C’è un confine assai mobile tra il vedere e il toccare che proprio l’arte non smetterebbe mai di evocare e che ben può essere esplicato nell’intensa espressione del “sentirsi sentire”. Come nell’auto-affezione merleau-pontyana dove nel momento stesso in cui il toccante è toccato, e discendendo nelle cose passa egli stesso al rango di toccato, il pittore se dipinge «è perché ha visto, perché il mondo ha inciso in lui, una volta almeno, le cifre del visibile». (Merleau-Ponty 1996, p. 24). Implicato in questo formidabile circuito che è come un perenne scivolamento, è il sentimento di una “riflessività” tutta moderna la cui dinamica, l’autore di questo elegante testo sulla pittura di Michelangelo Merisi, Giovanni Careri, non tarda a descrivere come quell’«insieme di dispositivi di costruzione del quadro che sono contemporaneamente un insieme di strategie d’implicazione dello spettatore» (ivi, p. 49). Toccando, insomma, si finisce inevitabilmente per essere toccati: ed è quanto mirabilmente c’insegna la moderna sensibilità dell’apostolo Tommaso ritratta in quello straordinario “oggetto teorico” che è la tela di Potsdam, sulla quale non a caso l’intera argomentazione si schiude. Careri invita a guardare il dipinto come un luogo deputato a un’esperienza del tutto peculiare per lo spettatore impegnato qui in un esercizio che deve permettergli di passare, quasi per contagio, da una posizione all’altra. Esercizio tattile e affettivo insieme.

«Questo modello processuale», spiega l’autore, «poggia sulla contemporaneità dell’attraversamento dell’involucro carnale del corpo di Cristo e del passaggio di Tommaso dall’incredulità alla fede, fenomeno di conversione tutto interiore al quale abbiamo accesso solo attraverso i segni del suo grande stupore». Associandosi prima al Cristo, poi a Tommaso, lo spettatore trascorrerebbe naturalmente da un tipo di ricettività immediata e sensoriale, quella di chi sente il proprio corpo aprirsi, a un tipo di ricettività «a dominante affettiva», quella di chi si sente obbligato a una prova e a un profondo rivolgimento dell’anima. Per questo il potere di questo quadro, la sua incomparabile efficacia, si misurerebbe nelle azioni che esso è in grado di far subire allo spettatore. (ivi, p. 43)

È proprio della riflessività, infatti, generare forme come relazioni. Così come è dell’immanenza e del peso delle cose istituire una certa capacità di dialogo, o proprio di risonanza se vogliamo, con altri oggetti inanimati. Ancora, con Merleau-Ponty, è il pittore che deve lasciarsi penetrare dall’universo: «Quel che si definisce ispirazione dovrebbe essere preso alla lettera: c’è realmente inspirazione ed espirazione dell’Essere, azione e passione così poco distinguibili che non si sa più chi vede e chi viene visto, chi dipinge e chi viene dipinto» (ivi, p. 26).

L’invito che Careri sembra lanciare, consegnandoci tra le mani anche soprattutto un poderoso apparato iconografico, è quello di dispiegare una tale riflessività nei modi di una rinnovata sensibilità anzitutto intesa come affezione, come abbiamo in parte già detto, in quello che si pone come un continuo andirivieni sulle immagini, con le immagini di immagini, tra le immagini, quasi a replicare indefinitamente il gesto di una continua piegatura/spiegatura. Allo stesso modo di Wolfram Pichter il quale pure, dal canto suo, non ha esitato a spiegare con un’intuizione arditissima il succitato dipinto dell’incredulità letteralmente attraverso un gesto della mano e un gesto semplice, comune, come quello di una piegatura, forse quella che è la suprema delle affezioni: strappare nella coscienza il limite stesso che impedisce l’accesso alla fede.

Ridisegnando infatti il bordo esteriore della silhouette dei quattro personaggi coinvolti nell’azione del toccare e del vedere su un lucido da ricalco successivamente ripiegato in due, il Professore ha finito con l’ottenere una coincidenza quasi perfetta dei bordi della silhouette stessa e dunque una sovrapposizione tra la ferita e lo strappo che dischiude la tunica di Tommaso proprio all’altezza della spalla. Lo strappo del tessuto giusto all’altezza della spalla verrebbe allora a marca un altro luogo di articolazione e di piegatura: «È un segno di usura, la traccia di un gesto ripetuto nel lavoro quotidiano, che caratterizza Tommaso come uomo del popolo». Facendo pertanto coincidere, per simmetria, lo strappo con la ferita sul costato del Cristo, il dipinto fa apparire tutta la materialità del supporto: «Il corpo è “strappato” come si strappa il tessuto della tela la cui superficie è simbolicamente penetrata dal dito» (ivi, p. 40).

