Riprendendo una famosa massima di Ramon Lobato, la distribuzione nell’era pluralistica del digitale non può che essere definita, in modo necessariamente ampio, come «il movimento dei media nel tempo e nello spazio» (Lobato 2007, p. 114). In questo senso, studiare la distribuzione implica lavorare su chi motiva questi movimenti e perché; sugli «attori e sulle infrastrutture le cui decisioni hanno un impatto su chi va a ricevere i messaggi mediali». Questo significa occuparsi delle «pratiche volte a garantire il movimento dei messaggi verso particolari pubblici immaginari», come spiega Joshua Braun (2021, pp. 31-32). Questo è certamente lo spirito che anima la riflessione di Damiano Garofalo prodotta nella sua ultima monografia C’era una volta in America. Storia del cinema italiano negli Stati Uniti, 1946-2000, pubblicata nella serie “Cinema. Lo schermo e la Storia” dell’editore Rubettino. Il volume affronta questa storia transnazionale con una duplice metodologia: attraverso l’analisi della ricezione, ricreando retroattivamente quel “pubblico immaginato” di spettatori del cinema italiano negli Stati Uniti e applicando un approccio più industriale, mirato ad identificare quegli attori e quelle infrastrutture che, da Roma città aperta a La vita è bella, hanno tentato di creare quello stesso pubblico. 

Come scrive Garofalo nell’introduzione, quest’ultima metodologia si è resa evidentemente necessaria a partire dagli spazi di ricezione che stava studiando: «Buona parte delle fonti consultate mi suggerivano di sovrapporre a un approccio culturale […] uno sguardo anche industriale. Non si trattava più soltanto di studiare i contesti di ricezione, critica e culturale, dei film italiani negli Stati Uniti, ma di provare a capire il ruolo del cinema italiano come vettore di mutamenti che, a partire dal secondo dopoguerra, invadono l’industria cinematografica Statunitense nel suo insieme» (2023, p. 13).

L’unione di questi approcci critici è uno dei molti pregi del libro di Garofalo, nonché una dimostrazione della sua competenza storica e precisione con il lavoro delle fonti. Infatti, il libro respinge un facile lavoro “prescrittivo” sulla cultura e sull’identità nazionale italiana, piuttosto contestualizzandole all’interno di specifiche storie personali e pratiche distributive. Non a caso, con un tocco apprezzabile, quando cita i film circolati negli USA, Garofalo menziona non solo i loro registi, come è consuetudine nella nostra disciplina, ma anche i loro principali distributori statunitensi. Ciò allontana un discorso centrato sul film come prodotto artistico e crea uno spazio per capire come l’auteur possa funzionare in termini economici, come un «agente extra-testuale», per dirla con Tzioumakis (2006).

C’era una volta in America è un testo fondamentale che rispecchia e ben rappresenta un recente interesse, in Italia e non solo, per le culture di circolazione del cinema nazionale all’estero. Esempi dell’interesse accademico per questo tema sono i due recenti progetti PRIN (CinCit: La circolazione internazionale del cinema italiano, in cui Garofalo ha ampiamente lavorato, e Italian Na(rra)tives: la circolazione internazionale del brand-Italia attraverso i media), oltre a una serie di iniziative editoriali, tra cui raccolte curate e numeri speciali di riviste. Mentre i diversi studi derivati da questi progetti hanno fornito ricerche dedicate a aspetti circoscritti del fenomeno, questo libro propone una brillante analisi di un unico oggetto di studio – specificamente, il cinema italiano negli Stati Uniti – in un arco temporale molto ampio (1946-2000) e con un ricco e coerente utilizzo di casi e fonti.

A seguito di un’introduzione più personale e riflessiva che giustifica e situa la ricerca, il volume si compone di quattro capitoli, ognuno dei quali si concentra su un periodo storico e una tendenza estetico-industriale. I primi due capitoli trattano del cinema italiano “di punta”: da un lato, il neorealismo, dall’altro l’età d’oro del cinema d’autore dagli anni cinquanta agli anni settanta. Il secondo capitolo si concentra in particolare sulla circolazione di Fellini, Visconti, Antonioni, Pasolini e Bertolucci. Il terzo capitolo si occupa di una vasta gamma di film di genere italiani (spesso co-produzioni), che comprende non solo gli spaghetti western, i peplum e la commedia all’italiana, ma anche – in modo particolarmente innovativo – i mondo movies e il cinema politico d’impegno. Il quarto capitolo si concentra sul passaggio a un cinema più “americanizzato”, come lo definisce Garofalo, rappresentato da figure quali Tornatore, Salvatores, Benigni e dal contesto del cosiddetto “indiewood”. La conclusione del libro anticipa i cambiamenti avvenuti alla fine del millennio, guardando, seppur brevemente, al persistente valore dell’auteur, meglio incarnato da Guadagnino e Sorrentino, oltre che al suo spostamento verso il contesto della TV di qualità. Nelle oltre 200 pagine di analisi, Garofalo attinge a una variegata e ricca bibliografia internazionale, che spazia dagli studi di film e tv alla storia, dall’italianistica ai media industry studies, dimostrando la natura fondamentalmente interdisciplinare del suo progetto e la ricchezza scientifica che il dialogo tra disciplina comporta.

