Quando, nel novembre del 2016, è apparso il primo teaser di Cars 3 buona parte dei fan e della critica ha levato grida di allarme, dai toni a tratti apocalittici, circa il futuro della Pixar.
Il primo cupo promo dell’opera diretta da Brian Fee presentava infatti, in pochi, rapidi flash, lo spaventoso incidente di cui è vittima, durante una delle prime gare del film, Saetta McQueen, assalito da vetture di nuova generazione ultraveloci e aggressive. Quella rappresentata non era più una mirabolante e giocosa carambola da cartoon, come nell’incipit del primo Cars, bensì un incidente realistico la cui drammaticità veniva sottolineata da un rallenty esasperato e da cromatismi spenti e desaturati bagnati da una luce spettrale. A suggellare tale quadro, rendendolo ulteriormente inquietante, era il cartello finale che recitava: «Da questo momento tutto cambierà».
Nello sconcerto generale del popolo della rete, qualcuno si spinse persino a mettere in relazione il promo al quadro politico determinato dall’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti: “Trump non si è ancora insediato – scriveva Matthew Dessem il 21 novembre 2016 nel blog di un seguitissimo magazine americano – e già il mondo sembra un posto molto più preoccupante. […] Questo teaser non assomiglia a quello di una commedia spensierata ambientata nel mondo delle “stock car” da corsa; sembra piuttosto il primo atto di Mare dentro”.
Se la lettura ideologica di quei pochi frame appariva già all’epoca piuttosto fuori luogo (è su un piano più articolato che semmai nella produzione pixariana deve essere rintracciato un “discorso politico”), l’impressione che quel “deserto infernale di petrolio e di fuoco e cemento e distruzione” (Dessem) suggerisse la configurazione di un orizzonte maggiormente adulto viene invece confermata dalla visione del film nella sua interezza e complessità. Cars 3 infatti è una delle opere più crepuscolari e autoriflessive della Pixar.
C’è azione, certo, nel film di Fee. C’è anche comicità quel tanto che basta per tenere desta l’attenzione del pubblico più infantile. Cars 3 tuttavia, ben più degli altri episodi della saga, guarda dritto negli occhi il pubblico più adulto per chiamarlo in causa in una serie di considerazioni riguardanti prima di tutto, come sempre nella tradizione dello studio californiano, la fucina da cui quelle immagini sono uscite, configurandosi come un potente resumé dei principali e più nevralgici motivi, prioritariamente di stampo identitario, che hanno via via pervaso la Pixar come “sistema culturale”.
Da un lato, ad esempio, Cars 3 conferma l’impegno della compagnia di Emeryville, specie dopo la “svolta femminista” di Ribelle – The Brave (Andrews, Chapman e Purcell, 2012), a lavorare sulle questioni connesse all’identità di genere, orizzonte in cui Saetta dimostra di essere ormai definitivamente approdato dall’iniziale, predatoria condizione di maschio alfa del primo episodio, ad una “soft masculinity” (J. W. Malin, American Masculinity under Clinton. Popular Media and the Nineties «Crisis of Masculinity», Peter Lang, 2005, pp. 57-59) contraddistinta da una forza non più individuale bensì fondata sulla cooperazione e l’altruismo. Questo spirito comunitario, familiare a tanti film della Pixar, si fonda nella fattispecie sull’unione di maschile e femminile laddove è la new entry del personaggio della coach/runner Cruz Ramirez a rappresentare il vero e proprio completamento di Saetta sia sul piano performativo che su quello identitario. Se la scelta di continuare a puntare su una femminilità emergente sembra rispondere all’intento di allontanare definitivamente la Pixar dalla vecchia accusa di costituire un “boys club” (anche il sequel de Gli Incredibili, previsto per l’anno prossimo, sarà caratterizzato da un netto sbilanciamento sul profilo di Elastigirl), nel contempo essa ha certamente lo scopo di avvicinare al merchandising dei prodotti derivati di Cars, tradizionalmente destinato a un pubblico maschile, anche la platea femminile.
Lo stesso merchandising, del resto, è un altro cruciale tema di riflessione al centro di questo film e dell’intero “sistema Pixar”, come attestano già i primi due episodi di Cars ma anche Toy Story, l’altra saga popolata per eccellenza da beni di consumo (non a caso, i due franchise sono posizionati rispettivamente al secondo e al quinto posto della classifica dei prodotti cinematografici con il miglior merchandising di sempre…).
È il “sex appeal dell’inorganico” di benjaminiana memoria (I «passages» di Parigi, Einaudi, pp. 10-11.) che, soprattutto in un’opera popolata da automobili parlanti antropomorfe, torna a far riflettere sulla propensione pixariana a mettere in scena creature (o intelligenze) artificiali a cui l’umanità sembrerebbe aver delegato la propria natura.
Come succedeva a Woody e Buzz nei primi due episodi di Toy Story, anche il protagonista di Cars 3 viene messo di fronte alle evidenze della propria mercificazione, qui intesa quale unica possibilità di sopravvivenza al di là dell’inevitabile fine. Dopo averlo condotto di fronte a una serie di prodotti che portano il suo marchio, è il capitalista Sterling a cercare infatti di convincere Saetta che solo attraverso il suo brand potrà sopravvivere la sua eredità per i posteri.