Ecco, proprio l’aspetto materico, la texture che percorre l’epidermide delle cose (evidenziata nei numerosi dettagli delle tele re-incorniciati dall’autore) impreziosisce il volume di inattesi riflessi; e allora questa pelle (o forse si dovrebbe parlare più specificamente di pellicola) in quanto capace, da sola, di farsi carico di tutta la “vita” di un elemento, mi sembra rappresenti un’evidente appendice di quel movimento del vedere toccantesi che si distende, ampio e denso, nel corso dei dieci capitoli.

Ecco allora, ad esempio, che sfogliando le prime pagine del volume, tutta la sensualità della frutta nel Bacchino malato, intitolato così da Roberto Longhi (Autoritratto di Bacco, 1593- 1594) letteralmente ci viene incontro, viene a noi, c’invita a prenderne con mano per poterne gustare. Non è un caso, infatti, che le pesche e l’uva nera siano disposte sul bordo esterno della tavola e le foglie ne superino il limite. Questa presentazione, è chiaro, sottintende un invito: allo spettatore è offerta la frutta che egli potrà portare alla bocca proprio come fa il giovane nel dipinto. Un superamento del limite del tavolo comparabile secondo Careri a quello delle foglie di vite, si manifesta nel nastro rosso vinaccia «che poggia sulla pietra invitando lo spettatore a scioglierlo, per gustare, con l’uva e le pesche, altri piaceri» (ivi, p. 54).

Non possiamo far altro allora che interrogarci su questo tipo di sollecitazione. Poiché è in questo senso che opera l’idea fondamentale della “fabbrica” che di fatto sottende l’intero progetto del libro, innervandone l’argomentazione. Nel continuo lavoro di smontaggio e rimontaggio delle tele del pittore lombardo che va direttamente a stimolare l’occhio dello “spettatore” di un simile testo, ecco che la stessa “vita in movimento” di quelle immagini può tornare indefinitamente a manifestarsi.

Per questo ci sembra assolutamente feconda l’intuizione del procedere in direzione di un fondamentale eccesso di corpo, per entrare nel vivo dell’attività di quella fabbrica così come venne concepita in primis da Caravaggio stesso, proprio allo scopo di agganciare la carnalità dello spettatore. Queste figure hanno infatti così “troppo corpo”, per riprendere una bella espressione di Roberto Longhi a proposito del Narciso (1597-1598) nella cui rappresentazione direttamente interviene l’azione della riflessività come dispositivo (lo specchio pensato come modello della buona pittura), tanto che il dipinto può essere considerato esso stesso un manifesto teorico. Non a caso Careri viene a cogliere qui un contributo notevole di Caravaggio alla stretta interdipendenza del tatto e della vista:

Basterebbe infatti un benché minimo movimento delle mani per muovere l’acqua e dislocare l’immagine, mentre uno spostamento dello sguardo la farebbe immediatamente scomparire: “Abbracciare con arte quella superficie della fonte” significa qui mantenere l’immobilità delle braccia e degli occhi per situare la pittura in un rapporto con la realtà che non poggia solo sulla vista, ma anche sul tatto, il più “realista” dei sensi. E tuttavia la visione tattile di Narciso è diversa da quella del San Tommaso di Potsdam: laddove il dito dell’apostolo fa l’esperienza della materialità del corpo di Cristo, Narciso tocca un’immagine la cui sostanza liquida non è quella del corpo amato che egli desidera abbracciare. Paragone interessante che, distinguendo il corpo fantasmatico desiderato da Narciso da quello, carnale e divino, del Cristo resuscitato, traccia una delle biforcazioni portanti di tutta la ricerca pittorica di Caravaggio (ivi, p. 70).

Uno «strato di ferale umanità», sono ancora parole di Longhi riferite al corpus unico di Caravaggio, capace di «custodire una quasi immanente autorità dei gesti e dei sentimenti». E qui davvero lo storico dell’arte italiano sembra porsi chiaramente dalla parte di Warburg circa la sopravvivenza di una gestualità antica, come ben evidenzia Careri, ma in un certo senso egli giunge a complicarne, ispessirne il motivo, alludendo appunto a una «quasi immanente autorità». Questa immanente autorità, ho idea, allude proprio a quel limite che nelle tele di Caravaggio, come dimostra bene Careri, nel momento stesso in cui è tracciato è già insieme trasceso. Un limite che è come una soglia d’intensità, a tutti gli effetti. Ed è qui che risiede il nostro affetto, come la nostra passione. Al superamento di questo limite costitutivo, che ci è dato finanche toccare e che è in grado di trasformare un io vedo in un «IO SENTO, sensazione totalmente fisiologica» per dirla con le parole di Gilles Deleuze, corrisponde la crisi estatica del montaggio secondo Sergei M. Ėjzenštejn.

