Lanzmann e/o Spielberg: come interpretare questa barra che collega e scollega, unisce e divide, una congiunzione e un’opposizione? E come collocare i due cognomi, evidentemente ebrei, che rimandano al cinema senza rimandare a una stessa idea di regia o di film?
Prima opzione: Claude Lanzmann o Steven Spielberg, o l’uno o l’altro. Questione di scelta: Shoah o Schindler’s List, il documento o la finzione, la parola o l’immagine, la filosofia o l’arte, l’Europa o l’America. E anche, per chi sappia leggere la dialettica che lega l’occhio del Novecento all’altro occhio considerato cattivo, cinema versus televisione. Perché il big bang di tutto il dibattito sulla rappresentabilità dell’irrapresentabile – i campi di sterminio non solo come buco nero della storia del cinema (il paradossale rammarico di Godard) ma come l’assenza che costituisce “l’oggetto del secolo” (titolo del lanzmanniano Gérard Wajcman) – è costituito dalla miniserie Olocausto (Holocaust), diretta da Marvin J. Chomsky (reduce dal successo dell’altra saga Radici) e trasmessa dalla NBC nel 1978 in quattro puntate da due ore. Dall’apertura dei campi sono passati trentatre anni ed è la prima volta che un titolo si offre come definizione di ciò che per i nazisti era “la soluzione finale” e per gli storiografi lo “sterminio” (Poliakov 1951) o la “distruzione” degli ebrei (Hilberg 1961).
Elie Wiesel interviene sul “New York Times” del 16 aprile 1978 con un articolo intitolato Trivializing the Holocaust: Semi-Fact and Semi-Fiction, in cui accusa lo sceneggiato di trasformare «un problema ontologico in soap opera» (cit. in Gaetani 2006, p. 63). Claude Lanzmann – all’epoca già autore di Pourquoi Israel (1972) nonché amico e collaboratore di Sartre – interviene sul n. 395 di “Les Temps Modernes” (la rivista che Sartre ha chiamato come il capolavoro di Chaplin) con un saggio intitolato polemicamente De l’Holocauste à «Holocauste» ou comment s’en débarasser. Ma l’evento mediatico ha una tale risonanza negli Stati Uniti – e l’anno successivo in Germania, dove la destra fa di tutto per impedire la trasmissione, che supera i venti milioni di spettatori – che non è difficile vedervi l’opera di riferimento (anche se in negativo) per due operazioni autoriali complesse, che hanno lo stesso periodo di gestazione ed escono nello stesso anno 1985: appunto Shoah di Lanzmann, che con le sue nove ore supera le otto ore di Olocausto (mirando fra l’altro a sostituire il titolo, per determinare il lessico della storiografia a venire); e Heimat di Edgar Reitz, concepito anch’esso come miniserie televisiva che va in onda in undici puntate. Azione/reazione: l’industria culturale statunitense mette a tema la storia dell’Europa nazista, le cinematografie nazionali della Francia e della Germania rispondono con opere di respiro ancora più ampio; e nello stesso 1985 il governo inglese mette in circolazione – i tempi sono maturi – Memory of the camps, il documentario realizzato nel 1945 (con Hitchcock supervisore al montaggio) allo scopo di mostrare alla popolazione tedesca la realtà negata e rimossa del genocidio.
Nel 1985 Claude Lanzmann, ventenne l’anno in cui furono aperti e documentati i campi, ha sessant’anni: la sua vita d’intellettuale franco-giudeo è dunque racchiusa soprattutto nell’impresa di Shoah, che si presenta come l’unico film possibile sulla Shoah: il documento che sostituisce l’assenza d’immagini con la presenza delle testimonianze sui luoghi stessi degli eventi. Nel 1986 l’allievo e amico di Jean-Paul Sartre, essendo morta anche Simone de Beauvoir, prende in mano la rivista “Les Temps Modernes”, trasformandola in una macchina propagandista che interviene non solo a ribadire l’unicità del film sull’unicità dell’evento (non avrai altra Shoah all’infuori di Shoah) ma anche a distruggere criticamente tutte le altre opere sul tema, che siano finzioni premio Oscar come La vita è bella (Benigni 1997) o documentari premio Oscar come Gli ultimi giorni (Moll 1999), prodotto da Steven Spielberg attraverso la sua Shoah Foundation. Anche gli Oscar a Schindler’s List confermerebbero quella “americanizzazione della Shoah” di cui sono corresponsabili numerosi registi ebrei, da Chomsky a Polanski: Lanzmann interviene contro Spielberg con un articolo sul quotidiano “Le Monde” del 3 marzo 1994 intitolato Holocauste, la représentation impossible.
