In An Essay on Foucault’s Virtue – così riportava il sottotitolo dell’intervento – Judith Butler si chiedeva che cos’è la critica, “What is critique?”, chiariva in che senso in essa ci sia qualche cosa di virtuoso: non diceva però che anche la virtù ha le sue “disgrazie”. In quell’occasione, riprendendo l’introduzione all’Uso dei piaceri, ricordava bene che in ogni condotta ne va tanto di un nesso fondamentale con l’insieme dei dispositivi normativi – di una dimensione di assoggettamento – quanto di quelli che Foucault ha definito “modi di soggettivazione”, ossia quelle tecniche in virtù delle quali è possibile rapportarsi a sé stessi come a soggetti etici. È infatti a questo dispositivo – dato dalle condizioni «a partire dalle quali si costituiscono i rapporti alla verità, alle regole e a sé» (Foucault 2024, p. 21) – che Foucault dà il nome di critica: un vero e proprio dispositivo di soggettivazione che dà vita a rapporti con sé che non siano più solo quelli assoggettanti del dominio normativo e veritativo, bensì modi differenti di essere soggetti etici, di vivere bene – virtuosamente.
In molti, da molti anni, ci dicono però che la critica ha disgraziatamente perduto le sue virtù: per Bruno Latour sono evaporate, per Eve Kosofsky Sedgwick e Rita Felski – pure tengono a dire che la loro non è una polemica contro la critica – le virtù critiche conducono inevitabilmente a un disturbo narcisistico del pensiero, a un’attitudine “paranoide” in cui evidente è l’eco del pensiero ricoeuriano. I più indulgenti non criticano nemmeno la critica né ne invocano la fine: solo, le chiedono di non cercare un senso a tutto – di essere postcritica, insomma, senza che quei trattini equivoci (o polemici) che avevano sollevato così tante discussioni già a proposito di nozioni come post-moderno o post-verità. Un pensiero veramente postcritico non avrebbe la velleità (nonché la presunzione) di decidere cos’è critico e cosa no – ripudia ogni riduzionismo.
Ciò che sarebbe interessante chiedersi è però a quale critica stiano pensando queste autrici e questi autori quando postcriticano il fatto che i suoi giudizi sono in verità dei pregiudizi o quando mostrano “le disgrazie della virtù” in cui per molto tempo è consistito l’esercizio della critica. Di qualunque critica si tratti non è con ogni evidenza né quella di Kant né quella che, riprendendo Kant, a partire dalla fine degli anni settanta Michel Foucault propone a più riprese. In questo senso, ne è un chiaro esempio Che cos’è la critica? – un pamphlet, si sarebbe quasi tentati di dire, recentemente curato da D. Lorenzini e A. I. Davidson e tradotto da A. Di Gesù e M. Polleri per DeriveApprodi, che contiene le trascrizioni di due interventi foucaultiani – Che cos’è la critica e La cultura di sé, tenuti rispettivamente alla Sorbona nel 1978 e a Berkeley nel 1983. Tutti i sospetti di essenzialismo son fugati: proporre due testi tanto distanti nel tempo e nei rispettivi contesti consente già di per sé di cogliere come a essere in questione non sia tanto la verità in quanto tale – i limiti che la ragione si dà, che è necessario che si dia, bensì i suoi rapporti con i dispositivi di soggettivazione – con ciò che Foucault qualifica come “sé”.
In questo senso, il tentativo dei due curatori e dei due traduttori è insieme più modesto e più minuzioso di quanto avrebbe potuto essere un’antologia di tutte le occasioni in cui Foucault ha trattato delle virtù della critica o ha presentato le sue interpretazioni dei testi kantiani – maggiori o minori che siano. Ciò che lo qualifica come tanto interessante quanto felice è il metodo minuzioso con cui i testi sono presentati. Ne è un’ottima dimostrazione il primo dei due interventi, Che cos’è la critica: già apparso per i tipi di Donzelli, viene qui riproposto tenendo conto anche dei materiali preparatori conservati alla BnF che consentono così di apprezzare in modo più minuzioso dei passi essenziali nell’economia del discorso. Non occorre insistere – poiché tanto noto da essere quasi inflazionato – sull’enunciato foucaultiano che vuole che ci sia un vincolo che tiene insieme l’esercizio di governo e quello critico, le questioni di “come governare?” e di “come non essere governati”: «La vera attitudine critica non può che darsi a partire e in rapporto a una «grande inquietudine intorno al modo di governare», «sui modi di governare», su «come non essere governato in questo modo, da queste persone, in vista di tali obiettivi e con tali mezzi, non così, non per questo, non da loro?» (ivi, p. 35).
Che Michel Foucault corsivi “non” o “non in questo modo” non sarebbe neanche così interessante se non fosse per un passo che non appare nelle trascrizione bensì solo nelle sue annotazioni – restituite da un ampio apparato di note: «L’attitudine critica a partire dalla quale è possibile prendere le distanze dall’esercizio del governo è anche ciò che lascia insoddisfatti, che non può fermarsi a se stessa e che proprio per questo suscita sfiducia e, giustamente, critica. Critica amata e disprezzata. […] Impazienza sopportata impazientemente. Che cos’è dunque in Occidente quest’impazienza nella maniera di essere e di pensare? Essenziale e precaria, […]» (ivi, p. 33).