Pur mantenendo la loro natura di merci derivate da sistemi di produzione standardizzati, le automobili come i giocattoli, in quanto esseri senzienti, nei mondi pixariani si candidano quindi a ideali personificazioni di questioni fondamentali, come quelle dell’origine e della fine, profondamente intrecciate con la visione capitalistica da cui derivano. In tale luce la stessa contestata pratica del sequel, di cui il film di Fee è l’esito ultimo, appare come il reiterato tentativo, voluto in primis dalla casa madre Disney, di allungare il più possibile la vita dei propri redditizi prodotti.
C’è poi, soprattutto, al cuore di Cars 3 l’ennesimo confronto/scontro tra passato e futuro. La competizione tra l’ormai obsoleto Saetta McQueen e il bolide hi-tech Jackson Storm è, ancora una volta, l’occasione per esprimere quella visione retrofuturistica in cui si radica la composita filosofia che sostiene e alimenta la Pixar e che a sua volta trova il suo humus in una dimensione politica ed economica nella quale la tecnologia riveste un ruolo centrale. Come nei romanzi di fantascienza di Robert A. Heinlein o Isaac Asimov, essa vi ricopre infatti la nevralgica funzione di ponte verso il futuro e il passato contemporaneamente, costituendosi quale sentiero che conduce verso una nuova forma di società tornando simultaneamente a valorizzare l’America primigenia dei Padri fondatori.
Figura paterna in tal senso è certamente il vecchio Doc Hudson, sineddoche della rimpianta America dei “Fifties”, mentore di Saetta uscito di scena dopo il primo episodio e in Cars 3 rievocato in più momenti quale vera e propria presenza fantasmatica. Considerando che la sua voce in originale è quella di un attore nel frattempo scomparso come Paul Newman (ricavata da una serie di scarti del doppiaggio), la sua presenza spettrale contribuisce a rendere Cars 3 un film a tratti “mortuario”, ricollegandolo in tal senso a una consuetudine hollywoodiana, oggi piuttosto in voga, votata a punteggiare le proprie produzioni di revenant digitali di attori deceduti.
Da questo punto di vista Cars 3 è film di rianimazione a tutti gli effetti laddove è proprio la tecnologia più spinta, quella che presiede ai formidabili software elaborati negli anni dalla Pixar (primo tra tutti il Renderman), a mettersi al servizio di un immaginario, già estremamente pervasivo nelle opere precedenti, in cui viene rivitalizzato il passato con i suoi miti e i suoi simboli (D. Meinel, Pixar’s America. The Re-Animation of American Myths and Symbols, Palgrave Macmillan, 2016), anche nella forma di tecnologie in disuso o di oggetti arcaici e obsoleti. Si tratta di un mondo e una cultura cui si guarda con rimpianto e malinconia al fine di trattenerne i germi più vitali dai quali far scaturire una produttiva reinvenzione del futuro.
Il cinema stesso, naturalmente, è al centro di questo scenario, a partire dalla materia originaria su cui si fonda: la pellicola. Come già in Up (Docter, Peterson, 2009) o in WALL•E (Stanton, 2008), ecco allora anche in Cars 3 il gusto vintage per il filmato d’epoca in cui sono immortalate le gesta dell’eroe di turno (in questo caso quelle dello stesso Doc), rese ancor più mitiche dall’aura emanata dalle graffiature, dalle imperfezioni della pellicola, dai segni del tempo impressi su quella “piccola pelle”. Anche per il protagonista di Cars quelle immagini sono specchi nei quali proiettare o ritrovare parti fondamentali della propria identità e da cui trarre linfa per compiere un percorso di crescita libero e consapevole, in ossequio a quel fondamentale cammino di maturazione dalla condizione infantile a quella adulta che lo studio d’animazione pone da sempre al centro delle proprie opere.
Usciti dalla visione di Cars 3 si ha l’impressione che, compiuto quest’arco di maturazione, giunta alla sua età adulta, sia la Pixar stessa ad aver voluto sottoporre al pubblico, forse per un’ultima volta, il nostalgico album di ricordi della propria “golden age”, nella convinzione che, per intraprendere un nuovo percorso, come succede a Saetta, non si possa in alcun modo prescindere dal proprio passato.
Lo slogan che spicca nel trailer di Coco (Unkrich, Molina), il nuovo film dello studio americano in uscita a Natale in Italia, sembrerebbe confermare pienamente tale ipotesi: “Il nostro passato continua a vivere in noi”.
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, I «passages» di Parigi, in Id., Opere complete (IX), Einaudi, Torino 2000.
M. Dessem, Great. Donald Trump Is Even Ruining Pixar Movies Now. That’s Just Great, in “Browbeat” (November 21, 2016).
B. J. Malin, American Masculinity under Clinton. Popular Media and the Nineties «Crisis of Masculinity», Peter Lang, New York-Bern-Berlin-Bruxelles-Frankfurt am Main-Oxford-Wien 2005.
D. Meinel, Pixar’s America. The Re-Animation of American Myths and Symbols, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2016.