Helen Mirren è l’interprete che, con ogni probabilità, meglio ha incarnato negli ultimi trent’anni la parabola fisiognomica della regalità e lo ha fatto nell’accezione più appropriata, scivolando con garbo e disinvoltura attraverso tutti gli stati di quella polimorfica materia di cui sono fatti i sogni: dal teatro (shakespeariano e non) alle grandi narrazioni biografiche disseminate tra il cinema d’autore e le produzioni televisive. È stata Elizabeth I (nell’omonima miniserie diretta da Tom Hooper nel 2005) tra ben due Cate Blanchett – altra riconoscibilissima “regina” del grande schermo, santificata da Shekhar Kapur nel dittico Elizabeth (1998) ed Elizabeth: The Golden Age (2007) – e l’anno successivo ha riplasmato le sue procaci sembianze sulla composta maestà di Elisabetta Windsor (The Queen – La regina, Frears, 2006), affermandosi come protagonista indiscussa della stagione dei premi.
Non è un caso se, durante la cerimonia degli Academy Awards del 2008, quando una splendente Mirren, in rosso lungo e maniche di diamanti, annuncia dal palco la vittoria di Daniel Day-Lewis, candidato a miglior attore protagonista per Il petroliere (Anderson, 2007), l’attore le renda apertamente omaggio inginocchiandosi al suo cospetto e lasciando che the queen porti a compimento, seppure un filino impietrita di fronte a cotanto atto di sottomissione, qualcosa che somiglia a una cerimonia d’investitura cavalleresca, con la statuetta che fa il verso alla spada: “This is the closest I’ll ever come to getting a knighthood, so thank you”, sono le prime parole pronunciate da Day-Lewis nel suo discorso… Arise, Sir Daniel!
Aneddotica pseudo-araldica a parte, è come se, da quel preciso istante, Helen Mirren non sia più stata altra, nel senso che la sua sostanza fotogenica – ormai incontrovertibilmente regale, nonché “elisabettiana” – da allora ha continuato a tornare, irradiandosi nell’universo mediale fino a invadere i territori immaginifici della nuova serialità televisiva. È, infatti, a partire da un’altra sua “Elisabetta II”, interpretata a teatro nella pièce The Audience (2013) del drammaturgo Peter Morgan (già sceneggiatore di The Queen), che prende forma il personaggio protagonista del fenomeno Netflix The Crown, giunto quest’anno alla terza stagione. Così come è dalla penna di quello stesso Nigel Williams autore di Elizabeth I che nasce l’ultima regina mirreniana: immensa, enorme, magnifica, Caterina la Grande.
La serie – diretta da Philip Martin, regista di The Crown, e prodotta da Mirren stessa – dipinge in quattro episodi un sontuoso scorcio policromo dell’impero della celebre zarina Caterina II, che detronizzò il marito, Pietro III, e mantenne il potere in Russia da sola per circa 34 anni, fino alla sua morte, avvenuta nel 1796. Oltre a rivisitare alcuni passaggi storici fondamentali, emendati dal florilegio di amenità che da sempre accompagnano la figura della monarca – tutte più o meno ascrivibili alla sua (pare) comprovata vivacità sessuale – il plot sviluppa le vicende relative alla relazione di natura sentimentale, seppur dichiaratamente apertissima, tra Caterina (Helen Mirren) e Grigory Potemkin (Jason Clarke), l’ambizioso giovane tenente che diviene il maggiore fautore dell’espansione territoriale russa, consegnando nelle mani della sua spietata domina – un’amante della pace che non disdegna i grandi eventi della guerra – lo scettro di un potere mai raggiunto prima.
L’Imperatrice e il Paladino, la Tiranna e il Sicario, l’Icona e il Sacerdote, la Strega e il Famiglio: sono l’uno il riflesso delirante dell’altra, le due estremità di un’unica superficie ambivalente. Impossibile decodificare i termini del ménage o stabilire il ruolo giocato da fattori quali ambizione, avidità, lussuria, possesso, interesse, morale, ragion di stato. È la solita vecchia storia, sono gli stessi protagonisti ad ammetterlo verso la fine (“Come ci siamo ridotti?!… – e ancora – Andando dove si deve andare e facendo ciò che si deve fare, l’amore si consuma…”): fin dove si è disposti ad arrivare per assurgere all’empireo della gloria e per restarvi il più a lungo possibile? Eppure l’impressione è quella che non si tratti di quel tipo di storia, ma piuttosto di una storia nuova.
