estranea, come se quanto vi sia di più alieno al mondo non provenisse da uno spazio sideralmente distante da noi, ma dall’immediato nudo e crudo, dall’«istante raggelato in cui si vede quello che c’è sulla punta della forchetta», per dirla con una celebre immagine di William Burroughs (2001, p. 239).

Nei casi di derealizzazione estrema, è lo stesso filtro attraverso cui siamo soliti percepire e riconoscere la realtà come tale, e cioè il nostro io, a imporsi come la prima e più potente delle fonti di alienazione. Dalla psicoanalisi in poi, ci siamo dovuti rassegnare all’idea che l’io non è padrone in casa propria, che la nostra tendenza a percepire noi stessi e ciò che ci circonda come delle presenze stabili e familiari sia frutto di un meccanismo di difesa che ci protegge dall’incontro traumatico con un’estraneità minacciosa, indomabile e ciononostante intima. Freud, si sa, battezzò questo senso di straniamento con il nome di perturbante, riprendendolo da un fortunato studio dello psichiatra tedesco Ernst Jentsch. Ciò che forse è meno noto, tuttavia, è che negli ultimi decenni un simile concetto abbia trovato terreno fertile nel più insospettabile degli ambiti, la robotica. Il nesso tra psicologia e robotica è molto più saldo di quanto ci suggerisca il senso comune. Uno dei primi cervelli artificiali ad aver superato il test di Turing è stato Parry, un programma del MIT che simulava i processi mentali di un paranoico. Analogamente, e per diverso tempo, la personalità schizoide è stata descritta come un essere umano che pensa come una macchina.

La teoria dell’Uncanny Valley proposta dall’ingegnere Masahiro Mori nel 1970 ha trasferito una volta per tutte il dibattito sull’interazione uomo-macchina dall’ambito della psicopatologia a quello della psicologia del quotidiano (cfr. Reichardt 1978). Il contatto prolungato tra un essere umano e un robot antropomorfo (e cioè un androide), sostiene Mori, dà luogo a due distinte eppure puntuali risposte. In un primo momento, le persone proveranno un senso di familiarità e piacevolezza nei confronti della macchina che è direttamente proporzionale alla sua somiglianza con la figura umana. La progressiva interazione con l’androide nutre la nostra empatia, ci fa percepire la macchina come un essere dotato di sentimenti e pensieri propri, un’autocoscienza in grado di provare piacere e dolore, gioia e tormento. Peccato che, se protratta oltre un certo periodo di tempo, questa convivenza raggiunge un punto critico in cui l’empatia sfocia nel turbamento e il senso di familiarità si rovescia in inquietudine e repulsione.

D’un tratto, il nostro simile, proprio perché non del tutto identico a noi, si rivela un mostro, un incubo da cui la nostra specie deve tenersi alla larga.  L’Uncanny Valley è la porzione grigia che separa ciò che è simile all’umano da ciò che è del tutto umano, il limite angoscioso tra ‘noi’ e ‘loro’ di cui ci rendiamo conto solo una volta che lo abbiamo oltrepassato. Il quasi umano, in altre parole, ci fa molto più paura di qualsiasi entità non umana. Le indagini del blade runner Rick Deckard, protagonista del visionario Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick, possono essere intese come il più puntuale precursore letterario dell’Uncanny Valley di Mori: qual è il criterio esatto per distinguere il quasi umano (gli androidi) dal totalmente umano (le persone in carne e ossa)? O, ribaltando la prospettiva, qual è il tratto che definisce l’umano in quanto tale?

Come ha a modo suo anticipato Dick, forse, le attuali impasse dell’ingegneria robotica non sono dovute a un limite tecnologico, quanto piuttosto antropologico: costruire un androide non significa replicare punto per punto l’umano ma, semmai, interrogarsi su cosa significhi esattamente essere umani. Le parole pronunciate in esergo sono di Hiroshi Ishiguro, docente di Intelligenza Artificiale all’Università di Osaka, nonché luminare della robotica umanoide. Le troviamo nel suo saggio ibrido Come costruire un essere umano, recentemente pubblicato da Wudz Edizioni. Era il 2005. Ishiguro stava progettando Geminoid, l’androide che di lì a poco lo avrebbe reso famoso in tutto il mondo. L’obiettivo era di modellare il robot sulla sua stessa persona, così che fosse in grado di riprodurre con la massima precisione anche i movimenti più fini (degli occhi, delle labbra), quelli stessi movimenti che, a suo dire, sfuggono in un primo momento alla percezione umana e che tuttavia producono successivamente il senso di straniamento tipico dell’Uncanny Valley.

