di ANTONELLA DI GANGI
Caravaggio, Napoli, la mostra al Museo e Real Bosco di Capodimonte.

San Giovanni Battista, 1610
Una mostra che si apre sull’eco di una polemica. Una polemica che dovrebbe costringerci a riflettere sull’urgenza del fare mostre che, inevitabilmente, priva le opere esposte de «l’hic et nunc dell’opera d’arte – [del]la sua esistenza irripetibile nel luogo in cui si trova» (Benjamin 2011, pp. 6-7), ma che dalla lettura del comunicato stampa del Pio Monte della Misericordia sembra dettata più da questioni politiche che teoriche, di sicurezza dell’opera o di rispetto di antiche deliberazioni. In qualche caso, però, si inaugurano, al di là dell’occasione delle mostre, fruizioni altre che favoriscono confronti, analisi, percorsi teorici e compensano l’allontanamento delle opere dalle sedi ospitanti, il più delle volte in verità già diverse dalle destinazioni originarie. Si rendono così possibili approfondimenti o esperienze (come nel caso della mostra milanese Dentro Caravaggio) che grazie alla riproducibilità tecnica ampliano i confini della percezione senza privare l’opera della propria aura e che nel caso della mostra di Napoli vengono rimandati a una visione a distanza.
Vale la pena quindi abbandonare le polemiche e soffermarsi sull’opportunità offerta da Caravaggio Napoli – a cura di Maria Cristina Terzaghi e Sylvain Bellenger, visitabile al Museo e Real Bosco di Capodimonte dal 12 aprile al 14 luglio 2019 – che ci ricorda come «mai il Caravaggio si sia sentito più libero che in questo primo argomento napoletano» (Longhi 1982, p. 104), offrendoci la lettura – seppur dislocata tra il Museo di Capodimonte e il Pio Monte della Misericordia – del prodotto dei due soggiorni dell’artista a Napoli: un primo tra l’ottobre del 1606 e il giugno del 1607 e un secondo nell’ottobre 1609, prima di lasciare la città «feriuto nel viso» e «pieno di acerbissimo dolore» nell’estate del 1610 diretto a Roma, che mai raggiunse in quanto, come ci ricorda il Bellori, «scorrendo il lido al più caldo del Sole estivo, giunto a Porto Ercole, si abbandonò, e sorpreso da febbre maligna, morì in pochi giorni».
La mostra di Capodimonte offre uno sguardo inedito sui diciotto mesi napoletani, fase molto feconda anche secondo il giudizio unanime dei suoi biografi sei-settecenteschi, concordi nel definirlo periodo in cui il Merisi «operò molte cose» (Baglione), quando ogni volto, ogni gesto è intriso di drammaticità colta in fermi immagine che si esaltano nei bui, negli abbagli, nei riverberi di un continuo mettere in scena l’aspetto umano anche del suo dramma. Le Sette opere di Misericordia, le Flagellazioni, le Salomè con la testa del Battista, il Martirio di Sant’Orsola e il San Giovanni Battista, ci raccontano di questo periodo offrendo confronti inusuali tra le opere, estesi anche a quelle dei «molti […] che imitarono la sua maniera nel colorire del naturale» e che furono «chiamati perciò Naturalisti» (AA.VV. 2010, p. 114), dei quali sono proposti dipinti che, in qualche caso, replicano i soggetti dei quadri del Caravaggio esposti in mostra o dialogano con le opere del maestro che li hanno ispirati.
