Ci sono gli esterni e ci sono gli interni: le facciate ottuse delle istituzioni inquadrate dal basso e le stanze rivestite di legno chiaro nelle quali si tengono discorsi importanti e fitte discussioni. È prima di tutto attraverso il montaggio alternato di questi due spazi che si sviluppa il racconto di City Hall (2020), il nuovo, lunghissimo, film del maestro del documentario Frederick Wiseman, presentato fuori concorso alla 77. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Un film anti-trumpiano lo ha definito il regista stesso durante la conferenza stampa di presentazione e in alcune interviste. E l’obiettivo di una recensione scritta poche ore dopo la visione del film è comprendere il perché e il percome di questa dichiarazione, di questa presa di posizione in un certo senso scontata.
In inglese, “city hall” significa municipio, dall’unione della parola città e di quella utilizzata per riferirsi tanto alle sale di un palazzo quanto all’atrio, all’ingresso. Anche in francese l’“hotel de ville” non è nient’altro che la sala del comune, lo spazio adibito ad accogliere e raccogliere corpi, istanze, opinioni… Qualcosa di simile accade nell’italiano municipio (dal lat. municipium, comp. di munia “doveri” e capĕre “assumere”), dove tuttavia l’etimo dà maggiore risalto alla componente deontica dell’istituzione che a quella spaziale. Ed è dunque nel tentativo di cogliere il rapporto tra l’interno del municipio di Boston e il fuori della città che prende corpo l’indagine di City Hall, quasi come se il film stesso (la sua architettura) potesse costituire una sorta di loggiato – né interno né esterno –, come se il cinema potesse compensare la carenza e la mancata interconnessione tra le diverse “piazze” o spazi pubblici nei quali avviene il confronto tra i cittadini di una grande città americana.
Come sempre, Wiseman osserva ciò che accade all’interno delle stanze dei bottoni. Entra laddove si decide la governance della città, indaga gli spazi e i tempi degli incontri tra i veterani di guerra che oscillano tra onnipotenza e senso di impotenza nei confronti della comunità, mostra le riunioni dell’apposita commissione municipale dedicata all’emergenza sfratti, porta la macchina da presa nei centri civici che si battono per i diritti delle minoranze. Ma a differenza di buona parte dei suoi capolavori dedicati a istituzioni come il Bridgewater State Hospital (Titicut Follies, 1976) o la New York Public Library (Ex Libris, 2017), in City Hall il racconto identifica il proprio baricentro in un personaggio che personifica la leadership: il sindaco democratico di Boston Marty Walsh. In alcune dichiarazioni, il regista ha del resto ammesso la propria stima nei confronti dell’uomo politico, palesando la convinzione che la città di Boston costituisca un modello di democrazia in un Paese alla deriva.
Qualcuno obbligato a scrivere una critica frettolosa potrebbe parlare di una caduta di stile o di una pecca di imparzialità, forse dovuta allo specifico legame del regista con la sua città natale o, magari, dettata dalla necessità di “prendere partito” in vista delle prossime elezioni presidenziali statunitensi. Ma, a ben vedere, neppure di fronte al lavoro della municipalità di Boston lo sguardo di Wiseman può dirsi embedded, organico, integrato negli assetti ideologici e retorici del discorso istituzionale e politico. Al contrario, proprio raccontando un mondo estremamente mediatizzato come quello della politica, Wiseman adotta degli accorgimenti registici espressamente mirati a sottrarre l’immagine al regime spettacolare di efficacia mediatica per restituirla al “comune”, per sottoporla alla prova di verità del confronto pubblico.