Geminoid non era il primo androide realizzato da Ishiguro. Anni prima, aveva progettato il Repliee R1, che ricalcava l’aspetto di sua figlia. Poco dopo, all’Expo del 2005, aveva presentato il Repliee Q2, un androide dalle sembianze di una donna adulta, in grado di riconoscere le persone e intrattenere con loro brevi conversazioni. Il punto di svolta, nella carriera di Ishiguro come nel progresso nella robotica, è arrivato quando lo scienziato giapponese ha smesso di considerare l’umano un’essenza fissa, un attributo già noto, per chiedersi cosa significhi veramente essere umani. Ovvero: nel momento in cui le sue ricerche hanno smesso di concentrarsi sugli androidi (come rendere un androide simile a un essere umano) per rivolgersi alla struttura dell’essere umano in quanto tale (qual è la caratteristica minima, essenziale, che ci rende ciò che siamo?).

Per costruire Geminoid, Ishiguro ha messo a punto una serie di capillari “fasi preparatorie”, come si dice nel gergo dell’ingegneria robotica. Prima si è fatto scattare numerose fotografie da ogni angolazione possibile, sia in piedi che da seduto. Dopodiché si è sottoposto a una lunga sequenza di risonanze magnetiche, da cui ha ricavato una fedele riproduzione dell’interno del suo corpo. Il confronto con la propria immagine esterna è stato curioso: di rado siamo abituati a osservare la nostra corporatura in maniera così obiettiva, da prospettive che neanche lo specchio è in grado di cogliere. Le ricerche su Geminoid hanno infatti rivelato che, mentre tendiamo a identificarci molto più facilmente con la nostra immagine allo specchio, le persone intorno a noi fanno esattamente il contrario: le nostre foto sembrano loro più autentiche del nostro riflesso speculare. Esiste insomma un divario insuperabile tra «l’immagine che abbiamo di noi e la percezione degli altri» (Ishiguro 2024, p. 65). L’io che crediamo di essere non è lo stesso che vedono gli altri.

A essere ancor più bizzarro, nota tuttavia Ishiguro, è stato il confronto con la struttura interna dell’organismo, con quella massa di organi e tessuti così nascosta e separata dal controllo cosciente che, una volta portata alla luce, «quasi non sembra più umana» (ivi, p. 60). È in questa circostanza che, di fronte all’immagine dell’interno del suo cranio, Ishiguro ha avuto una folgorazione: se non erano né la sua immagine esterna né la scansione interna dei suoi organi a fornirgli la sensazione di essere un “io”, allora cosa lo era veramente? Un momento prima di precipitare nella paranoia, quell’effimera folgorazione si è trasformata in certezza. Sarebbe stato l’androide ad aiutarlo a «capire meglio il genere umano» (ivi, p. 9), e non il contrario. La costruzione del robot avrebbe dovuto seguire di pari passo la circoscrizione dell’essenza dell’umano. La robotica, un po’ come la psicoanalisi, è un’arte del togliere invece che del porre, il suo segreto non è nella progressiva accumulazione di saperi, competenze, tecnologie, quanto nella massima riduzione possibile del suo oggetto di ricerca a una variabile ancora da definire.