Infatti, nonostante la nota diffidenza degli artisti locali per quelli stranieri, il Merisi condizionò fortemente e a lungo la produzione artistica di Louis Finson, Battistello Caracciolo, Carlo Sellitto, Filippo Vitale, Fabrizio Santafede e Giovanni Bernardino Azzolino, artisti attivi a Napoli, che contribuirono alla diffusione del linguaggio caravaggesco oltre i confini italiani. Una permanenza evidentemente produttiva nonostante l’assenza di “amicizie”, come le definisce Sybille Ebert-Scifferer nel saggio Amici e nemici, la rete sociale di Caravaggio (AA.VV. 2017, p. 293) – fatta eccezione per la protezione della marchesa Costanza Colonna –, che avrebbero potuto sostenere e favorire la produzione artistica di Caravaggio durante il soggiorno partenopeo, nel quale realizzò altre due opere oltre quelle oggetto del percorso espositivo: la Negazione di San Pietro (ora al Metropolitan Museum di New York), che per il Bellori si impone per il «colorito à lume notturno, con altre figure, che si scaldano al fuoco» e la Crocifissione di Sant’Andrea (The Cleveland Museum of Art ha rifiutato il prestito dell’opera perché appena restaurata) che consacra, invece, l’ingresso dell’artista nella cerchia delle committenze napoletane più altolocate, quando tra il 1606-1607, finalmente ottenne l’incarico dal viceré spagnolo Juan Alonso Pimentel de Herrera. La presenza del dipinto avrebbe consentito un ulteriore dialogo tra il Martirio di San Sebastiano di Finson, la Crocifissione di Battistello, il Martirio di Sant’Agata di Stanzione e il San Sebastiano di Hendrik De Somer.
Caravaggio si considerava «portatore del vero lume […], testimone della pura verità del sacro avvenimento» (AA.VV. 2017, p. 289), finendo col creare uno stile oggetto di derisione da parte dei suoi avversari che lo definivano “sotto terra” alludendo alla sua pittura fortemente chiaroscurale. Questo allestimento, riprendendo ed esaltando i bui e i puntamenti di luce della pittura del maestro lombardo, ci immerge nell’atmosfera pittorica del vero lume, che illumina con i suoi bui anche il dramma napoletano dell’artista in fuga.
Il percorso parte dall’emozionante confronto offerto dalla Flagellazione, di Rouen e di Napoli: due opere con lo stesso soggetto ma che, per il differente orientamento delle tele, posizionano diversamente il Cristo. I toni scuri e la passiva accettazione del martirio nella Flagellazione di San Domenico (contrariamente a quanto accade nel dipinto di Rouen, dove il Cristo abbandona la centralità del quadro, si sposta all’estremità della tela con lo sguardo, tende il corpo quasi a fuoriuscirne, conferendo così marginalità al tema stesso della flagellazione) rafforzano l’ipotesi del Longhi di una possibile appartenenza della versione di San Domenico al secondo periodo napoletano. Ma il dialogo si estende alla Salomè londinese della sala successiva per l’apparire della replica del carnefice del Cristo di Rouen in quello del Battista della National Gallery. La sua presenza si impone alla vista già da questa sala mentre continua il dialogo con il Cristo alla Colonna di Battistello Caracciolo: qui l’evento si riduce al Cristo e al flagellatore, di nuovo posti in figura intera, ma con il taglio fotografico del flagellatore che restituisce centralità a una ancora diversa drammatica espressione del volto di Cristo.
Di nuovo un potente dialogo tra le Salomè con la testa del Battista, di Madrid e di Londra, dal quale emerge il passaggio dal linguaggio più luminoso della Salomè avvolta da un mantello rosso e protagonista della scena, a quello più cupo di una Salomè che cede la sua preminenza alla testa mozzata del Battista mentre emette l’ultimo respiro. La tavolozza di Londra diviene più essenziale, la gamma cromatica si riduce, il dramma del Battista ma anche quello personale del Merisi appaiono più accentuati, come nel Martirio di Sant’Orsola, suffragando così l’ipotesi della sua datazione più tarda rispetto a quella spagnola. Infatti, l’autoritratto offerto nella testa di San Giovanni è ancora grondante sangue, è sostenuto e posto in primo piano dal carnefice, che differentemente da quello di Madrid svolge un ruolo attivo e partecipe condiviso con Salomè, mentre le teste della vecchia e del Battista si volgono insieme inesorabilmente verso il basso. Nel dipinto spagnolo, invece, l’inclinazione delle teste dei quattro personaggi in scena non fa da eco a nessun’altra. Ognuno recita la sua parte. Il dramma è compiuto.
