“Le mie regie nascono dal disegno”, sosteneva Gian Franco Corsi, in arte Franco Zeffirelli, fiorentino classe 1923 di cui quest’anno si celebra il centenario. Da tali parole traspariva quasi l’idea di sentirsi l’ultimo erede del Rinascimento, promotore di un’arte teatrale e cinematografica ispirata alla classicità – che gli veniva dalla formazione all’Accademia di Belle Arti di Firenze – e improntata su un’ideale di bellezza e di qualità visiva. Non a caso il suo primo lavoro fu quello di scenografo, costruttore di macchine di scena e filmiche concepite come grandi dispositivi di una festa rinascimentale Novecentesca, che nel secondo dopoguerra lo portò a lavorare con Luchino Visconti, di cui divenne assistente e allievo.
Proprio l’incontro con Visconti – decisive le esperienze come aiuto regista per i lungometraggi La terra trema (1948), Bellissima (1951) e Senso (1954) – fu determinante nell’influenzare il suo processo artistico basato su un’attenzione quasi miniaturistica delle componenti dell’inquadratura, e su una vera e propria ossessione per la qualità visiva dell’immagine. Tuttavia, segnò anche il primo scarto verso una poetica autonoma e originale, a partire dall’avversione verso il Neorealismo che riteneva destinato a fallire a causa della poca importanza che veniva data agli attori professionisti.
Continuavo a chiedermi fino a che punto la realtà possa essere reale, fino a che punto si possano spingere i limiti della verità e della simulazione per sembrare assolutamente veri. […] Il mio profondo convincimento, dunque, è che il vero dev’essere filtrato attraverso il talento di un attore (Zeffirelli 2023, pp. 105-106).
Più evidente risulta l’insegnamento di Visconti, e del suo approccio a una “regia totale” nei lavori teatrali, a partire dagli anni cinquanta e dalle sue prime produzioni al Teatro alla Scala di Milano. Per la scenografia de L’italiana in Algeri (1952) di Rossini elaborò uno scenario di grande effetto grazie a repentini cambiamenti di scena e alla realizzazione di costumi dai colori vivaci. In seguito al successo di questa produzione gli venne affidata la regia de La Cenerentola (1953), e il sovraintendente della Scala Antonio Ghiringhelli gli offrì due allestimenti per la stagione teatrale successiva: L’elisir d’amore di Donizetti e Il turco in Italia di Rossini, che segnò l’inizio della collaborazione con Maria Callas (che diresse fino al ritiro dalle scene negli ultimi spettacoli Tosca e Norma, a Londra e Parigi nel 1964).
Se le messe in scena di Zeffirelli si caratterizzavano per una forte adesione al testo letterario, esse non erano però ridotte a semplici trasposizioni narrative, ma venivano arricchite dal suo specifico gusto figurativo rinascimentale. La capacità di Zeffirelli consisteva nel saper costruire un’orchestrazione complessa in cui la cura minuziosa per ogni singola componente della scena era in grado di creare una fascinazione visiva totalizzante. La magniloquenza delle scenografie doveva suscitare un immediato sentimento di stupore ancor prima che gli attori potessero iniziare a recitare (si pensi alla sontuosa e faraonica scenografia dell’Aida ripresa all’Arena di Verona nel 2010). Proprio questo asservimento della regia totale viscontiana a una grande idea di spettacolo portò Zeffirelli, a differenza del suo maestro, a imporsi come un regista teatrale internazionale mettendo in scena diversi spettacoli all’estero.
Il caso più celebre fu nel 1959, quando il direttore del teatro Old Vic di Londra propose al regista italiano di realizzare Romeo e Giulietta nella patria di Shakespeare, segnando il suo debutto nel teatro in prosa. La produzione di Romeo e Giulietta fu un successo tale da rivoluzionare la messa in scena shakespeariana, dando vitalità alle battute invece di farle recitare come fossero dei componimenti poetici, e ricreando la sostanza drammatica dei personaggi attraverso l’uso di attori giovanissimi non di tradizione, collocati in un allestimento dall’inconfondibile atmosfera italiana (lo stesso principio che anima il Romeo e Giulietta di Mario Martone in scena in questi giorni al Piccolo di Milano).
Ed è proprio a partire dal lavoro su Shakespeare che, sul finire degli anni sessanta, Zeffirelli si impose come regista cinematografico di grande successo internazionale con le trasposizioni filmiche de La bisbetica domata (1967) e di Romeo e Giulietta (1968), quest’ultimo vinse due premi Oscar rispettivamente per la migliore fotografia e i migliori costumi. Se nel primo caso i protagonisti erano Elizabeth Taylor e Richard Burton, nel secondo è ancora la scelta di giovani attori a tradurre nell’immagine quella libertà che aveva caratterizzato il lavoro sulla scena. Anche l’accompagnamento musicale composto da Nino Rota contribuì a enfatizzare l’atmosfera romantica e malinconica, tanto che il film fu ritenuto dalla critica il più raffinato capolavoro del regista fiorentino. Non a caso il senso dell’intera produzione cinematografica di Zeffirelli – più eterogenea e diversificata rispetto a quella teatrale – è precisamente segnato da una verticalità tra cultura alta e bassa, tradizione e innovazione, a partire dai legami con il melodramma e il romanzo Ottocentesco ne La traviata (1983), Amleto (1990) e Jane Eyre (1996); o dagli sconfinamenti hollywoodiani de Il campione (1979) e Amore senza fine (1981).
Negli ultimi lavori Callas Forever (2002) e Omaggio a Roma (2009) – rispettivamente un film biografico e un documentario – il regista dimostrò ancora una volta la sua versatilità nel trattare generi e tematiche diverse, pur mantenendo sempre una particolare sensibilità estetica. Zeffirelli, in definitiva, ha saputo aggiornare la grande eredità viscontiana portandola a un piano di semplificazione, radicalizzando ogni forma di mediazione emotiva, e privandola del suo diaframma intellettuale pur partendo da una struttura come quella del repertorio classico e melodrammatico. In fondo, in questa produttiva contraddizione risiede il segreto del suo grande successo.
Riferimenti bibliografici
F. Zeffirelli, Autobiografia, Rizzoli, Milano 2023.
Franco Zeffirelli, Firenze 1923 – Roma 2019.