“Ma Brandon Johnson avrà mai pronunciato cinque volte Candyman davanti allo specchio?”. La domanda mi ha colto all’improvviso la sera del 4 aprile scorso in un salone del Marquise Marriott Hotel di Chicago durante il discorso di vittoria di Brandon Johnson per l’elezione a nuovo sindaco della città. Sostenuto dal CTU (Chicago Teachers Union) e dalla coalizione progressista UWF (United Working Families), Johnson rappresenta una svolta storica per la città. Dopo i 30 anni consecutivi di politiche neoliberiste dei due controversi sindaci democratici Richard M. Daley (1989-2011) e Rahm Emanuel (2011-2019), quattro anni fa gli abitanti di Chicago avevano tentato una virata progressista con Lori Footlight, che però ha fortemente deluso i suoi elettori, tant’è che nelle elezioni del 28 febbraio, con una decina di candidati in corsa, le hanno negato il secondo mandato, mandando al ballottaggio l’ex-insegnante e attivista di lunga data Brandon Johnson. Il suo concorrente Paul Vallas, unico bianco in gara, classificatosi primo alle elezioni con un notevole margine, era dato per vincente fino allo spoglio delle schede.

Da Brandon Johnson al Cabrini Green di Candyman e della gentrificazione

Pur non citando l’anomalo boogeyman che infesta il quartiere Cabrini Green, uno dei più tristemente famosi Housing Project degli Stati Uniti costruito alla metà del secolo scorso, Brandon Johnson ha fatto scattare la scintilla della connessione cinematografica con una frase che esprimeva la sintesi di uno dei temi principali, la gentrificazione, del film Candyman (2021) di Nia da Costa:

So cosa vuol dire insegnare a Cabrini Green, dove i miei studenti possono vedere uno dei quartieri più ricchi dalle finestre sul retro, mentre dalle finestre davanti i bulldozer a loro volta li fissano, preparandosi ad abbattere le loro case pubbliche.

Definito dal co-produttore e co-sceneggiatore Jordan Peele “sequel spirituale” del Candyman di Bernard Rose del 1992, il cui Anthony McCoy di pochi mesi ritroviamo nel Candyman contemporaneo come  trentenne pittore in crisi di ispirazione (Yahya Abdul-Mateen II), che abita con la ricca compagna gallerista Brianna (Teyonah Parris) in uno dei lussuosi condomini sorti sulle ceneri dei vecchi palazzoni, il film introduce il tema della gentrificazione fin dalle primissime scene quando, in una conversazione a quattro tutta inerente a Cabrini Green, Brianna parla della demolizione dei condomini:

Li hanno demoliti per gentrificare quella merda che c'era prima. Traduzione: i bianchi hanno costruito un ghetto e poi l'hanno demolito quando hanno capito di aver costruito un ghetto. Dicevano alla gente che lo avrebbero migliorato. La spostavano da un posto all'altro, ma in realtà lo stavano demolendo solo per trasformarlo in tutto e per tutto.

Costituito da file di case basse a schiera e 23 cosiddetti “high-riser” fino a una ventina di piani di altezza in una zona non lontana dalla ricchissima Gold Coast di Chicago, Cabrini Green venne progressivamente abbandonato a sé stesso dalla Chicago Housing Authority che, occupandosi sempre meno persino della manutenzione ordinaria come fece del resto con tutti gli altri quartieri popolari della città, contribuì a renderlo un degradato ghetto nero con la criminalità alle stelle, nonostante i suoi abitanti fossero per la maggior parte, come Bernard Rose fece risaltare nel ’92 con poche ma efficaci scene, persone povere ma oneste che si offrivano reciproca solidarietà e che consideravano “casa” gli appartamenti nei quali vivevano. Quando nella seconda metà degli anni ’90 fu decisa la progressiva demolizione dei palazzoni (gli ultimi due furono abbattuti nel dicembre 2011), il sindaco Daley, colluso con gli speculatori immobiliari, promise ai circa 15.000 residenti una ricollocazione che la stragrande maggioranza di loro non ha mai avuto, come si legge, ad esempio, in Cabrini Green: a History of Broken Promises, resoconto di uno studio del 2021 condotto dalla Better Government Association di Chicago:

