Prima di parlare della mostra di Charles Ray in corso a Parigi presso la Fondazione Pinault, vorrei spendere una parola sul luogo in cui la mostra si svolge. Sarà anche l’occasione per una breve perorazione, spero non troppo pedante, a favore della città di Roma. Sembra che Parigi, capitale mondiale della moda, sia ormai da diversi anni l’arena del confronto tra i due leader del settore, François Pinault e Bernard Arnault, che si affrontano sul terreno dell’arte contemporanea. Se Arnault per la Fondazione Louis Vuitton promuove la costruzione di un nuovo edificio al Bois de Boulogne, affidandone la realizzazione all’archistar Frank Gehry, per la propria fondazione Pinault sceglie invece la strada del riuso di un edificio storico nel centro storico della città: l’antica Bourse de Commerce, elegante edificio ottocentesco a pianta circolare, evocativo del passato imperiale e coloniale della Francia del XIX secolo.

Da una parte, si sceglie la novità del linguaggio postmoderno, che fa dell’architettura un gesto artistico capace di ridisegnare il paesaggio; dall’altra, si preferisce percorrere la strada del riuso di un edificio pubblico, secondo una logica che ricorda la storica impresa compiuta da Gae Aulenti per la vecchia stazione ferroviaria di Orsay, trasformata in uno dei musei simbolo della Ville Lumière. L’architetto giapponese Tadao Ando, in collaborazione con gli studi NeM e Pierre-Antoine Gatier, ha creato uno spazio capace di far risuonare passato e presente: la struttura centrale, che occupa il volume centrale dell’edificio, estende e rende agibili gli spazi espositivi, senza oscurare l’estetica fortemente evocativa del complesso. Le teche in legno originali ora ospitano i ready-made di Bertrand Lavier, arricchendo di senso il gesto citazionista dell’artista.

Il rinnovato impegno della città di Parigi nel mondo dell’arte suscita due considerazioni. Se il recupero della Gare d’Orsay è l’ultimo dei numerosi interventi pubblici dedicati all’arte a Parigi, che sono l’espressione contemporanea della grandeur francese, Arnault e Pinault costituiscono un nuovo tipo di prince merchant desideroso di innalzare il proprio prestigio e legittimare la funzione sociale del capitale attraverso il revival di una sorta di mecenatismo rinascimentale: è un tema su cui l’estetica e la sociologia dell’arte dovranno probabilmente riflettere negli anni a venire. Visto da Roma questo fervore di attività nel campo artistico suscita una riflessione di carattere civile e fa pensare che luoghi come la vecchia Stazione di Trastevere, consegnata a decenni di abbandono, meriterebbero di diventare luoghi di elaborazione creativa, punti d’incontro che si collocherebbero, fisicamente e idealmente nei punti di raccordo tra il centro e la periferia delle grandi città.

Veniamo ora alla mostra di Charles Ray. Le sculture esposte possono spiazzare per l’apparente richiamo a un’estetica classica, dalle dimensioni al colore rigorosamente bianco, fino al ritorno alla rappresentazione realistica della figura umana. I testi che accompagnano il percorso espositivo insistono sul legame dell’artista con la memoria storica dell’arte occidentale. Tuttavia, a ben vedere, o meglio a vedere le opere di Ray dal vivo e non in fotografia, ci si accorge che c’è dell’altro. I visitatori sono accolti da una statua di grandi dimensioni, che raffigura un senzatetto, uno dei soggetti preferiti dall’artista. C’è però qualcosa di anticlassico nella monumentalizzazione di una figura così poco eroica. Non è l’espressione deformata del volto del senzatetto a colpire di più, perché la storia dell’arte abbonda di volti grotteschi: basti pensare al volto contratto e deforme dello Schiavo a Ripa grande di Guido Reni. A catturare l’attenzione è piuttosto il corpo della figura, appesantito e inflaccidito dagli anni: il che fa riflettere su come l’arte occidentale, fin dalle sue origini, abbia perlopiù affidato al volto, attraverso la sua deformazione del volto, il compito di esprimere la negazione dell’umanità nell’uomo, mentre ha quasi sempre racchiuso il corpo, perfino il corpo dell’abietto, in un ideale di perfezione. Un precedente nella storia dell’arte occidentale si ritrova forse solo nella Morte della vergine, in cui Caravaggio raffigura la Vergine morente prendendo a modello il cadavere di una prostituta affogata nel Tevere.

