C’è un passo del Romeo e Giulietta di Shakespeare giustamente famoso. Giulietta si chiede che cosa sia un nome, e pensa alla possibilità di separare i nomi dalle cose: «Cosa c’è in un nome?» «Romeo, spogliati del tuo nome, che non è parte di te, e in cambio del tuo nome, prendi tutta me». E Romeo risponde: «Chiamami amore e sarò battezzato di nuovo / D’ora in poi non sarò più Romeo» (Shakespeare 2023, pp. 133-135). In queste battute si annida il segno profondo della catastrofe e della morte, peraltro annunciate sia letteralmente sia metaforicamente lungo tutto il dramma.

Il linguaggio determina lo scarto con la realtà. È quello scarto che dà la possibilità di re-invenzione del rapporto tra uomo e mondo, di cui l’amore è l’esperienza fondamentale. E di cui la commedia è il genere che di questa esperienza ne custodisce il segreto narrativo, attraverso equivoci e peripezie che rendono il tra (l’io e l’altro) il modo proprio di una vita orientata verso l’happy end. Che Romeo si voglia spogliare del suo nome per essere ribattezzato da Giulietta incarna il tragico del senza scarto, la simbiosi del senza intervallo, l’annullamento di sé come alterità distinta. Il fatto che il linguaggio sia la parola che non nomini il mondo, ma lo istituisca e con ciò se ne appropri, è in questo la tragedia. Perché lo scambio tra le parole e le cose perde la sua parzialità riformulabile (di cui l’equivoco commedico è il segno maggiore) e diventa assoluto e impossibile. Non concerne più la parte ma il tutto, come dice Giulietta, invitando Romeo a rinunciare al nome per poterla prendere «tutta».

Non c’è più tempo per nulla a quel punto, neanche per l’amore, ma solo per la tragedia. Cioè per il genere che ci dice che si arriva sempre “troppo tardi”, o anche “troppo presto”. Troppo presto Romeo dimentica Rosalina, troppo presto si innamora di Giulietta, troppo presto si sposano. Ma il matrimonio essendo clandestino non ha valore pubblico, quindi non ribalta il potere del senex iratus che lo ostacola, come invece accade nella commedia. I vecchi stanno lì, con il loro linguaggio osceno e violento, si odiano tra di loro, tra famiglie, da “troppo tempo”, e odiano i giovani, da un lato perché vogliono requisirne per interesse il desiderio, dall’altro per malcelata invidia e rivalità.

Così come “troppo tardi” i giovani sposi vengono raggiunti da chi li avrebbe dovuti salvare. Bastava poco − come sempre − perché quel finale si convertisse da tragedia in commedia. Bastava “arrivare in tempo” per il riconoscimento da parte di tutti di come stavano le cose. La tragedia riguarda sempre la precipitazione irriscattabile del tempo, la commedia la sua riapertura dopo la crisi. In Romeo e Giulietta abbiamo il comico, che abbassa con il linguaggio osceno e volgare il tratto aulico ed idealizzante dei due giovani innamorati, ma nessuna commedia.

Mario Martone, con un’operazione di grande forza ed originalità creativa, a cui ci ha abituato da anni (in primis a teatro e all’opera), nel suo Romeo e Giulietta in scena al Piccolo di Milano, prende il testo di partenza, già disponibile per genesi e struttura ad essere anche radicalmente cambiato nell’adattamento (come ben scrive Carmen Gallo nella sua introduzione alla nuova traduzione del dramma, cfr. Shakespeare 2023), per usarlo accentuandone le polarità oppositive.

L’alto e il basso è la grande polarità che articola l’invenzione stessa della scena affidata a Margherita Palli. Un grande albero che orizzontalmente la taglia e divide parte superiore e inferiore. In alto il bosco dove si vive, c’è aria e si festeggia (con ritmi da discoteca), in basso il fango, dove c’è violenza, morte, contagio. Questi due mondi si oppongono ma anche specularmente si corrispondono, con un passaggio costante da sopra a sotto. E questo corrispondersi crea una specie di universo chiuso, dove la passione folle di due adolescenti si converte nello spargimento di sangue della guerra tra bande di giovani.