Questo tentativo di stanare l’essenza dell’umano si è concretizzato nella coppia di androidi successiva a Geminoid, e cioè Telenoid (2009) e Hugvie (2012). Il primo è un robot dalla «forma umana minimale» (ivi, p. 187), un androide che riproduce soltanto le caratteristiche essenziali del suo modello: se lo guardate negli occhi, le estremità del volto sembrano svanire. Man mano che sostenete il suo sguardo, braccia e gambe si disperdono ai confini del campo visivo. Il volto è simmetrico, androgino, tanto che è impossibile attribuirgli un’età precisa. Manca anche di qualsiasi espressione, caratteristica messa a punto per stimolare l’immaginazione del suo interlocutore. Il secondo, Hugvie, porta allo stremo le caratteristiche del suo predecessore: è una specie di Telenoid, ma ridotto alla forma di un cuscino che, esasperando la simulazione del senso tattile e dell’odore degli esseri umani, è in grado di riprodurre fedelmente la sensazione di un abbraccio. È l’esempio perfetto di come la robotica non cerchi più di riprodurre i tratti e le caratteristiche superficiali della figura umana né la sua struttura interna, quanto piuttosto le “modalità” interattive essenziali attraverso cui siamo portati a riconoscere l’altro – e noi stessi – come nostro simile.

Oggi il Giappone produce circa il 70% dei robot nel mondo. La definizione di robot di Ishiguro («qualsiasi cosa che utilizzi sensori di rilevamento dell’ambiente» e possieda capacità decisionali) ci suggerisce che viviamo già in una società robotica: dalle aspirapolveri robotizzati (Roomba) ai robot da cucina (Thermomix), fino agli assistenti per anziani e disabili ai robot domestici per la cura del giardino o per educare e intrattenere i membri della famiglia. Negli ospedali più all’avanguardia, grazie a delle macchine radiocomandate via joystick, gli specialisti possono supervisionare alcuni interventi chirurgici mentre si trovano dall’altra parte del pianeta (ivi, p. 32).

Nel frattempo, la tecnologia ci ha permesso di superare molti dei nostri vincoli fisici e, così facendo, di alterare il modo in cui siamo soliti pensare l’umano. Le protesi e gli impianti ci consentono di sostituire facilmente un arto compromesso. Ci siamo abituati all’idea che una persona le cui parti del corpo sono state rimpiazzate da dispositivi meccanici non sia meno umana di un’altra. Ci stiamo abituando sempre di più all’idea che non è la nostra fisicità a definire ciò che siamo. E man mano che la robotica ha preso in carico funzioni precedentemente limitate alla struttura del nostro corpo, quest’ultime sono divenute obsolete, componenti superflue che non esauriscono la definizione essenziale di ciò che è strettamente umano e di ciò che non lo è. Secondo Freud, nel corso dei secoli la scienza avrebbe inferto tre mortificazioni cruciali all’antropocentrismo. Il decentramento del pianeta Terra dall’universo (Copernico), quello della specie umana dall’apice della creazione (Darwin), quello della coscienza dall’inconscio (la psicoanalisi). Probabilmente, l’ingegneria robotica si sta preparando ad infliggerci una quarta mortificazione: a mostrarci che, se l’essenza dell’umano continua a sfuggirci, è perché forse ci ostiniamo a puntare troppo in alto, a sopravvalutare la concezione che abbiamo di noi stessi e della nostra specie.

Fino a Ishiguro, la scienza aveva proiettato negli androidi una versione idealizzata dell’umano. Se la macchina è speciale, potremmo dire, è perché è la nostra specie a essere speciale. Per Ishiguro, questo ragionamento è viziato da un errore di prospettiva, dal fatto che tendiamo a provare «ammirazione per gli esseri che in qualche modo ci superano», e cioè a proiettare in essi caratteristiche che in realtà non possediamo. Il nostro rapporto a dir poco ambivalente nei confronti delle intelligenze artificiali ne è un curioso esempio. Peccato che «questo eccedere», lungi dall’avvicinarci all’obiettivo, si stia rivelando giorno dopo giorno il principale «ostacolo» per «comprendere l’essenza del genere umano» (ivi, p.216).

Riferimenti bibliografici
W. S. Burroughs, Il pasto nudo, Adelphi, Milano 2001.
J. Reichardt, Robots: Fact, Fiction and Prediction, Thames & Hudson, London 1978.

Hiroshi Ishiguro, Come costruire un essere umano, Wudz Edizioni, Milano 2024.

Tags     androide, robotica, umano
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