Possiamo elencare almeno quattro modi di avvicinare il primo romanzo di Quentin Tarantino, C’era una volta a Hollywood (La Nave di Teseo, 2021) ovvero 1) come tassello dell’opera tarantiniana; 2) come romanzo americano; 3) come testo che si confronta con un altro testo (il film) e infine 4) come oggetto editoriale spurio – quello che ci sembra più intrigante. Li affrontiamo schematicamente.

1. Tassello tarantiniano. Il volume non è solo un’espansione più o meno virtuosa dei fatti narrati nel film C’era una volta a… Hollywood (2019) – (da cui lo distinguono tre puntini di sospensione), ma un vero e proprio trattato di cinefilia del regista. Pur sostanzialmente legato a due aree dell’onnivorismo di Tarantino (il cinema americano popolare post-classico e il cinema di genere italiano), il romanzo si dedica ad amplissime digressioni erudite, dove critica cinematografica, passione cinefila, puntigliosità del cultore e feticismo per i nomi si mescolano in una – talvolta snervante – catalogazione di titoli, registi e attori, sia veri sia falsi. Una cosmogonia di costellazioni da B-movie che molto spesso abbandona la narrazione per trasformarsi in un incrocio tra essay e memoriale, non lontano da libri come Fuga di Geoff Dyer (con cui peraltro condivide un lungo e morboso approfondimento sulla tecnica dell’accoltellamento tra le costole, curiosa coincidenza) ma senza la distanza intellettuale di quest’ultimo – che ogni volta concede al film di cui parla (Dove osano le aquile) di essere promosso a oggetto letterario. Insomma, un libro quintessenzialmente tarantiniano.

2. Romanzo americano. Quale valore artistico possiede C’era una volta a Hollywood? Sinceramente, molto relativo. A differenza del suo ruolo di american director di assoluta eccellenza nella storia moderna di Hollywood, Tarantino come scrittore non verrebbe scelto nemmeno tra i primi 100 novelist statunitensi viventi. Troppe le discontinuità, le ingenuità, gli impacci, i dilettantismi. Certo, c’è la dimensione di genere che fa da paracadute, quindi – come giustamente ha notato il traduttore Alberto Pezzotta (anche esegeta del regista) – vengono fuori qui le influenze nascoste del cineasta, ovvero Charles Willeford, Barry Gifford o Elmore Leonard (secondo me soprattutto). Gli manca, però, l’astuzia, e gli mancano i personaggi davvero iconici: solo Cliff ha una backstory davvero riuscita, il resto è pulp attraversato da alcuni lampi di talento. Tarantino esibisce anche qui il talento dello sceneggiatore, che ha bisogno del lavoro di regia per compiere e attualizzare quella che Pasolini chiamava “struttura che vuol essere altra struttura”, la sceneggiatura. Questo romanzo forse è “struttura che vuol essere altra struttura che vuol essere altra struttura”.

3. Il confronto comparativo tra romanzo e film offre spunti interessanti ma non indispensabili. È sempre Cliff a subire il trattamento più approfondito, grazie al quale Tarantino esplicita la natura di assassino amorale che il film semplicemente adombrava (qui, per esempio, si racconta con ammirevole senso di orrore grottesco il momento dell’uxoricidio in barca). Altrove, ci offre punti di vista diversi (la visita di Cliff al vecchio cieco proprietario del ranch dove si è accampata la Manson Family viene narrata dal punto di osservazione degli hippy: si perde ogni suspense ma ricaviamo più informazioni). La struttura narrativa offre comunque combinazioni temporali complesse, diverse da quelle viste sullo schermo, con una sorpresa da non svelare riguardante il finale “ucronico” che abbiamo visto nel lungometraggio. Anche questa, tuttavia, è probabilmente una falsa pista, perché il valore ermeneutico di un confronto serrato e analitico lascia probabilmente il tempo che trova, a cominciare dalle priorità dello stesso autore.

4. Rimane dunque la definizione dell’operazione editoriale. Di che si tratta: di un romanzo che ha bisogno di un film pre-esistente per essere compreso? Di un raid letterario da parte di un regista famoso per le sue sceneggiature? Di una novellizzazione? In quest’ultimo caso, si è detto che le dichiarazioni di Tarantino secondo cui C’era una volta a Hollywood sarebbe un omaggio alle novellizzazioni e alla para-letteratura (di per sé, materiale “basso” caro al cineasta) vanno prese con le molle. Non ne sarei così sicuro. A forza di insistere sull’autonomia letteraria di questo romanzo, rischiamo di perderne proprio la caratteristica para-testuale e ancillare. In primo luogo, le novellizzazioni sono un universo enorme e diversificato, all’interno del quale si trovano anche operazioni di ampliamento e di originalità spregiudicata (come dimostrato da un appassionante convegno di tanti anni fa).

A me pare invece che proprio alla para-letteratura del mondo delle novellizzazioni guardi Tarantino, perché è troppo intelligente per non conoscere i propri limiti di scrittura, tanto da sembrare più interessato ai racconti incorniciati nel testo – con i finti soggetti di western – che non all’atmosfera da noir di serie B che ne attraversa i capitoli. Se così è, Tarantino ha poi avuto gioco facile nell’arricchire la novellizzazione di un costante elemento critico e meta-testuale originato dalla sua erudizione cinefila: un saggio appunto, travestito da romanzo da edicola, o viceversa, in un gioco postmoderno che ha comunque lasciato per strada l’euforia degli anni novanta.

Tutto sommato, l’unico rimprovero che possiamo muovere a Tarantino questa volta è di averci fatto provare meno piacere testuale del solito.

Riferimenti bibliografici
A. Autelitano, V. Re, Il racconto del film. La novellizzazione dal catalogo al trailer (Atti del XII Convegno Internazionale di Studi sul Cinema, Udine/Gorizia, 8-10 marzo 2005), Forum, Udine 2006.
A. Cucchetti, Ancora una storia. Intervista a Alberto Pezzotta, “Film TV”, n. 28, 2021.
P.P. Pasolini, La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura”, in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972.

Quentin Tarantino, C’era una volta a Hollywood, La Nave di Teseo, Milano 2021.

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