Ma proviamo a introdurre la seconda opzione: Lanzmann e Spielberg, sia l’uno che l’altro; non necessariamente assieme, però forse l’uno al seguito dell’altro. Perché – in una storia dei film che li veda anche nelle loro relazioni di causa/effetto, di azioni e reazioni – se leggiamo Shoah come la risposta polemica e oppositiva a Olocausto, possiamo leggere Schindler’s List (un titolo che ha assonanze fonetiche con gli altri due) come una prosecuzione di Shoah con altri mezzi. Spielberg fa risalire l’ispirazione dell’operazione proprio alla rabbia provata durante una proiezione del film francese, in cui gran parte del pubblico s’alzava annoiato e lasciava la sala: «Ho pensato che se la gente se ne fregava così apertamente dell’Olocausto […] glielo avrei raccontato io, l’Olocausto» (Cavina, La Polla 1995, p. 149). Che Spielberg ben conosca il film di Lanzmann lo si evince dal fatto che abbiamo visualizzazioni di brani di Shoah non soltanto in Schindler’s List (il gesto del bambino che mima il taglio della gola, ma anche la contestata scena delle docce) ma anche in altre opere in cui il genocidio nazista è completamente metaforizzato (es. la bambina che vede il fiume trasportare cadaveri in La guerra dei mondi).
Del resto Lanzmann – che nella sua autobiografia non cita mai per nome Georges Didi-Huberman (ma è lui «l’aspirante veggente» di pag. 542, reo di aver scritto Immagini malgrado tutto per la contestata mostra fotografica del 2001 Memoria dei campi) – cita invece più volte Spielberg, anche solo per ammucchiarlo con le major hollywoodiane che «non sarebbero prese dal terrore all’idea di sfigurare la realtà reinventandola» (Lanzmann 2009, p. 376). Dunque, un amore non corrisposto all’interno di un dibattito sulle icone che potremmo far risalire ai tempi del secondo Concilio di Nicea? Un amore-odio tutto interno alla vasta intellighenzia ebreo-gentile delineata dall’ebreo-gentile Edgar Morin?
Concludiamo con la terza opzione: Lanzmann/Spielberg, un po’ l’Uno un po’ l’Altro, un’alternanza come AC/DC, on/off, in/out. Il fondamentalismo della critica cinematografica francese fa le sue vittime dai tempi del carrello di Kapò (e si ricordi l’ammirazione di Spielberg per Pontecorvo, a cui ha restituito il Leone d’oro per La battaglia di Algeri, comprato ad un’asta di beneficienza). Ma forse è il caso di sentire altre voci – altre voci dell’ebraismo, che non parla solo il francese dei tempi moderni – per evitare una storia dell’audiovisivo monopolizzata dall’iconoclastia. Quando uscì il televisivo Olocausto, Günther Anders salutò la reazione degli spettatori tedeschi come l’attesa entrata nell’era post-hitleriana: «In realtà, il 1978 è il 1945, dal momento che solo oggi è sopraggiunto quello shock che avrebbe dovuto prodursi allora» (Anders 2014, p. 30).
Olocausto negli anni settanta, Shoah negli anni ottanta, Schindler’s List negli anni novanta sono le pietre miliari del percorso che ha portato al Giorno della Memoria, che l’ONU ha istituito solo nel 2005 (ma l’Italia già nel 2000, guarda caso l’anno dopo degli Oscar a La vita è bella). La vita ben spesa di Claude Lanzmann è stata nel segno del cinema malgrado tutto.
Riferimenti bibliografici
G. Anders, Dopo Holocaust, 1979, Bollati Boringhieri, Torino 2014.
M.T. Cavina e F. La Polla, a cura di, Spielberg su Spielberg, Lindau, Torino 1995.
C. Gaetani, Il cinema e la Shoah, Le Mani, Recco-Genova 2006.
C. Lanzmann, La lepre della Patagonia, Rizzoli, Milano 2010.
I. Perniola, L’immagine spezzata. Il cinema di Claude Lanzmann, Kaplan, Torino 2007.