What kind of knowledge would you have to have,
what kind of event would have to occur
till you finally say “I’m done?”.
That’s the problem.
Eric Olson
Wormwood – la nuova miniserie di Errol Morris disponibile su Netflix –è un’indagine su una misteriosa morte avvenuta 65 anni prima, quella dello scienziato Frank Olson, e di una vita, del figlio Eric, che ora ha la stessa età. Poco più, in realtà, perché quando suo padre morì, Eric aveva otto anni. Da quel momento, quel lutto originario, piuttosto che essere incorporato o rifiutato, ha preso a ingrandirsi in lui come un parassita fino ad assorbirlo completamente.
La vicenda Olson è materia pubblica negli Stati Uniti. Il biochimico, che lavorava in un laboratorio batteriologico della CIA, nel 1953 fu trovato sul marciapiede di New York, tredici piani sotto la finestra della sua camera d’albergo. La versione della polizia fu che si era “gettato”, oppure “tuffato”. Più tardi, nel 1975, quando la famiglia fu invitata alla Casa Bianca a ricevere le scuse, generiche, del presidente Ford, la CIA ammise di aver fatto esperimenti con l’LSD, come una sorta di “test di fiducia” dello scienziato volto a capire quanto fosse incline a parlare di ciò di cui non doveva, anche in situazioni estreme. Test che aveva avuto lo spiacevole effetto di provocare il suicidio di Frank, o la sua “caduta”. Ma nessuna di quelle parole usate per descriverne la morte fu mai accettata da Eric. Continuò a interrogarsi sulla loro semantica, tentando di integrarle con lo spazio di quella stanza newyorchese, la cui immagine divenne il luogo mentale dove provare ad abitare per dare senso a tutto il resto. Ci trascorse anche una notte, insonne; si trattava pur sempre di un albergo, ambiente poco domesticabile.
Il rilievo pubblico che assunse la rivelazione serviva a nascondere un segreto supplementare, ovvero l’ipotesi, assunta fin dall’inizio della serie da Eric e da Morris, dell’omicidio perpetrato dalla stessa Agenzia. Ed è contro questo sistema di segreti, che si basa sull’opposizione di politiche pubbliche e stati di eccezione soggiacenti (il paradosso di chi agisce contro la democrazia per preservarla), che Eric passa la sua vita a lottare. La forma che prende la sua resistenza, e anche la forma della serie, è quella del collage. Quando conseguì il suo PhD ad Harvard, egli elaborò un metodo terapeutico fondato sulle immagini inteso significativamente a tramutare l’esperienza frammentaria del disorientamento in un processo di sviluppo personale. Come spiega sul suo sito, il collage si fonda sulla figura della spirale, che permette di passare e ripassare dagli stessi punti, per integrarli gradualmente. Qui la sovrapposizione d’immagini non serve a coprire, ma ad attivare il processo di rappresentazione. Un metodo che applicò soprattutto a se stesso, come capiamo dalle immagini che lo mostrano sfogliare enormi pagine di collage. Lo shock originario che lo abita, non accessibile direttamente, viene richiamato alla memoria tramite una serie di suggestioni, in quella che appare come una pseudo-terapia d’esposizione costante.
Il procedimento si riflette nella forma filmica: l’esposizione è infatti anche quella cui è sottoposto Eric. Le interviste che lo vedono protagonista sono particolarissime. Con taglio analitico, le immagini sono assemblate e ripetute sia sul piano della simultaneità – grazie ai dieci punti di vista predisposti da Morris – sia sul piano della ripetizione temporale di momenti salienti. A questo si aggiunge un vertiginoso collage di una quantità di documenti d’archivio (la cui difficoltà nel reperirli è stata di 9.3/10, a detta del regista) come foto d’epoca, filmini della famiglia Olson, ritagli di giornale, cinegiornali, spezzoni televisivi, registrazioni audio, carte burocratiche (come il manuale dell’assassinio della CIA reso pubblico nel 1997, dove si parla della “caduta” come del metodo più efficace). Quando una storia non viene ufficializzata da una narrazione condivisa, restano i frammenti. Da ciò la necessità di proporre ipotesi anche forti, ma sempre legate a testimonianze, che per quanto azzardate e senza garanzie, provano a saltare la staccionata arrugginita di una verità claudicante. Ecco quindi che trova un grande spazio il reenactement, che non risparmia sull’inventività della messa in scena, con Peter Sarsgaard a recitare gli assurdi episodi della morte di Frank Olson.
Le immagini più sorprendenti però sono quelle cinematografiche integrate nel collage, che colpiscono per la loro agency. Martin Lutero (Pichel, 1953), per esempio, visto dalla famiglia Olson il giorno precedente alla scomparsa di Frank, avrebbe, secondo Eric, influenzato la decisione dello scienziato di agire secondo coscienza e tentare di abbandonare lo sviluppo batteriologico, i cui effetti militari aveva visto all’opera in un viaggio all’estero dello stesso anno. Ma il riferimento più significativo è quello ad Amleto di Laurence Olivier (1948), vera linea guida dell’autorappresentazione di Eric. Amleto è infatti il prototipo dell’investigatore coinvolto, legato al padre al punto da portarne lo stesso nome. L’ossessione di Eric, infatti, appare dall’esterno sempre più come un delirio, simile tanto a quello amletico quanto all’intossicazione lisergica del padre, entrambi supposti o reali.
Le immagini quindi, chiamate a sopperire all’insoddisfazione semantica di un discorso pubblico. Il sentimento di distacco che descrive all’inizio, di scollamento dal senso, si traduce in un percorso potenzialmente infinito, che corrisponde all’interezza della sua vita. Quando fermare l’indagine? Si chiede Eric: “questo è il problema”. Quest’esperienza sarà davvero vissuta in quanto il risultato sarà, più che una maggiore conoscenza, una migliore riformulazione linguistica delle domande giuste. Troppo tardi per i testimoni, che saranno tutti morti; eppure ancora una persona conosce la verità. A quel punto però ci si scontra con quei paradossi a fondamento della società di cui si diceva prima, i quali, prima della giustizia, lavorano solo sulla fiducia e il sacrificio. È il caso di Seymour Hersh, emblema dell’inchiesta giornalistica, il quale sa, ma, per quanto sia riconosciuto professionalmente, non può tuttavia raccontare la vera storia senza compromettere la sua fonte, che oltretutto gli ha parlato per pura amicizia! Un’impasse: la verità non si perde in un labirinto relativistico, c’è. Solo, nessuno può provarla senza rischiare.
È questa l’amarezza a cui allude il titolo, che fa da allegoria esterna alla vicenda, seppur con molteplici ingressi. Wormwood: “assenzio”, è una misteriosa stella biblica, e un’erba velenosa, che cadde nelle acque e le rese amare (Ap 8,10). Così, la caduta dalla finestra dell’Hotel Statler (che vediamo al ralenti nel titolo d’apertura, tra i migliori dell’anno passato secondo Art Of The Title), tra avvelenamenti batteriologici dell’aria o delle informazioni, lascia tutto amaro, ma esibisce un interessante viaggio epistemologico, nell’intercapedine tra il conoscere e il conoscersi.