Come la critica – pur essendo di per sé insopportabile – un qualche governo è necessario. È quindi questo modo di governo, questo o quello stato di cose che va criticato. La critica non è il contrario del governo. Ciò che si oppone alla governamentalizzazione non è una rivendicazione quale «non vogliamo essere governati, e non vogliamo essere governati affatto» (ivi, p. 35) (si noti di nuovo in corsivo): è la volontà di «non essere eccessivamente governati» (ibidem), di mettere un limite non tanto all’esercizio di governo quanto ai suoi effetti di potere. In senso stretto, “critico” è quel «movimento attraverso il quale il soggetto si dà il diritto di interrogare la verità sui suoi effetti di potere e il potere sui suoi discorsi di verità» (ivi, p. 37) – ciò che Foucault qualifica come una «politica della verità» (ibidem) che di lì a pochi anni, nel contesto di Nascita della biopolitica, si dà come necessità di una «ragione governamentale critica» (Foucault 2005, p. 24), di un regime di verità che non governi eccessivamente la vita delle persone.
Non è tanto questione di «un’inchiesta sulla legittimità» (ivi, p. 49) che discrimini ciò che è vero-falso o ciò che è fondato-infondato, non «quale illusione, quali difetti di legittimità portano la conoscenza a indurre effetti di dominazione» (ivi, p. 56), quanto un’attitudine che intende limitarli. Né kantiano, né anti-kantiano – per Foucault il discorso critico non decide di anti-nomie poiché è ben cosciente del fatto che fra potere e verità non c’è mai contraddizione ma solo la possibilità di metterli in rapporto in modo tale che – virtuosamente – si limitino a vicenda: «da ciò ognuno di noi non è deduce ciò che è impossibile» bensì «la possibilità di non essere più ciò che siamo» (ivi, p. 55).
Che l’esercizio critico non interessi solo i rapporti della verità con sé stessa, i limiti che il pensiero si dà da sé, è ben dimostrato anche dai materiali – inediti – di La cultura di sé, l’intervento e i dibattiti a cui Foucault ha preso parte a Berkeley nel 1983. Pure a distanza di qualche anno, in questione sono «i nostri rapporti con la verità, i nostri rapporti con l’obbligo, i nostri rapporti con noi stessi» (ivi, p. 78). In tale occasione, però, il potere che viene “criticato” non è quello della verità, bensì quello del soggetto o, più esattamente, di «una nozione, un precetto, un’attitudine e una tecnica» : l’epimeleia heautou o cura sui o ciò che Foucault restituiva come “cura di sé” (souci de soi) (ivi, p. 79). Com’è noto, dai cinici ai cristiani, l’“ultimo Foucault” ha molto insistito sui modi – ascetici in senso etimologico – in virtù dei quali i soggetti hanno potuto definirsi come etici.
Di nuovo: ciò che è interessante non è tanto che cosa sia (o sia stato) il sé – così come la domanda su che cos’è la critica non confidava in definizioni essenzialiste o sostanziali. Il riferimento alla verità rimane essenziale – tanto che nel 1984 intitola il suo ultimo corso Il coraggio della verità, sebbene si dia meno come effetto di un sistema di potere che di un insieme rapporti di sé con sé, di ciò che Foucault definisce “governo di sé”. Detto in modo differente, l’esercizio critico non è che un esercizio etico che consiste nel dar vita (si pensi solo alla vera vita dei cinici) a «nuove relazioni con noi stessi» (ivi, p. 94).
In An Essay on Foucault’s Virtue Butler cita una delle definizioni di critica che Foucault dà, quella di «un mezzo per un futuro o una verità che non saprà e non sarà» (2002, p. 31). Cercando di dare un senso a una critica che si propone di istituire niente, ricorda come essa sia comunque virtuosa – «come se la virtù fosse di per sé contraria al regolamento e all’ordine, come se la virtù stessa si desse nel rischio dell’ordine istituito. Non è affatto timido rispetto a questo rapporto: “C’è qualcosa nella critica che si avvicina alla virtù”. E poi […] : “l’attitudine critica (è una) virtù in generale”». Commenta infine:
Il gesto di Foucault è, oserei dire, coraggioso in modo bizzarro [oddly brave] poiché sa di non poter fondare le rivendicazioni di una libertà originaria. Le affronta [braves] comunque [...] ed è forse questo ciò che diviene una virtù e non, come vorrebbero i suoi critici, un sintomo di disperazione morale, in quanto [...] propone un valore che non sa come fondare, eppure lo propone comunque [...]. È virtù in senso minimo [...]. È però anche un atto di coraggio [courage].
Ciò che emerge in questo pamphlet – che non è meno polemico di quello di un Étienne de La Boétie – è chiaramente irriducibile a qualche cosa come un regresso all’infinito che i postcritici tanto temono: Foucault non è così ingenuo da pensare che di tutto ci sia un fondamento o un senso o, peggio, che tutto possa essere messo in ordine da un esercizio critico. Possono dirsi critici solo quei tentativi di disassoggettamento, di desoggettivazione o di déprise (o di prise de distance) che all’ordine delle verità già date controbattono con delle verità che sono effetto di soggettivazione e che resistono – non nonostante i rischi di un fallimento imminente – bensì in virtù di un coraggio che non teme disgrazie.
Riferimenti bibliografici
J. Butler, What is Critique? An Essay on Foucault’s Virtue, in “The Political”, ed. D. Ingram, Blackwell, Oxford-Malden 2002.
M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979, Feltrinelli, Milano 2005.
Michel Foucault, Che cos’è la critica?, a cura di D. Lorenzini e A. I. Davidson, DeriveApprodi, Bologna 2024.