Delle migliaia di famiglie alle quali fu promesso di ritornare, più dell'80% non è mai rientrato. (...) I funzionari cittadini e la Chicago Housing Authority hanno ignorato le domande dei residenti, ripetutamente rinnegato le promesse ed eretto talmente tanti ostacoli da rendere il rientro pressoché impossibile. Piccole imprese messe in piedi da residenti neri in base alle promesse fatte dalla città hanno lottato per sopravvivere avendo ricevuto solo una minima frazione delle centinaia di milioni di dollari andati soprattutto agli imprenditori bianchi.

Redditizio effetto collaterale fu anche l’abbattimento, nel 2007, del New City YMCA, il colorato edificio che, come il Chicago Tribune scriveva in quei giorni

aveva riunito 8.000 famiglie, provenienti da una parte dal ricco quartiere di Lincoln Park e dall’altra dalle case popolari di Cabrini Green. Per più di 25 anni i diversificati gruppi di residenti hanno giocato a baseball in infervorate partite notturne, fatto vasche in piscina e sudato insieme in corsi di aerobica mentre i bambini si divertivano nei campus estivi e negli adiacenti campi da baseball. Ma quando i primi edifici di Cabrini Green crollarono alla fine degli anni 1990, lo stesso accadde alle iscrizioni al New City YMCA.

Venduta per 54 milioni di dollari a imprenditori immobiliari privati, l’area venne edificata con un complesso di lusso, residenziale e commerciale, nel quale il vecchio cinema YMCA venne rimpiazzato dallo sfarzoso Arc-Light Cinema.

La mini-maratona dei Candyman di Bernard Rose e Nia Da Costa

Cabrini Green è a tutti gli effetti il co-protagonista di entrambi i Candyman che, guardati in sequenza, non solo offrono le doverose suggestioni di ogni horror che si rispetti, ma forniscono anche molte indicazioni sul modo in cui sono state gestite, nei tre decenni intercorsi tra la produzione dei due film,  quelle zone di Chicago che i turisti non visitano. Lasciando perdere i due brutti sequel di Candyman degli anni ’90, ambientati a New Orleans, non diretti da Rose e ignorati da Peele, la mini-maratona dei film del 1992 Candyman – Terrore dietro lo specchio e del 2021 Candyman di suggestioni ne fornisce moltissime, soprattutto grazie a diverse scene e alla colonna sonora di Philip Glass del primo film, più emotivamente e visivamente coinvolgente del secondo, nel quale il pur importantissimo tema della gentrificazione si impone forse un po’ troppo razionalmente, nonostante il maggior numero di scene horror di stampo soprannaturale, che non offrono però lo stesso pathos dell’originale.

Nel secondo film manca infatti un corrispettivo femminile del personaggio della bianca Helen Lyle del film di Rose, interpretato da Virginia Madsen, le cui scene con il Candyman nero Tony Todd, presente anche nel film di Da Costa così come Vanessa A. Williams, interprete della mamma di Anthony, sprigionano un’attrazione magnetica ed erotica che non ha spazio nella storia di 30 anni dopo.

Un elemento che colpisce nella visione in sequenza è la perfezione della sceneggiatura del film contemporaneo in funzione sia di una sua totale autonomia sia della consequenzialità con quanto avviene in quello del ‘92. A questo proposito, tra le scene degli agganci spiccano per bellezza e fascinazione quelle in cui la narrazione è affidata a silhouette nere in movimento, che ricordano il film Le avventure del principe Achmed di Lotte Reininger, ma soprattutto l’artista afroamericana Kara Walker, che nel suo lavoro incentrato su razzismo e violenza spesso utilizza silhouette nere ritagliate a mano.