Fin troppo spesso, nelle sue opere, Caravaggio tenderebbe mirabilmente a innescare un meccanismo di «fuoriuscita di sé» proprio muovendo da una soglia. Ricordiamo infatti che nell’idea del grande regista sovietico, l’uomo in quanto essere materiale «grumo di materia» (così egli lo definisce), partecipa di un’universale legalità. Egli è pertanto capace di riflettere sulla materia e sulle sue leggi tanto da tenere un atteggiamento scientifico, «oggettivante». Allo stesso tempo però, egli è anche capace di provare un puro sentimento di partecipazione, o ancor meglio, di vera e propria comunione. È questo il fondamento antropologico dell’estasi. Ed è qui che irrompe allora la potenza del gesto come fondamentale principio di metamorfosi. Si pensi anche solo alla scena costruita attorno alla Vocazione di San Matteo (1599-1600) dove la mano tesa di Cristo ha tutto il potere, da sola, di sospendere l’azione tramite la proiezione selettiva della luce, comparabile proprio a una delle forme di montaggio interno al piano cinematografico predilette dal regista sovietico.

Il montaggio infatti non deve limitarsi all’interruzione di un’azione e a permettere una connessione tra luoghi diversi. Deve fare di più. Ancora una volta deve farsi capace di rivelare un limite. In questo caso, si tratta di «fare uscire fuori di sé» la pittura di genere attraverso un processo «estatico», di superamento, insiste Careri, «di un limite tra generi che trova corrispondenza narrativa nell’imminente conversione di Matteo». Se è vero infatti che tutti i dipinti contemporanei abbiano trattato la vocazione nell’ambito del genere «nobile» della pittura di storia, come dunque un avvenimento già compiuto e degno di memoria, in questo Caravaggio la conversione assume piuttosto «la modalità incoativa di un evento incipiente» (ivi, p. 194). Il superamento estatico, con la conversione di Matteo, verrebbe a implicare per la prima volta l’apertura di un orizzonte trascendente rispetto alla condizione di chi è immerso nella vita di tutti i giorni. La soglia è dunque questo trascendimento imminente e non rappresentato.

E la vocazione in questo caso chiama la vocazione stessa; «è come un’urgenza», ha scritto Giorgio Agamben, «che la lavora e scava dall’interno, la nullifica nel gesto stesso in cui si mantiene in essa, in cui dimora in essa». Per questo affezione non può che essere ancora una volta questo trans-apparire, che è ben altra cosa dalla mera partecipazione a un contenuto, altra cosa da una comprensione. Allora, forse, una mostranza come solo quella che può darsi, non a caso, al cinema come intensivo della presenza. Ed è qui allora che ci sembra di scoprire ciò che muove in profondità il complesso ingranaggio di questo libro: nella volontà di rimontare ancora una volta quei gesti, dispiegando a tutti gli effetti un’armatura visiva del pensiero dell’artista, restituendocene intatta la plasticità e dinamicità, come si trattasse di fotogrammi, appunto.

In un assembalge che non può che rivelare profonda coerenza «con una forma di realismo che prevede che ciò che si trova più in basso possa trasfigurarsi in ciò che sta più in alto, conformemente al destino di Cristo, l’umiliato che si rivela sublime, vincendo la morte» (ivi, p. 334), questo Caravaggio è dunque una vera fabbrica, l’abbiamo detto; affare di materia, di tagli, ma soprattutto di circolazione. È come infatti se il libro (la fabbrica stessa) si aprisse su tante finestre da cui penerebbero tanti piccoli vortici. Da qui una impressione generale di scompaginamento e conflitto; possibilità continuamente rilanciata di sfogliare i ripiegamenti della materia, come le pieghe di un’anima. Da qui l’occhio può incontrare ancora l’universo e nell’universo scovare il «foro interiore»; il tocco della Grazia, sia pure su un drappo, una pietra, una pianta.

Riferimenti bibliografici
A. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla «Lettera ai romani» , Bollati Boringhieri, Torino 2000.
G. Careri, Caravaggio. La fabbrica dello spettatore, Jaca Book, Milano 2017.
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Milano 2017.
R. Longhi, Caravaggio, Abscondida, Milano 2013.
M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1996.

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