L’imponente figura del bambino nudo, che mostra con il braccio teso una rana, fa pensare al Perseo di Benvenuto Cellini; ma basta girare intorno alla statua per accorgersi che la figura è affetta da una forte scoliosi. Il suo non è il corpo ideale di un giovane eroe, bensì un corpo reale. Questo modo di far sentire la tridimensionalità della scultura ricorda Giacometti più che l’arte classica. La didascalia suggerisce il Galata morente dei Musei Capitolini come modello del bambino accovacciato; ma basta avvicinarsi per vedere che la figura non è presa dagli spasmi dell’agonia, ma dalla banale occupazione di giocare con una macchinina. Il biancore opaco di molte sculture di Ray non è perlopiù quello del marmo: è fatto di materiali poveri, lavorati con sapienza artigianale dall’artista. L’artista innerva con ogni mezzo e in ogni modo l’apparente classicità delle sue figure dell’umiltà di un’esistenza umana profondamente antieroica e anticlassica. Solo il corpo del Cristo sulla croce risponde a canoni riconoscibili; ma si tratta appunto della replica ingrandita di un’opera di Algardi. Quando rappresenta il suo Cristo, come nel gruppo scultoreo che raffigura il Cristo risorto che mette il dito dell’apostolo Tommaso nella ferita del costato, Ray dà forma a corpi affatto diversi: scolpito come quello di un giovane palestrato, comprese la capigliatura e la barba che sembrano uscite dalle mani di un barbiere, quello di Cristo; curvo e gracile quello dell’incredulo Tommaso.

L’estetica di Charles Ray non va solo oltre il classico, ma supera la dialettica tra classicità pagana e cristianesimo che attraversa la storia dell’arte occidentale: basti pensare al caso esemplare della Cappella Sistina. Ray non inventa un nuovo stile della rappresentazione, ma tenta di restituire al medium in modo del tutto inedito la funzione di dare un significato alle apparenze sensibili dei corpi e delle figure. Se c’è un’ispirazione cristiana nella sua arte, come molti riferimenti farebbero pensare, siamo ormai di fronte a un cristianesimo che è compiutamente immagine, che comunica carità e compassione più come sentimenti di partecipazione che come contenuto di una fede: prima di Ray forse solo Pasolini era arrivato a tanto.

Il monumentalismo antieroico di Ray si colloca ormai oltre l’idea hegeliana secondo cui l’arte moderna sia consegnata al suo carattere di passato, né intende adagiarsi nella versione secolarizzata della tesi hegeliana, che fa del mondo dell’arte un luogo di perenne rimessa in discussione del proprio statuto da parte dell’opera. Può l’arte tornare a essere il medium di un ethos condiviso nell’epoca della postmedialità, vale a dire nell’epoca in cui i “media” sono diventati la mediazione quotidiana e trasparente di ogni nostra esperienza? Può l’arte ritrovare nell’opacità del suo medium il senso dell’esistenza umana? Sono queste le domande che l’artista sembra affidare al suo spettatore.

Riferimenti bibliografici
G. Careri, Caravaggio: la fabbrica dello spettatore, Jaca Book, Milano 2017.
Id., Ebrei e cristiani nella Cappella Sistina, Quodlibet, Macerata 2020.
A.C. Danto, Dopo la fine dell’arte, Bruno Mondadori, Milano 2007.
D. Guastini, Immagini cristiane e cultura antica, Morcelliana, Brescia 2021.

Charles Ray, 16 febbraio 2022 – 6 giugno 2022, Bourse de Commerce di Parigi.

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