Durante le prime settimane dell’emergenza sanitaria e del progressivo lockdown che ha chiuso in casa larga parte degli italiani, scorrendo la timeline di Twitter – nelle pieghe della “bolla” delle persone che seguo, tra i commenti di chi ha avuto modo di conoscerlo o di essergli amico – più di una volta si sono affacciate considerazioni su cosa Mattia Torre avrebbe potuto scrivere di tutto questo. Come avrebbe saputo raccontare la quarantena, ironizzare sul distanziamento sociale, riflettere sull’isolamento forzato. Per quanto meno intensa delle altre due, era la terza volta in pochi mesi che si veniva a creare questa specie di sentire comune, questo ricordo commosso e venato di rimpianto: già era successo intorno al 19 luglio 2019, quando Torre è morto, dopo una lunga malattia, a soli 47 anni; e poi di nuovo a gennaio 2020, quando è uscito nelle sale ed è stato promosso il film postumo, Figli (Bonito, 2020), portato a termine da Giuseppe Bonito, con Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea. Certo poteva essere il consueto tendere all’agiografia di fronte alla morte di qualcuno, specie se prematura, luogo comune intorno a cui proprio Torre aveva già ironizzato; e certo la prima reazione a un coro tanto unanime poteva essere una qualche diffidenza, un più o meno velato sospetto di consorteria; ma non era soltanto questo, anzi. Accanto alle qualità della persona, emergeva chiara la figura – più trasversale – di un autore, una voce originale.
Se già di fronte all’etichetta di “autore” si può storcere il naso, figuriamoci se le si avvicina pure un altro aggettivo, “comico”, che spesso finisce per istituire gerarchie più o meno consapevoli, e per collocare la risata in secondo piano rispetto alla scrittura seria: più futile, (apparentemente) più facile, destinata a scorrere via dopo un attimo di gloria senza quasi lasciare traccia. Ma è proprio su queste due polarità, lo statuto di autore e la comicità, che si è costruita la carriera, e la grandezza, di Mattia Torre. Un profilo ricco, stratificato, pieno di sfaccettature, e soprattutto sempre capace di sporcarsi le mani, di affrontare luoghi ed esperienze differenti, tracciando una traiettoria chiara ma molteplice: vale per le sue costanti incursioni teatrali, spesso off, o per la regia cinematografica, agli esordi e negli ultimi anni (fino a Ogni maledetto Natale, 2014); ma vale soprattutto per la televisione, o meglio per vari generi televisivi, con la palestra della sitcom all’italiana (Baldini e Simoni, Raidue, 1999; Love Bugs, Italia 1, 2004-07), il varietà comico (con Paola Cortellesi, Serena Dandini, Virginia Raffaele) e le sue contaminazioni con il talk di tarda sera (Parla con me, Raitre, 2004-11), e ancora la comedy più ricercata (Buttafuori, Raitre, 2006; Dov’è Mario, Sky Atlantic, 2016, con Corrado Guzzanti).
Torre si mette alla prova, sperimenta, mescola. E passo dopo passo sviluppa un punto di vista preciso, uno sguardo originale e distintivo, che si serve delle parole (anche, soprattutto televisive) come leva per comprendere meglio se stessi e il mondo, e come pungolo per analizzare l’italianità, i pochi pregi e i molti difetti di chi ci circonda. Come scrive lui stesso nei ringraziamenti in coda alla raccolta dei suoi atti unici, In mezzo al mare, «la scrittura trae energia proprio dalla pesantezza del Paese, in opposizione alla comicità volgare imperante, alla televisione totalizzante, alla grande generale bruttezza». Provare a fare altro, ma farlo nello stesso posto.
In questi mesi sospesi, recuperare in binge il lavoro di Mattia Torre, e soprattutto i due titoli forse più noti, e certo più importanti, della sua produzione televisiva, consente di capire bene quanto – in modo inaspettato, e per certi versi feroce – questo lavoro risuoni nel nostro contemporaneo, e quanto ci aiuti a leggerlo e capirlo. Prendiamo le tre stagioni di Boris (Fox, 2007-2010), scritto da Torre con Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, cui si aggiunge la sortita cinematografica di Boris. Il film (Torre, Vendruscolo e Ciarrapico, 2011). Tanto è stato detto e scritto su questa serie umoristica e satirica (Pezzini 2008, Innocenti 2013, Barra 2020, pp. 128-131): il racconto della vita sul set di una fiction molto tradizionale, Gli occhi del cuore 2; lo sguardo meta-testuale sul mondo della tv italiana; la comicità scorretta e venata di sarcasmo, le frasi fatte entrate nel linguaggio di più di una generazione, i tanti personaggi memorabili anche quando minori.