Tra il Romeo che vorrebbe essere come un “uccellino” legato al “filo di seta” della sua amata che lo “riafferra di nuovo” e quello che poi uccide Tebaldo per vendetta non c’è soluzione di continuità. L’uno si ribalta nell’altro, e tutti si riflettono nella grande faida che da “troppo tempo” dura tra le famiglie dei Capuleti e dei Montecchi. E Martone nell’adattamento del testo − come lui stesso sottolinea − per accentuare la “contemporaneità” di Shakespeare cancella il personaggio del Principe, che rappresenta comunque un principio d’ordine, per quanto debole, in un mondo sempre sull’orlo del caos. E il posto del potere sovrano, che resta vuoto, è occupato nello spettacolo dal potere biopolitico (per usare il lessico di Foucault), che si esercita attraverso i dispositivi medici di controllo, come i tamponi a cui vengono sottoposti i ragazzi. E in mezzo c’è un improbabile potere disciplinare, rappresentato dal troppo ambiguo frate Lorenzo, più vicino a un servo intrigante che ad un educatore religioso.

In questa deriva dei poteri, dove la pandemia di oggi richiama la peste di ieri, non sembra esserci alternativa alla dicotomia radicale tra l’illusione dell’ideale, che ha corrispondenza nella poeticità del linguaggio, e un cinismo ed una brutalità di chi quegli ideali ha dimenticato e li ricorda solo in un passato oramai lontano: «Quanto tempo è passato dalla nostra ultima festa in maschera?» «Madre mia, saranno trent’anni» si dicono Capuleti e il cugino (ivi, p. 113). In una vita divisa tra la ferocia degli ideali di gioventù e il cinismo e la brutalità degli adulti, nel caos di un potere assente e di una tradizione segnata dall’eredità soffocante di una faida tra famiglie, non sembra esserci via di uscita che non sia la precipitazione tragica.

Se la commedia è «a movement from illusion to reality» (Frye 1990, p. 169), la tragedia è la frantumazione irriscattabile di tale illusione, l’impossibilità di un accesso alla realtà, se non nel suo aspetto brutale che della realtà nega il carattere principale, cioè il suo divenire, il suo mutare (di cui l’avvicendamento generazionale è il primo contrassegno). Un principio di realtà che viene in parte incarnato da un personaggio come Giulietta, con il suo desiderio di crescere, di perdere la verginità, di accedere a quella che con espressione splendida Shakespeare chiama «love-performing night», dove tra amore e performance, amore e messa in scena, c’è un trattino che le connette. Perché l’amore è inseparabile da una messa in scena, che allo stesso tempo unisce e separa il “due”. Rende prossimi gli amanti, ma allo stesso tempo li allontana dalla combustione passionale, come nelle sue commedie Shakespeare ci ha mirabilmente rappresentato.

In Romeo e Giulietta niente di tutto questo, il desiderio dei giovani o è sequestrato e assorbito dalla volontà e dagli interessi degli adulti, o è guidato da metteur en scène maldestri come il frate, o è negato dai giovani stessi che immaginano perfino di cancellare il loro nome come segno d’amore. Lo spettacolo di Martone, che affida a Chiara Lagani una nuova traduzione del testo, orientata ad attualizzarlo anche nel lessico, e a un gruppo di bravi attori, perlopiù giovani, il compito di dare corpo e voce ai personaggi shakespeariani, ci dice con grande forza che ora come allora il problema è come le giovani generazioni si possano emancipare dai dispositivi di potere e dalle gabbie ereditate dal passato, per far sì che un inesorabile destino tragico si trasformi nell’apertura commedica di un nuovo possibile futuro.

Riferimenti bibliografici
N. Frye, Anatomy of Criticism, Princeton University Press, Princeton 1990.
W. Shakespeare, Romeo e Giulietta, introduzione, note e nuova traduzione di Carmen Gallo, Rizzoli, Milano 2023.

Foto di Masiar Pasquali.

Romeo e Giulietta di William Shakespeare. Adattamento e regia: Mario Martone; scena: Margherita Palli; costumi: Giada Masi; suono: Hubert Westkemper; luci: Pasquale Mari; interpreti: Paola Rota, Alessandro Bay Rossi, Gabriele Benedetti, Leonardo Castellani, Michele Di Mauro, Raffaele Di Florio, Emanuele Maria di Stefano, Francesco Gheghi, Jozef Gjura, Lucrezia Guidone, Licia Lanera, Anita Serafini, Benedetto Sicca, Alice Torriani; produzione: Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa; 180′; anno: 2023.

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