Nel Martirio di Sant’Orsola possiamo poi apprezzare l’evoluzione del metodo a risparmio, messo a punto a fronte dell’esiguo tempo a disposizione per la realizzazione delle due grandi tele della Cappella Contarelli. Un metodo che in quest’opera diviene sempre più essenziale: preparazione scura, rare incisioni per definire i punti di riferimento, abbozzo a pennello, e definizione delle figure solo attraverso i colori chiari. La preparazione entra a far parte, come dimostrato da Falcucci nel suo “Come dipingeva il Caravaggio”? Forse così (AA.VV., Milano 2017), della gamma cromatica dell’opera. Il vero protagonista del dipinto è il buio, nel quale riverberano come lampi i volti della santa martire, del tiranno che la trafigge e dei due soldati, tutti intensificati anche dal riflesso della luce. Ma il nostro sguardo si posa sullo sguardo attonito della martire che nel guardare la ferita esce fuori di sé, prende distanza dall’accaduto nel colmarsi di luce bianca. «“Guardare” significa anzitutto badare [garder], warden o warten, sorvegliare, custodire, [prendre en garde] e fare attenzione [prendre garde]. Avere cura e preoccuparsi. Guardando veglio e (mi) sorveglio; sono in rapporto con il mondo non con l’oggetto» (Nancy 2002, pp. 57-58).
E da questo guardare emerge drammaticamente l’ultimo autoritratto di Caravaggio che con sant’Orsola occupa lo spazio della vittima, sembra condividerne lo statuto, ma non guarda e custodisce, piuttosto tenta un’ultima dolente e stupefatta resistenza. Resistenza che potrebbe concretizzarsi nel San Giovanni Battista della Galleria Borghese, che conclude il percorso della mostra, unanimemente riconosciuto tra le ultime opere realizzate dall’artista, destinata al Cardinale Scipione Borghese per chiedere al Papa Paolo V il perdono e il rientro a Roma. E finalmente le Sette opere di Misericordia ci riportano nel «quadrivio napoletano», nella «verità nuda di Forcella» che le ha concepite, «nello sgocciolio delle lenzuola lavate alla peggio e sventolanti a festone sotto la finestra» restituendoci la bellezza del genius loci perché nessun altro luogo espositivo può avere, mai come in questo caso, la forza di accompagnare, accogliere, esaltare e mostrare il primo capolavoro napoletano che le parole del Longhi (1982, p. 104) hanno saputo caratterizzare nella sua più profonda essenza e che la nuova illuminazione realizzata per la mostra consente di apprezzare al meglio.
Ma resta ancora il dubbio sulla possibilità, che ci avrebbe concesso il suo spostamento a Capodimonte, di incontrare le Sette opere di Misericordia così come concepite dal Caravaggio prima dell’allestimento tardo barocco del 1671 nel Pio Monte. Come ricordato dal direttore Bellenger, l’allestimento barocco, allontanando l’opera dallo spettatore, finisce, come accade adesso specialmente osservandolo dal palchetto della quadreria, con l’indirizzare lo sguardo al potere di Dio e dell’angelo, piuttosto che al brulichio delle figure umane che operano la misericordia.
Riferimenti bibliografici
AA.VV., Vite di Caravaggio. Un progetto di F. Valdinoci, Casa dei Libri, Roma 2010.
AA.VV., Dentro Caravaggio, a cura di R. Vodret, Skira, Milano 2017.
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2011.
R. Longhi, Caravaggio, Editori Riuniti, Roma 1982.
R. Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana, BUR, Milano 1999.
J.-L. Nancy, Il ritratto e il suo sguardo, Raffaello Cortina, Milano 2002.