Che cos’è del resto un film documentario di quattro ore e mezzo – quasi interamente incentrato sulle discussioni decisionali e assembleari per la gestione di una città – se non un modo per forzarci a riflettere sugli spazi e i tempi del politico, sulle asimmetrie nella presa di parola e sulla difficile maturazione delle decisioni? Ma la temporalità espansa non costituisce l’unica forma di politicizzazione del racconto di City Hall. Fin dai primi minuti, fin dai primi meeting di decisori o assemblee di quartiere, la scelta delle inquadrature e del montaggio è mirata a interrompere la sintassi televisiva e l’immediatezza dello spot elettorale. Soprattutto negli spazi interni, si evita ogni utilizzo del totale, così come viene meno il (televisivamente) sistematico ricorso al campo e controcampo tra il leader e la folla di astanti. Nei suoi lunghi discorsi, il sindaco è spesso inquadrato lateralmente e quando intervengono stacchi di montaggio è per isolare porzioni della stanza, espressioni singolari e aggregazioni più o meno estemporanee.
In tutto il film, Donald Trump viene nominato diverse volte, per lo più in forma indiretta. A farlo sono gli amministratori stessi, alle prese con tagli e riforme – come quella riguardante gli sfratti – apportate dal Presidente nel corso degli ultimi anni. Devono trovare e adottare degli espedienti per non andare contro la legge e, al contempo, garantire solidarietà e giustizia ai cittadini. Come interpretare, allora, la dichiarazione di Wiseman e la ricorrenza di riferimenti all’attuale presidenza americana?
Se City Hall è un film anti-trumpiano non è tanto o soltanto perché racconta il lavoro di un’amministrazione democratica come quella di Boston. È piuttosto questo cinema, lo sguardo di quell’amante delle istituzioni che è Frederick Wiseman, a intrattenere una lotta, un corpo a corpo con l’ideologia conservatrice e autoritaria, con il discredito delle istituzioni pubbliche e delle forme di articolazione creativa ed estemporanea del comune, con lo svilimento del discorso mediatico che hanno caratterizzato la vita professionale e il mandato presidenziale di Trump.
Fino alla fine, continuiamo a guardare dal basso i grattacieli della città e ci sentiamo kafkianamente indifesi di fronte al peso e alle pretese dell’Istituzione. Ma è nuovamente – e fino alla fine – il montaggio tra il dentro e il fuori del Palazzo a garantire una messa in tensione del politico e dei suoi simboli, rendendo possibile una rigenerazione istituzionale. È forse in questo senso che vanno interpretate anche le immagini riguardanti la colonizzazione americana osservate all’interno di una sala pubblica (e già mostrate in altri film precedenti del regista), le statue religiose nel quartiere di North End e le diverse manifestazioni identitarie presenti nel film: se – negli USA come altrove – è giunto il tempo di rimuovere o spostare i monumenti di una violenza coloniale perpetrata ai danni di comunità tuttora emarginate all’interno della vita sociale, è anche possibile sottoporre l’arredo urbano a nuove forme di interpretazione e montaggio, fino a esplicitare che – benjaminianamente – i monumenti della cultura sono anche documenti della barbarie; quella barbarie sulla quale sono fondate e affondano le istituzioni stesse e attorno alla quale si pretende che possa “raccogliersi” – come in una “city hall” – una cittadinanza multietnica e molteplice.
È forse questo il tema principale del film: la necessità di intraprendere (e la complessità di sviluppare) processi di rigenerazione istituzionale, culturale e sociale, tanto operando rimozioni di vecchie pratiche anti egalitarie e razziste, quanto dando luogo a un’interrogazione e messa in tensione degli assetti valoriali e simbolici che hanno caratterizzato una città e un Paese. Quanto è certo è che il principale, imprescindibile modo per farlo resta il confronto, l’allargamento del campo e delle modalità di confronto. E quando, dopo quattro ore e mezza di dibattiti riguardanti la città di Boston, lo spettatore di City Hall sembra essere sopraffatto dalla stanchezza, è forse il momento più intenso, nel quale tornare a pensare – malgrado gli slogan elettorali si siano impossessati di tale idea – che la politica è passione, dialettica delle differenze e fatica, e non esistono scorciatoie.
City Hall. Regia: Frederick Wiseman; montaggio: Frederick Wiseman; produzione: Zipporah Films (Frederick Wiseman, Karen Konicek); origine: USA; durata: 275′.