Le prime due stagioni si concentrano sulla macchina produttiva, letta dalla prospettiva dello stagista Alessandro, raccontando scena e retroscena, i rapporti con la rete, le ambizioni di qualità sempre frustrate, con la tv che descrive se stessa senza sconti (e, giocandoci su, apre il sentiero verso una fiction rinnovata). Ma è la terza stagione che, a distanza di tempo, forse più di tutte colpisce, anche costringendo a riformulare il giudizio diffuso che, subito, l’aveva vista meno a fuoco, ambiziosa ma pasticciata. Pur proseguendo il filone e anzi allargando i suoi obiettivi polemici nel campo televisivo (con la presa in giro della sitcom all’italiana e dei pastrocchi che inseguono e copiano le mode statunitensi), la terza annata ha adottato anche una chiave diversa, diventando, ora sottotraccia e ora, in modo esplicito, una serie più fieramente e apertamente politica, in cui il mondo fatto di pigri e incapaci si estende dal set a tutto il Paese. Ed è proprio questo a renderla sorprendente, persino in quarantena, a dieci anni di distanza.
Due momenti, tra i tanti, sono particolarmente indicativi. Si prenda l’episodio otto (3×08, Buona festa del grazie), in cui i tre pigrissimi sceneggiatori copiano malamente dalle serie americane inventandosi una festa italiana inesistente, basata sul Ringraziamento americano, e poi dirottata sulle celebrazioni per la Repubblica, con tanto di piatto tipico, le quaglie. Stanis, il medico protagonista della fiction, recita sul set questa battuta: «Pronto? Come un’epidemia? Dalla Corea? Per colpa delle quaglie?». René Ferretti, il regista, annuncia lo stop, e parte un piccolo diverbio, con l’attore che propone alternative: «Ne facciamo un’altra? Vorrei dire “pandemia” al posto di “epidemia”, è più bello, è più forte! È più… è più attuale».
L’assistente alla regia, Arianna, precisa che «poi “pandemia” vuol dire un’altra cosa» e la scena si chiude. Ma, al di là dell’innegabile coincidenza, quanta dell’approssimazione rispetto a questioni specialistiche, quanto del sospetto rispetto all’Estremo Oriente sono già lì, fissati alla fine di una puntata? (En passant, si può notare che la serie a cui lavorano sul set, Medical Dimension, ha più di una consonanza con DOC. Nelle tue mani, la fiction Lux Vide con Luca Argentero che ha esordito in quarantena, con ottimi ascolti). O si può rivedere l’apertura dell’ultima puntata della serie (3×14, Ritorno al futuro. Seconda parte), quando uno sceneggiatore particolarmente ispirato si lancia in un monologo sul futuro:
Sceneggiatore: “Renato, svegliati! Serve un qualche cazzo di futuro!”
René: “No, guarda… ci sono già cascato nel futuro, eh? Non mi fido nel futuro!”
Sceneggiatore: “Ma non il futuro di Medical Dimension, che è una gran cazzata, io parlo della locura, René, la locura […]: il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, di colore, di paillette […]. Sono cattolico, ma sono giovane e vitale perché mi divertono le minchiate del sabato sera. È vero o no? […] Questa è l’Italia del futuro: un Paese di musichette, mentre fuori c’è la morte!”
Si parla di scrittura della fiction italiana, certo, e del ritorno a modelli classici dopo che la modernità si è rivelata ben oltre la portata di quanto il pubblico, la rete, gli stessi professionisti potevano accettare. Ma si parla anche dell’eterno ritorno dell’uguale, del belletto superficiale che (allora come oggi) nasconde la fissità, il conservatorismo. E forse mai come adesso l’Italia è stata, letteralmente, nei telegiornali, nei talk, nell’intero sistema dei media nazionale, «un Paese di musichette, mentre fuori c’è la morte».