Il libro, inoltre, fa riferimento a un numero incredibile di film e alle loro recensioni attraverso le testate statunitensi (Variety, The Hollywood Reporter), le riviste generaliste (The New Yorker, The Village Voice, Time) e i quotidiani regionali e nazionali (The New York Times, The Washington Post, The Boston Globe, The Chicago Tribune, ecc.). Oltre a testimoniare la rilevanza delle singole città per la circolazione del cinema italiano e dei foreign film in generale – soprattutto nei circuiti arthouse – queste fonti offrono due importanti riflessioni: il ruolo della critica cartacea nella mobilitazione del film italiano all’estero nella seconda metà del secolo scorso e il valore della loro digitalizzazione per gli storici di distribuzione cinematografica contemporanei.

L’analisi della distribuzione e della ricezione dei film nei diversi capitoli è sempre affascinante e spesso sorprendente. Il libro riprende e approfondisce alcuni dei casi più noti, inserendoli in una narrazione generale, dal famoso coinvolgimento di Rod Geiger nei classici neorealisti di Rossellini, al ruolo svolto da Joseph E. Levine nei fenomeni comici e drammatici di De Sica/Loren – ma anche il destino del peplum –, fino alla promozione imponente di La vita è bella da parte della Miramax e dei fratelli Weinstein. Garofalo include anche molti casi meno conosciuti, dall’uscita di La maschera del demonio a Cleveland Ohio (2023, p. 158), alle importanti sfumature della ricezione di film politici. Particolarmente rilevante è il caso di La battaglia di Algeri che ha fornito uno spaccato sugli Stati Uniti, oltre che sulle posture ideologiche dei critici della stampa (ivi, pp. 134-140).

Nel complesso, nei film citati in C’era una volta in America, colpisce la presenza di quasi tutti i film canonici del cinema italiano: la versione della storia del cinema italiano che apprendiamo – almeno in contesti stranieri – attraverso le storie e i libri di testo più citati. Il libro pone in questo modo un interrogativo molto accattivante sulla capacità statunitense di plasmare i modelli di conoscenza, nell’occidente, dei singoli cinema nazionali. Tenendo conto di ciò, nella lettura del libro si sente a volte che un occhio ancora più critico sarebbe benvenuto, ad esempio notando e problematizzando ulteriormente il modo in cui l’“italianità” stessa venga veicolata per specifici scopi economici, o, ancora, come questo possa dipendere da più ampie tendenze transnazionali e dinamiche geopolitiche, come per esempio la romanticizzazione culturale dell’Europa occidentale. 

Tuttavia, questo appunto non mira a sminuire l’ampiezza e la ricchezza di ciò che Garofalo mette in evidenza nella sua analisi. Dopotutto, come scrive Garofalo nell’introduzione, il libro si propone «senza la pretesa che la lettura di queste pagine dovesse andare a esaurire tutte le curiosità sorte ai lettori […] con l’obiettivo, di contro, di provare a fornire spunti, idee, perfino dubbi, da coltivare e sviluppare in altre circostanze» (Garofalo 2023, p. 15). In questo senso, piuttosto che assumersi l’impossibile e pretenzioso compito di rispondere a tutte le domande, il volume offre una brillante e utile base storica che certamente faciliterà il lavoro degli studiosi che, nel futuro, vorranno provare a rispondere a questo tipo di domande.

Riferimenti bibliografici
J. Braun, Points of Origin: Asking Questions in Distribution Research, in Digital Media Distribution: Portals, Platforms, Pipelines, a cura di Paul McDonald, Courtney Brannon Donoghue, Timothy Havens, NYU Press, New York 2021.
R. Lobato, Subcinema: Theorizing Marginal Film Distribution, in “Limina” n. 13, 2007.
Y. Tzioumakis, Marketing David Mamet: Institutionally assigned film authorship in contemporary American cinema, in “The Velvet Light Trap”, n. 1, 2006.

Damiano Garofalo, C’era una volta in America. Storia del cinema italiano negli Stati Uniti, 1946-2000, Rubettino, Soveria Mannelli 2023.

Tags     America, cinema italiano
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