La prima di quelle scene, che racconta in maniera falsata la storia di Helen Lyle a sua volta diventata parte della leggenda di Cabrini Green, lascia momentaneamente spiazzato lo spettatore che abbia bene in mente il film di Rose. Ma l’impeccabile ingranaggio, oltre a disvelare la storia a tappe e attraverso diversi punti di vista, sottolinea come le leggende, urbane o no che siano, subiscano variazioni nel corso del tempo incamerando elementi nuovi che a loro volta diventano parte del mito.

Quella scena diventa dunque anche una premessa per poter incorporare nella storia di Candyman quelle degli infiniti neri sacrificati sull’altare del razzismo dal momento dell’arrivo in America come schiavi fino ai nostri giorni. È così che il pittore nero Daniel Robitaille vissuto alla fine del 1800, le cui ceneri vennero sparse sul luogo dove sarebbe poi sorto Cabrini Green dopo essere stato linciato, cosparso di miele, ucciso dalle api e infine bruciato per avere avuto un storia d’amore con una ricca ragazza bianca di cui aveva dipinto il ritratto, simboleggia e contiene “un intero alveare” di Candyman, come il personaggio di William Burk (Colman Domingo) racconta ad Anthony, il cui repellente alveare di croste indotte dalla puntura di una sola ape si sta espandendo a macchia d’olio sul suo corpo.

Il caso nella genesi del film di Bernard Rose

Interessantissime sono le interviste con Bernard Rose e Tony Todd per The Guardian e l’Iconicon 2022, rilasciate rispettivamente in previsione e in conseguenza del film di Da Costa e Peele. Partendo dal racconto di Clive Barker The Forgotten, in cui una ricercatrice universitaria che indaga le condizioni di vita di un quartiere popolare di Liverpool si imbatte in omicidi riconducibili al personaggio di una leggenda urbana, il regista inglese, che si rivolse alla Propaganda Films già produttrice di Twin Peaks, volle però ambientare la storia negli Stati Uniti. Sebbene inizialmente più interessato alla credenze popolari e al mito che non all’aspetto sociale e razziale della vicenda, Rose racconta di come quegli elementi siano diventati importantissimi nel film, grazie a un processo naturale a sua volta frutto di elementi casuali inseritisi su scelte precise, rendendo il suo Candyman più apprezzato col passare del tempo che negli anni ‘90, un precursore di horror dalla forte valenza sociale e razziale come appunto tutti i film di Peele o le serie tv Them e Lovecraft Country.

Quanto alle scelte, considerando l’architettura un elemento importante della storia, Rose scelse Chicago, che già conosceva, poiché meglio di qualsiasi altra città avrebbe sottolineato lo stridore tra lo squallore dei ghetti e la magnificenza di un’architettura che ha fatto la storia. Dalle sperimentazioni della Chicago School dopo il grande incendio del 1871 a oggi, tutti i più importanti architetti internazionali hanno infatti lasciato il proprio segno a Chicago con edifici e grattacieli di grande varietà che si amalgamano in uno spettacolare unicum senza confronti.

Decisa la location di Cabrini Green, la scelta di un Candyman nero era obbligata, tanto che Rose si consultò con la Naacp (National Association for the Advancement of Colored People) spiegando come il protagonista fosse una sorta di “angelo vendicatore”, a cui l’interpretazione di Tony Todd sapeva dare l’aura di “eroe tragico”, di un personaggio “che aveva molto più in comune con Dracula che non con Freddy Kruger”. Ai suoi attori neri Rose riconosce anche il merito di averlo aiutato

a non cadere nelle trappole di Hollywood di imporre stereotipi razziali e dunque di costruire personaggi a tutto tondo invece di monotipi o caricature. In particolare Kasi Lemmons, che interpreta il ruolo importante dell’amica di Helen – e che in seguito avrebbe diretto La baia di Eve – è stata molto utile nei dettagli.