Forse la serie ci sta imbrogliando. Forse il manto color sangue della zarina – che nei titoli di testa dilaga come una marea sospingendo i galeoni alla folle conquista di ogni limite conosciuto – costituisce soltanto un velo, un sipario, un rivestimento esterno funzionale alla messa in scena (opulenta, sfarzosa, tardobarocca) del dramma pubblico di una donna diversamente illuminata (in grado di mostrare al mondo di cosa le donne siano capaci), amante della ragione, del progresso, dei motti di spirito e di Voltaire – “Tu perfida, egoista, spregiudicata, corrotta, eccitante, vecchia strega!”, le sussurra Grigory, abbracciandola dolcemente, nel corso del loro ultimo incontro.
La verità sull’amore tra Caterina e Potemkin palpita al di là di quella scena, oltre la cupezza dorata che impregna le atmosfere e gli ambienti (immortalata da una fotografia sorprendente), e si allarga verso orizzonti invisibili, più lievi, più vasti. È altrove, nel senso che si trova letteralmente da un’altra parte. Prescinde da tutto ciò che ci viene mostrato: dagli stucchi, dalla malachite, dal granito, dai broccati, dalle crinoline, dalle pellicce, dai gioielli, dalle divise, dai tricorni piumati, dagli assassinii, dai tradimenti, dalle congiure, dalla lontananza, dalla malattia, dalla morte, dalla Storia e, dico forse, prescinde perfino dalla Tragedia.
Perché laddove svaniscono Storia e Tragedia, resta l’amore come affare privato dell’anima (…io, tu, là, qua, ora…), eccedenza di senso, scelta sconsiderata, ipote(ti)ca di immortalità. L’amore come espediente commedico che si insinua nel tessuto narrativo sfibrandone l’assetto generico: Caterina e Grigory recitano in società il dramma senza speranza degli amanti maledetti che si approssimano alla caduta, ma nella loro intimità sono due ridenti personaggi da commedia, un uomo e una donna che si confrontano strenuamente sul campo di una battaglia identitaria universale (l’eterna guerra dei sessi), pronti a restare fedeli a loro stessi pur non avendo voce in capitolo, a ribaltare i ruoli – anche soltanto per finta, assecondando il carnascialesco cerimoniale di un ballo in maschera – e a riscommettere nel tempo sulla loro unione.
Testimone shakespeariano del segreto è il fool (il pazzo, l’ubriacone, il buffone di corte) che attraversa i saloni del palazzo imperiale come un bonario fantasma, inveendo contro l’ipocrisia dei dignitari a suon di versi. È proprio lui a farsi portavoce nell’epilogo, quando la storia sembra ormai essere finita, della verità più scomoda e oltraggiosa, quella strategicamente rimossa dai libri di storia: un matrimonio, come prescrive il mythos commedico più autentico. E, dunque, quella fugace cerimonia, celebrata nel riverbero aureo delle candele, è reale o è soltanto un sogno, una falsa memoria creata ad arte? Non esiste risposta soddisfacente (anche se la serie ci fornisce dettagli rivelatori a riguardo) perché quello della commedia è un mondo libero e l’inversione può avere luogo in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, reale o supposto. A noi spettatori interessa soltanto poter riconoscere che un qualche giuramento sia stato perpetuato. “I poeti vorrebbero che ci credessimo, ma che cosa ne sanno loro?”, conclude il buffone. Adesso la storia è finita sul serio.
Tirando le somme di questo strampalato discorso, popolato di dive-regine che non smettono mai di tornare (migrando di storia in storia, di schermo in schermo, di palcoscenico in palcoscenico) e di commedie nascoste, viene in mente l’adagio di Marx secondo cui i grandi personaggi della storia si ripresentano due volte: la prima come tragedia, la seconda in forma di farsa. Ebbene, forzando l’argomentazione in chiave ludica, potremmo azzardare che ci sono dei casi specifici – e Caterina la Grande è uno di questi – in cui certe regine possono ripresentarsi a noi, pubblico riconoscente, nelle vesti rigenerate di magnifiche eroine commediche.