Tra i recuperi che assumono una luce nuova si può aggiungere poi uno tra gli ultimi progetti individuali di Torre, le otto puntate de La linea verticale (Raitre, 2018), in cui l’esperienza personale di malato di cancro è trasfigurata nella storia del protagonista Luigi, quarantenne con moglie, bambina e altro figlio in arrivo, ricoverato in ospedale e inserito in una piccola comunità fatta di medici e altri malati, parenti e infermieri, rituali di cui sfuggono i contorni e leggende, riflessioni amare e ricerca di sollievo. La linea verticale del titolo indica la necessità di restare in piedi e al tempo stesso equilibrato, in asse. E proprio in settimane in cui la “prima linea” dei dottori e degli ospedali è quanto mai al centro dell’attenzione, anche l’esperienza del malato, dell’uomo solo e slegato dai suoi affetti, acquista strati ulteriori di senso.
Di episodio in episodio, si susseguono i commenti sull’isolamento – «puoi avere tutti gli amici del mondo, la famiglia più calorosa e amorevole, i colleghi di lavoro più premurosi e attenti, ma quando sei in ospedale, sei solo, con i tuoi sintomi e i tuoi pensieri» –, sulla necessità di resistere – «[la resilienza] è anche la capacità di far fronte in maniera positiva alle cose brutte, agli eventi traumatici, è la capacità di riorganizzare la propria vita di fronte alle difficoltà, qualsiasi esse siano, e di ricostruirsi […]. Fronteggi le contrarietà, rimani positivo e ottieni sempre tutto quello che vuoi, ricordatelo» –, sui funerali – «[con aneddoti] anche divertenti, che uniscano cioè allo strazio quella nota comica che rende il dolore ancora più insopportabile […] e infatti tutti piangono a dirotto» –, sull’ossessione nazionale per cibo e cucina – «noi viviamo per il cibo, noi pensiamo cibo, noi parliamo di cibo a tavola e quando siamo al ristorante parliamo di altri ristoranti. Noi abbiamo fatto del cibo la nostra bandiera, il cibo è il nostro anestetico contro la cattiva politica, contro la cattiva cultura, contro il cattivo esempio di chi ci precede» –, sui mali endemici del Paese – «l’Italia ti comunica che tutto potrebbe essere magnifico, ti comunica l’idea che le cose in passato forse a un certo punto sono andate diversamente, ma ineluttabilmente poi siamo arrivati fino a qui, e ora tu puoi sognare che tutto sia diverso».
I dialoghi di Mattia Torre sono la migliore guida per il tempo presente, grazie alla lucidità che sotto alla patina del comico rivela le magagne della società e le brutture di ciascuno di noi, unendovi però anche una nota di speranza: «Ascoltami, c’è il terrorismo là fuori, cambiamenti climatici, insopportabili diseguaglianze economiche e sociali, terremoti, tsunami, guerre, giganteschi flussi migratori, incertezza sul futuro, crisi, disoccupazione, e pure qui in reparto stanno sempre tutti male e io ti chiedo solo un bacio», come dice un medico alla bella infermiera.
Rivedere Boris e La linea verticale nelle settimane di epidemia (anzi, stavolta ha ragione Stanis, pandemia), leggere gli atti comici, recuperare frammenti di altre scritture, aiuta a capire meglio – tardi, come spesso accade – quanto Mattia Torre non sia solo un autore, un comico, un televisivo, ma anche già da subito un classico. Che resiste, anticipa, individua con ferocia i nervi scoperti e immutabili del nostro carattere. Perché, scriveva Calvino, «è classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno». Anche se lo fa con una risata.
Riferimenti bibliografici
L. Barra, La sitcom. Genere, evoluzione, prospettive, Carocci, Roma 2020.
I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991.
V. Innocenti, “Altro che Occhi del cuore. Boris”, in M. Scaglioni, L. Barra, a cura di, Tutta un’altra fiction. La serialità pay in Italia e nel mondo: il modello Sky, Carocci, Roma 2013.
I. Pezzini, “Uno sguardo trasversale sulla fiction italiana. Il caso Boris”, in M.P. Pozzato, G. Grignaffini (a cura di), Mondi seriali. Percorsi semiotici nella fiction, Link Ricerca, Milano 2008.
M. Torre, La linea verticale, Baldini & Castoldi, Milano 2017.
Id., In mezzo al mare. Sette atti comici, Mondadori, Milano 2019.