Un ghepardo lungo le scale condominiali, una signora anziana in pelliccia nel suo appartamento, dei monaci tibetani in visita, il dettaglio della pancia di una donna incinta, il fuoco di un incendio, l’acqua di un’alluvione, un grattacielo che parla, un regista-astronauta.
Sono alcune delle situazioni narrative e dei motivi figurativi che compongono Cinema grattacielo, ultimo documentario di Marco Bertozzi dedicato al Grattacielo di Rimini e rappresentato come simbolo di una trasformazione degli immaginari e degli stili di vita: dal racconto dell’Italia del dopoguerra, festante e speranzosa nel futuro, alla nostra contemporaneità, fatta di precarietà e insicurezze ma anche di improvvisi e meravigliosi entusiasmi. Un’architettura-icona, quella del grattacielo, nata sotto il segno del moderno, come vetta urbana lanciata verso la conquista del mercato balneare ed estivo, e contaminata oggi da un’identità postmoderna, legata alla pluralità, al multiculturalismo, alla fantasmagoria.
Ciò che più colpisce, è che Bertozzi ritrae il suo protagonista evitando, da un punto di vista drammaturgico, l’andamento storiografico e l’approfondimento sociologico per perseguire invece una narrazione errante che predilige l’accostamento di motivi tematici e figurativi, interpretando il grattacielo come un grande atlante warburghiano di immagini e iconografie sedimentate nel corso del tempo. Del resto, la prima sequenza del film accosta il formato ridotto di alcuni home-movies con le finestre del grattacielo, stabilendo, fin da subito, un legame segreto tra lo scorrimento pellicolare e la “facciata-pelle” dell’edificio.
Ribaltando il consueto utilizzo dello spazio come “contenitore” di storie, il film avvalora viceversa una “psicoanalisi dello spazio”, per dirla con le parole di Anthony Vidler, in cui collimano la scrittura in prima persona (una sorta di diario-filmato del regista) e la dimensione comunitaria, incarnata dagli amici e abitanti del grattacielo.
Nel film, infatti, il grattacielo viene paragonato al cinema, poiché espressione di un’eccentrica condizione percettiva, alterata dalla vertigine dell’altezza e perfezionata dalle fascinazioni delle immaginazioni popolari. A proposito della Tour Eiffel, Roland Barthes (La tour Eiffel, Einaudi 1998) notava che il suo incanto dipendeva dal suo essere nello stesso tempo “spettacolo guardato e guardante” (p. 432): oggetto di sguardo, poiché visibile da ogni parte della città, e oggetto che vede, dacché luogo ideale per una visione cittadina complessiva.
Così è per Cinema grattacielo dove alla soggettività del racconto autobiografico del cineasta – al quale si contrappongono le riflessioni dello stesso edificio, interpretate dallo scrittore Ermanno Cavazzoni – si unisce uno sguardo dall’alto, isolato e privilegiato sulla nostra contemporaneità.
Sembra, infatti, che da un punto di vista stilistico ciò che interessi veramente a Bertozzi sia la valorizzazione di un rinnovamento dello sguardo documentario attraverso una rielaborazione delle pratiche e (forse, anche) delle teorie. Così come le sue lenti panoramatiche, utilizzate in diverse sequenze, tendono a inglobare tutto deformandone i contorni, così il film contamina gli orizzonti di senso e le forme comunicative: dai supporti filmici e video (dall’8 al 16, al 35 mm fino all’HD, passando per il Betacam e il Mini Dv) agli statuti delle voci (dall’intervista alla voice over), fino ai paradigmi discorsivi (la commistione di forme osservative, partecipative e performative).
Le stesse sequenze che “ricostruiscono” un ipotetico incendio e uno tsunami all’interno del grattacielo testimoniano la partecipazione di una paura collettiva, in cui sono le forme e la messa in scena a farsi strumento di documentazione, mediante una resa effettistica prossima alla sperimentazione videoartistica. Nel documentario contemporaneo viene meno, del resto, la contrapposizione manichea tra istanze realistiche e finzionali, in virtù di un’estetica differente votata alla contaminazione, al riuso e alla reinvenzione delle pratiche. L’ambito documentario si combina con le forme eterogenee delle arti visive, rivendicando la natura pulsionale, emozionale e latente del reale.
Se Benjamin a proposito delle capacità rivelative della fotografia rispetto all’occhio umano aveva parlato di “inconscio ottico” (Piccola storia della fotografia, Einaudi 2012) sottolineando la presenza di “uno spazio elaborato inconsciamente” (p. 230) attraverso il dispositivo, così le immagini del miglior documentario contemporaneo sembrano rifondare tali dinamiche costitutive: la macchina da presa si cala in un mondo già mediatizzato e inevitabilmente integrato con gli schermi e le sue maschere, addossandosi le contraddizioni e le antinomie ontologiche che ne conseguono, soprattutto a livello degli immaginari.
Con Cinema grattacielo potremmo, infatti, parlare di documentario-fantascienza, poiché uno dei temi cardini dell’opera è proprio la documentazione di uno sguardo alieno, alterato dai sogni di grandezza e di follia di un’intera collettività che ha vissuto negli anni del boom economico influenzando la generazione successiva. “Forse, crescere a Rimini negli anni ’60 – afferma il regista nel film – è stata un’esperienza drogata. Il palcoscenico dell’Italia del boom, il più alto consumo di simbolico mai visto al mondo”.
Come l’atterraggio di un monolite verticale in un territorio pianeggiante, il grattacielo trasporta con sé una figuratività anticonformista, ammaliante e disturbante, nella quale si specchia l’altra icona-simbolo della città: Fiabilandia e le sue torri. Grattacielo e lunapark: i “monumenti” architettonici per antonomasia del moderno e del postmoderno, convivono a Rimini e nei suoi miti. E non è un caso, che gli autori che vengono immediatamente in mente guardando il film siano proprio Fellini e Tondelli: emblemi, a loro volta, di due visioni, ampiamente storicizzate, sulla città.
La finestra e il fish-eye, la terra e la luna, la cartografia e l’astronomia. Come un satellite, il film sembra ruotare intorno a queste costellazioni figurative e a questi dispositivi della visione, che metaforicamente ci ricordano la natura ambigua, contraddittoria e pervasiva delle immagini e il loro fascino costitutivo ma anche il necessario e complesso lavorio, etico ed estetico, nei confronti della ridefinizione dei prototipi rappresentativi e valoriali.
Cinema grattacielo risponde così all’idea di un cinema documentario in grado di sperimentare e rielaborare i complessi immaginari consegnateci dalla modernità e dalla postmodernità, spingendosi oltre i limiti percettivi abituali e cercando di costruire nuovi modelli simbolici.
Non ci resta altro che guardare al futuro, magari dall’alto, sussurrando delicatamente: “Ti voglio a Rimini, per sognare con te…”.
Riferimenti bibliografici
S. Bruzzi, New Documentary, Routledge, London-New York 2006.
A. Vidler, Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea (1992), Einaudi, Torino 2006.
A. Warburg, Mnemosyne. L’Atlante delle immagini, a cura di M. Warnke, Aragno, Genova 2002.