La maggior parte del film venne tra l’altro realizzato negli studi di Hollywood, mentre a Cabrini Green ci furono solo quattro giorni di riprese per le scene in cui l’ambientazione esterna era fondamentale. Fu però grazie al caso che Rose si imbatté in due scoperte di cui subì talmente tanto l’attrattiva da integrarne gli elementi salienti nel racconto di Barker, consentendo alla propria immaginazione e maestria di girare scene che reggono il confronto con Hitchcock, Kubrick e Polanski, e che Rose nomina ripetutamente nelle interviste, ma anche di ancorare maggiormente alcune di quelle scene alla realtà degli edifici popolari, costruiti con materiali scadenti e con soluzioni impensabili: l’articolo del 1987 They Came in Through the Bathroom Mirror. A Murder in the Projects e la visione al Johnny Carson Show di Norman Gary, uno studioso delle api che suonava il clarinetto completamente ricoperto di api avendo sintetizzato un unguento che lo proteggeva dalle punture.

L’articolo era a un tempo un pezzo di cronaca nera sulla morte di Ruthie Mae McCoy – uccisa, nonostante le ripetute chiamate al 911, da assassini passati dal buco nel muro corrispondente agli armadietti del bagno di due appartamenti adiacenti delle Abbott Houses, un altro nero ghetto perfino peggiore di Cabrini Green ma da caratteristiche strutturali simili – e un trattato sull’indecenza della “stagnazione” a cui le autorità cittadine avevano relegato sia le case sia gli abitanti degli housing project.

La scoperta dell’entomologo invece determinò le peculiarità esteriori di Candyman, l’uomo dal cappottone sotto il quale si nasconde un corpo coperto di api che gli escono anche dalla bocca. Ingaggiati Norman Gary e le sue api per girare scene prive di effetti speciali, tanto Bernard Rose quanto Virginia Madsen si sottoposero a diverse lezioni e sedute di ipnosi che sarebbero poi servite al regista per indurre nell’attrice uno stato di trance prima di ogni scena con Candyman e le api, e a lei di affrontare senza panico sia le scene sia il successivo processo di rimozione degli insetti. Fu proprio lo stato ipnotico di Virginia Madsen a portare con sé anche quel magnetismo erotico cui si accennava prima, nonché lo spaesamento di altre scene nelle quali, racconta Rose, la confusione nella percezione di realtà e immaginazione dell’attrice gli piace pensare ricordi quella di Roman Polanski ne L’inquilino del terzo piano.

Gentrificazione e superstizione

Tornando alla superstizione della domanda iniziale, senza risposta almeno fino a che non otterrò un’intervista con Brandon Johnson, concludiamo con lo stralcio di un articolo, casualmente trovato durante le ricerche, che Carlos Ramirez-Rosa, un assessore di Chicago e sostenitore del neo sindaco, scrisse nell’agosto 2021, poco prima della première americana di Candyman. Alludendo al fatto che gli abitanti della zona di Cabrini Green si sarebbero dovuti spostare in altri quartieri di Chicago per vedere il film, poiché l’ArcLight Cinema aveva chiuso pochi mesi prima e la sua società madre, Pacific Theatres, era andata in bancarotta, l’assessore si chiedeva:

New City è maledetto? Tutto il quartiere è maledetto? O indelebilmente macchiato dal tipo sofferenza descritta nel Candyman originale e in quello nuovo? Da Costa e Peele hanno riattivato la maledizione di Candyman per uccidere una catena di cinema di lusso che ha beneficiato della distruzione di Cabrini-Green? Non lo so. Ma una cosa è chiara: Candyman non è solo un film dell'orrore – è una tragedia, un documentario, vita reale. È la storia del disinvestimento, dell'evacuazione forzata, della violenza razzista di stato. L'orrore di Candyman è l'orrore degli Stati Uniti.
Share